Dopo il trentennio 1945-1975, i “Trenta gloriosi”, la forte ondata anti-keynesiana ha generato una polarizzazione dei redditi tanto che l’ultimo rapporto della Oxfam attesta come 85 super paperoni possiedano l’equivalente di metà della popolazione mondiale. La redistribuzione delle ricchezze appare la battaglia cardine e passa anche per nuove politiche fiscali mirate a “colpire” grandi capitali e patrimoni.
di Marta Fana e Giacomo Russo Spena
di Marta Fana e Giacomo Russo Spena
Come non detto, si sono sbagliati. Crollano, d’un tratto, teorie e tabù. Anni di politiche economiche rivelatesi un fallimento. Persino il Fondo Monetario Internazionale[1] e l’Ocse[2] sono costretti alla confessione: le disuguaglianze economiche e sociali danneggiano la crescita mentre la liberalizzazione del mercato del lavoro ha contribuito a farle aumentare già prima dello scoppio della crisi.
Dopo il trentennio 1945-1975, i “Trenta gloriosi”, la forte ondata anti-keynesiana ha portato a misure incentrate su privatizzazioni, deregulation del mercato finanziario, taglio della spesa sociale, aumento della tassazione sul lavoro – piuttosto che di quella sui profitti e sul reddito da capitale – liberalizzazione del mercato del lavoro, il tutto riducendo la progressività delle aliquote e frenando le politiche distributive e redistributive.
Il rapporto di ricerca Working for The Few della Oxfam[3] evidenzia come dalla fine del 1970 la tassazione per i più ricchi sia diminuita in 29 Paesi sui 30 per i quali erano disponibili dati. Ovvero: i ricchi non solo guadagnano di più, ma pagano meno tasse.
La polarizzazione dei redditi e delle ricchezze diventa una costante in tutti gli Stati del G7 e non solo. Dagli anni Ottanta l’aumento delle disparità di reddito è particolarmente marcato nel Regno Unito, Usa e Canada. In Italia sale nei primi anni Novanta per stanziarsi, da subito, ad un livello elevato. Per la prima volta, si evidenzia un aumento del divario tra ricchi e poveri anche in Paesi tradizionalmente caratterizzati da bassa disuguaglianza come la Germania.
Eppure, secondo gli economisti ortodossi era un bene per la crescita, la diseguaglianza veniva vista come una risorsa per far funzionare meglio l’economia, per incentivare i singoli alla competizione. Un danno collaterale da valorizzare e che si sarebbe “riassorbito” automaticamente, secondo l’ormai smentita trickle down theory. Al limite, il problema era rappresentato dalla povertà, cosa – secondo loro – ben diversa dal discorso della diseguaglianza.
Il padre spirituale di tale pensiero era Simon Kuznets che nel 1955 con un grafico esplicativo descrisse la relazione tra disuguaglianza e prosperità come una U rovesciata, la cosiddetta Curva di Kuznets. Una teoria considerata infallibile, secondo cui la crescita avrebbe in un primo momento aumentato le disuguaglianze ma nel medio e lungo termine le avrebbe ridotte, in quanto, si diceva, la crescita avrebbe beneficiato tutti. Peccato che per l’Economist si è “interrotta almeno nelle economie avanzate”. Oggi la U rovesciata è diventata una N inclinata, con l’ultima gamba minacciosamente puntata verso l’alto a ricordarci che la crescita non è uguale per tutti.
Già prima della crisi del 2008, infatti, la disuguaglianza aumenta nei Paesi dell’OCSE[4] aiutata egregiamente dalla liberalizzazione del mercato del lavoro. Cade, per l’ennesima volta, un caposaldo della teoria ortodossa. Se finora avevamo potuto rigettare l’idea secondo cui meno diritti e stabilità del lavoro avrebbero portato a più occupazione, oggi i fatti confermano che la precarietà lavorativa è un fattore discriminante che induce maggiore disuguaglianza.
Dal 2008 in poi, con l’esplosione della crisi globale il quadro è drammaticamente peggiorato. La crisi si è mostrata un’occasione per inasprire la lotta di classe, stavolta dall’alto contro il basso della piramide secondo la fortunata espressione coniata dal sociologo Luciano Gallino.
L’Europa ha reagito al crollo economico e finanziario con dosi da cavallo di austerità che hanno aumentato la diseguaglianza, depresso l’economia e peggiorato sensibilmente l’assetto delle finanze pubbliche in un circolo vizioso che non sembra aver fine.
Nel concreto, le cosiddette riforme strutturali hanno precarizzato ulteriormente il lavoro e le politiche di consolidamento fiscale – tra aumento della tassazione e riduzione della spesa sociale – si sono abbattute negativamente sulla popolazione che più ha sofferto della liberalizzazione del mercato del lavoro (giovani, donne e migranti) e sulla classe media impiegatizia – che ha subito il blocco delle retribuzioni.
L’Italia, insieme ai Paesi dell’Europa mediterranea, è stata tra le più colpite dal consolidamento fiscale, ma a differenza di molti altri (tranne la Grecia) non era, e continua a non esser dotata, di un sistema di welfare moderno che sostenga il reddito dei lavoratori tipici e della folta schiera di precari che da metà anni ’90 caratterizzano il mercato del lavoro. Secondo quanto riporta l’Ocse[5], in Italia il sistema di welfare, tassazione più trasferimenti, non soltanto non è in grado di ridurre la povertà generata dalla precarietà, ma addirittura la fa aumentare.
Dopo il trentennio 1945-1975, i “Trenta gloriosi”, la forte ondata anti-keynesiana ha portato a misure incentrate su privatizzazioni, deregulation del mercato finanziario, taglio della spesa sociale, aumento della tassazione sul lavoro – piuttosto che di quella sui profitti e sul reddito da capitale – liberalizzazione del mercato del lavoro, il tutto riducendo la progressività delle aliquote e frenando le politiche distributive e redistributive.
Il rapporto di ricerca Working for The Few della Oxfam[3] evidenzia come dalla fine del 1970 la tassazione per i più ricchi sia diminuita in 29 Paesi sui 30 per i quali erano disponibili dati. Ovvero: i ricchi non solo guadagnano di più, ma pagano meno tasse.
La polarizzazione dei redditi e delle ricchezze diventa una costante in tutti gli Stati del G7 e non solo. Dagli anni Ottanta l’aumento delle disparità di reddito è particolarmente marcato nel Regno Unito, Usa e Canada. In Italia sale nei primi anni Novanta per stanziarsi, da subito, ad un livello elevato. Per la prima volta, si evidenzia un aumento del divario tra ricchi e poveri anche in Paesi tradizionalmente caratterizzati da bassa disuguaglianza come la Germania.
Eppure, secondo gli economisti ortodossi era un bene per la crescita, la diseguaglianza veniva vista come una risorsa per far funzionare meglio l’economia, per incentivare i singoli alla competizione. Un danno collaterale da valorizzare e che si sarebbe “riassorbito” automaticamente, secondo l’ormai smentita trickle down theory. Al limite, il problema era rappresentato dalla povertà, cosa – secondo loro – ben diversa dal discorso della diseguaglianza.
Il padre spirituale di tale pensiero era Simon Kuznets che nel 1955 con un grafico esplicativo descrisse la relazione tra disuguaglianza e prosperità come una U rovesciata, la cosiddetta Curva di Kuznets. Una teoria considerata infallibile, secondo cui la crescita avrebbe in un primo momento aumentato le disuguaglianze ma nel medio e lungo termine le avrebbe ridotte, in quanto, si diceva, la crescita avrebbe beneficiato tutti. Peccato che per l’Economist si è “interrotta almeno nelle economie avanzate”. Oggi la U rovesciata è diventata una N inclinata, con l’ultima gamba minacciosamente puntata verso l’alto a ricordarci che la crescita non è uguale per tutti.
Già prima della crisi del 2008, infatti, la disuguaglianza aumenta nei Paesi dell’OCSE[4] aiutata egregiamente dalla liberalizzazione del mercato del lavoro. Cade, per l’ennesima volta, un caposaldo della teoria ortodossa. Se finora avevamo potuto rigettare l’idea secondo cui meno diritti e stabilità del lavoro avrebbero portato a più occupazione, oggi i fatti confermano che la precarietà lavorativa è un fattore discriminante che induce maggiore disuguaglianza.
Dal 2008 in poi, con l’esplosione della crisi globale il quadro è drammaticamente peggiorato. La crisi si è mostrata un’occasione per inasprire la lotta di classe, stavolta dall’alto contro il basso della piramide secondo la fortunata espressione coniata dal sociologo Luciano Gallino.
L’Europa ha reagito al crollo economico e finanziario con dosi da cavallo di austerità che hanno aumentato la diseguaglianza, depresso l’economia e peggiorato sensibilmente l’assetto delle finanze pubbliche in un circolo vizioso che non sembra aver fine.
Nel concreto, le cosiddette riforme strutturali hanno precarizzato ulteriormente il lavoro e le politiche di consolidamento fiscale – tra aumento della tassazione e riduzione della spesa sociale – si sono abbattute negativamente sulla popolazione che più ha sofferto della liberalizzazione del mercato del lavoro (giovani, donne e migranti) e sulla classe media impiegatizia – che ha subito il blocco delle retribuzioni.
L’Italia, insieme ai Paesi dell’Europa mediterranea, è stata tra le più colpite dal consolidamento fiscale, ma a differenza di molti altri (tranne la Grecia) non era, e continua a non esser dotata, di un sistema di welfare moderno che sostenga il reddito dei lavoratori tipici e della folta schiera di precari che da metà anni ’90 caratterizzano il mercato del lavoro. Secondo quanto riporta l’Ocse[5], in Italia il sistema di welfare, tassazione più trasferimenti, non soltanto non è in grado di ridurre la povertà generata dalla precarietà, ma addirittura la fa aumentare.
La crisi economica diventa anche civile, morale e politica. E’ necessario un ripensamento profondo del nostro patto di convivenza, forti dell’esperienza che la storia ci restituisce. L’eguaglianza, il faro. Un nuovo paradigma da seguire. I numeri ce lo confermano.
Sempre in base ai dati di Oxfam, 85 super ricchi possiedono l’equivalente di metà della popolazione mondiale e l’1% detiene circa la metà della ricchezza planetaria. Altri dati, per far capire le dimensioni del fenomeno: il reddito dell’1% dei più ricchi ammonta a 110.000 miliardi di dollari, 65 volte il totale della ricchezza della metà della popolazione più povera del mondo, ed ha aumentato la propria quota di reddito in 24 su 26 dei Paesi con dati analizzabili tra il 1980 e il 2012. L’Italia non fa eccezione, il 10% più ricco detiene il 46% della ricchezza privata nazionale.
Come scrive Marco Revelli in La lotta di classe esiste e l’hanno vinta i ricchi (Laterza editore) “se abbiamo a cuore la vita delle giraffe resta valido il monito di Keynes a non trascurare le sofferenze di quelle dal collo più corto, che sono affamate, né le dolci foglie che cadono a terra e che vengono calpestate nella lotta, né la supernutrizione delle giraffe dal collo lungo, né il cattivo aspetto di ansietà e voracità combattiva che copre i miti visi del gregge”. Le giraffe dai colli lunghissimi sarebbero rappresentate dagli uomini di banca e dagli speculatori finanziari, dai manager di grandi imprese e da quegli imprenditori che preferiscono accumulare profitti e portarli all’estero piuttosto che reinvestirli in attività produttive e contribuire realmente alla creazione della ricchezza nazionale.
La Spagna è il Paese europeo nel quale maggiormente si è ampliata la forbice tra redditi alti e medio bassi con il ceto medio totalmente polverizzato e coinvolto, durante l’esplosione della bolla immobiliare, nel dramma della requisizione delle case per il mancato pagamento della rata mensile.
Il repentino successo di Podemos è frutto anche di una martellante campagna sulla redistribuzione delle ricchezze. Non politiche bolsceviche, la riscoperta di Keynes in questa Europa sembra già qualcosa di rivoluzionario. Sotto la spinta degli Indignados e del pensiero del filosofo post-marxista Ernesto Laclau, il partito di Pablo Iglesias ha inaugurato un nuovo obiettivo: non più la maggioranza politica del 51%, ma il 99% contro l’1% oligarchico e antidemocratico di “super privilegiati”.
Sempre in base ai dati di Oxfam, 85 super ricchi possiedono l’equivalente di metà della popolazione mondiale e l’1% detiene circa la metà della ricchezza planetaria. Altri dati, per far capire le dimensioni del fenomeno: il reddito dell’1% dei più ricchi ammonta a 110.000 miliardi di dollari, 65 volte il totale della ricchezza della metà della popolazione più povera del mondo, ed ha aumentato la propria quota di reddito in 24 su 26 dei Paesi con dati analizzabili tra il 1980 e il 2012. L’Italia non fa eccezione, il 10% più ricco detiene il 46% della ricchezza privata nazionale.
Come scrive Marco Revelli in La lotta di classe esiste e l’hanno vinta i ricchi (Laterza editore) “se abbiamo a cuore la vita delle giraffe resta valido il monito di Keynes a non trascurare le sofferenze di quelle dal collo più corto, che sono affamate, né le dolci foglie che cadono a terra e che vengono calpestate nella lotta, né la supernutrizione delle giraffe dal collo lungo, né il cattivo aspetto di ansietà e voracità combattiva che copre i miti visi del gregge”. Le giraffe dai colli lunghissimi sarebbero rappresentate dagli uomini di banca e dagli speculatori finanziari, dai manager di grandi imprese e da quegli imprenditori che preferiscono accumulare profitti e portarli all’estero piuttosto che reinvestirli in attività produttive e contribuire realmente alla creazione della ricchezza nazionale.
La Spagna è il Paese europeo nel quale maggiormente si è ampliata la forbice tra redditi alti e medio bassi con il ceto medio totalmente polverizzato e coinvolto, durante l’esplosione della bolla immobiliare, nel dramma della requisizione delle case per il mancato pagamento della rata mensile.
Il repentino successo di Podemos è frutto anche di una martellante campagna sulla redistribuzione delle ricchezze. Non politiche bolsceviche, la riscoperta di Keynes in questa Europa sembra già qualcosa di rivoluzionario. Sotto la spinta degli Indignados e del pensiero del filosofo post-marxista Ernesto Laclau, il partito di Pablo Iglesias ha inaugurato un nuovo obiettivo: non più la maggioranza politica del 51%, ma il 99% contro l’1% oligarchico e antidemocratico di “super privilegiati”.
La Spagna è lontana ma quanto mai vicina. Da noi, a differenza, si parla poco e male di disuguaglianza. Un modo per contrastarla passa per la proposta di un nuovo sistema fiscale e di redistribuzione di beni e servizi pubblici (tra cui immobili, aree verdi etc) in balìa delle privatizzazioni. In Italia le tasse sono un tabù e se ne discute soltanto per richiedere un abbassamento generalizzato. Capiamo meglio, numeri alla mano.
Il totale delle nostre entrate pubbliche è pari a 753 miliardi di euro, ossia il 48,1 per cento del Pil, la spesa pubblica italiana si attesta a quella degli altri Paesi europei. Come ha osservato Innocenzo Cipolletta “la pressione fiscale che sopportiamo è giusta come ammontare complessivo, ma è mal distribuita. Occorre contrastare seriamente l’evasione fiscale” [5], che come è noto si concentra maggiormente lì dove i redditi sono più elevati. Oltre, ovviamente, all’introduzione di un vero sistema a scaglioni che porterebbe ad aliquote più alte in proporzione al reddito dell’individuo.
Al contrario, la Flat tax, tassazione unica al 15 per cento per l’intera popolazione, proposta da Matteo Salvini (ma anche da Forza Italia) è innanzitutto impossibile da sostenere e, soprattutto, senza voler scomodare la già travagliata Costituzione che impone la progressività del sistema fiscale, è una tassa regressiva: le entrate per lo Stato diminuirebbero notevolmente (quasi 100 miliardi ogni anno) dato che chi oggi ha un reddito tale da pagare aliquote marginali tra il 21 e il 43%, pagherebbe molto meno, così come le aziende dato l’abbattimento dell’Ires e dell’Irap.
Gli effetti negativi si ripercuoterebbero sulle classi meno abbienti: le minori entrate fiscali si tradurrebbero in minore spesa per servizi e beni pubblici (scuola, asili, trasporto pubblico, sanità, acqua, spazi pubblici, ecc..), di cui proprio le fasce più povere della popolazione e il ceto medio impoverito beneficiano maggiormente. Inoltre, la soglia di esenzione della tassazione verrebbe ridotta a 3000 euro, imponendo a tutti coloro con un reddito compreso tra i 3000 e gli 8000, che attualmente non pagano tasse sul reddito, l’imposta al 15%. Ad esempio – scrive Daveri su lavoce.info – “un contribuente singolo con reddito di 10.000 euro che oggi paga di imposte 460 euro, pagherebbe [con la flat tax ] 1050 euro”.
Mentre da destra si chiede l’introduzione di sistemi regressivi a danno della maggioranza della popolazione, in pochi, anche a sinistra, provano a ribaltare il grande dogma – smentito più volte dall’economista Mariana Mazzucato[6] - che siano le imprese gli unici attori economici capaci di creare ricchezza. Convinzione che ha portato a una riduzione della tassazione sul reddito di impresa lasciando che la quota profitti aumentasse rispetto a quella del reddito da lavoro sul totale del reddito nazionale.
In Italia, ad esempio tra il 2006 e il 2015, il congiunto tra Ires e Irap è diminuito dal 37 al 31,4%, come riporta un rapporto di Kpmg[7]. Ma gli sperati miracoli da parte delle imprese non sono arrivati: in Italia si investe sempre meno e l’occupazione non è aumentata in modo significativo qualitativamente e quantitativamente a seguito degli sgravi e della riduzione delle tutele per i lavoratori. Se la riduzione della tassazione dei profitti è diffusa a livello globale, esiste ancora la possibilità che essa sia comunque definita su base progressiva, come in Francia, ad esempio, dove le aziende con reddito d’impresa superiore ai 760.000 euro pagano un’aliquota del 3.3% superiore alla media, mentre per le aziende sopra i 250 milioni la tassa aumenta del 10.7%.
Ristabilire maggiore equità significa non solo operare una maggiore redistribuzione, ma evitare la concentrazione delle risorse nelle mani di pochi. I “Trenta gloriosi” furono caratterizzati sia da redistribuzione che da un netto aumento della diffusione della ricchezza tra tutte le fasce della società che si accompagnava a una crescita consistente dei salari.
Lo spirito di quegli anni, così come il conflitto sociale sottostante, sembrano essere stati sconfitti dalla lotta di classe dall’alto verso il basso, così come dimostra la tendenza a ridurre le tasse sui redditi e sulla ricchezza ereditata (una tra le tante varianti della famigerata “patrimoniale”) che nulla ha a che fare con i meriti e la buona volontà dei singoli, ma dipende dalla fortuna di nascere in una famiglia agiata piuttosto che economicamente povera. Allo stesso tempo è necessario che i piccoli risparmi siano incoraggiati piuttosto che tassati come fossero rendite finanziarie, ovvero come ha fatto il governo Renzi da ultimo aumentando le aliquote (ovviamente uguali per tutti) sui fondi pensione, che si abbattono come una patrimoniale proprio sui piccoli risparmiatori, giovani precari e famiglie piuttosto che sui grandi capitali, contro qualsiasi principio di progressività fiscale ancor prima che di equità.
La lotta alle disuguaglianze passa anche per nuove politiche fiscali mirate a “colpire” grandi capitali e patrimoni soprattutto quando non reinvestiti in attività produttive. Perché in Italia la redistribuzione delle ricchezze non resti una chimera.
NOTE
[1] Causes and Consequences of Income Inequality: A Global Perspective (2015)
[2] In It Together: Why Less Inequality Benefits All (2015)
[3] http://www.oxfamitalia.org/dal-mondo/la-grande-disuguaglianza (2015)
[4] In It Together: Why Less Inequality Benefits All (2015), capitolo 1: Overview of inequality trends, key findings and policy directions
[5] In It Together: Why Less Inequality Benefits All (2015), capitolo 4: non-standard work, job polarisation and inequality, pag 179 5 “In Italia paghiamo troppe tasse. Falso!”, Innocenzo Cipolletta (Laterza editore 2014)
[6] La ricchezza giusta per la sinistra, Mariana Mazzucato, La Repubblica, 16 giugno 2015
[7] Corporate Tax rate 2006-2014, KPMG
Il totale delle nostre entrate pubbliche è pari a 753 miliardi di euro, ossia il 48,1 per cento del Pil, la spesa pubblica italiana si attesta a quella degli altri Paesi europei. Come ha osservato Innocenzo Cipolletta “la pressione fiscale che sopportiamo è giusta come ammontare complessivo, ma è mal distribuita. Occorre contrastare seriamente l’evasione fiscale” [5], che come è noto si concentra maggiormente lì dove i redditi sono più elevati. Oltre, ovviamente, all’introduzione di un vero sistema a scaglioni che porterebbe ad aliquote più alte in proporzione al reddito dell’individuo.
Al contrario, la Flat tax, tassazione unica al 15 per cento per l’intera popolazione, proposta da Matteo Salvini (ma anche da Forza Italia) è innanzitutto impossibile da sostenere e, soprattutto, senza voler scomodare la già travagliata Costituzione che impone la progressività del sistema fiscale, è una tassa regressiva: le entrate per lo Stato diminuirebbero notevolmente (quasi 100 miliardi ogni anno) dato che chi oggi ha un reddito tale da pagare aliquote marginali tra il 21 e il 43%, pagherebbe molto meno, così come le aziende dato l’abbattimento dell’Ires e dell’Irap.
Gli effetti negativi si ripercuoterebbero sulle classi meno abbienti: le minori entrate fiscali si tradurrebbero in minore spesa per servizi e beni pubblici (scuola, asili, trasporto pubblico, sanità, acqua, spazi pubblici, ecc..), di cui proprio le fasce più povere della popolazione e il ceto medio impoverito beneficiano maggiormente. Inoltre, la soglia di esenzione della tassazione verrebbe ridotta a 3000 euro, imponendo a tutti coloro con un reddito compreso tra i 3000 e gli 8000, che attualmente non pagano tasse sul reddito, l’imposta al 15%. Ad esempio – scrive Daveri su lavoce.info – “un contribuente singolo con reddito di 10.000 euro che oggi paga di imposte 460 euro, pagherebbe [con la flat tax ] 1050 euro”.
Mentre da destra si chiede l’introduzione di sistemi regressivi a danno della maggioranza della popolazione, in pochi, anche a sinistra, provano a ribaltare il grande dogma – smentito più volte dall’economista Mariana Mazzucato[6] - che siano le imprese gli unici attori economici capaci di creare ricchezza. Convinzione che ha portato a una riduzione della tassazione sul reddito di impresa lasciando che la quota profitti aumentasse rispetto a quella del reddito da lavoro sul totale del reddito nazionale.
In Italia, ad esempio tra il 2006 e il 2015, il congiunto tra Ires e Irap è diminuito dal 37 al 31,4%, come riporta un rapporto di Kpmg[7]. Ma gli sperati miracoli da parte delle imprese non sono arrivati: in Italia si investe sempre meno e l’occupazione non è aumentata in modo significativo qualitativamente e quantitativamente a seguito degli sgravi e della riduzione delle tutele per i lavoratori. Se la riduzione della tassazione dei profitti è diffusa a livello globale, esiste ancora la possibilità che essa sia comunque definita su base progressiva, come in Francia, ad esempio, dove le aziende con reddito d’impresa superiore ai 760.000 euro pagano un’aliquota del 3.3% superiore alla media, mentre per le aziende sopra i 250 milioni la tassa aumenta del 10.7%.
Ristabilire maggiore equità significa non solo operare una maggiore redistribuzione, ma evitare la concentrazione delle risorse nelle mani di pochi. I “Trenta gloriosi” furono caratterizzati sia da redistribuzione che da un netto aumento della diffusione della ricchezza tra tutte le fasce della società che si accompagnava a una crescita consistente dei salari.
Lo spirito di quegli anni, così come il conflitto sociale sottostante, sembrano essere stati sconfitti dalla lotta di classe dall’alto verso il basso, così come dimostra la tendenza a ridurre le tasse sui redditi e sulla ricchezza ereditata (una tra le tante varianti della famigerata “patrimoniale”) che nulla ha a che fare con i meriti e la buona volontà dei singoli, ma dipende dalla fortuna di nascere in una famiglia agiata piuttosto che economicamente povera. Allo stesso tempo è necessario che i piccoli risparmi siano incoraggiati piuttosto che tassati come fossero rendite finanziarie, ovvero come ha fatto il governo Renzi da ultimo aumentando le aliquote (ovviamente uguali per tutti) sui fondi pensione, che si abbattono come una patrimoniale proprio sui piccoli risparmiatori, giovani precari e famiglie piuttosto che sui grandi capitali, contro qualsiasi principio di progressività fiscale ancor prima che di equità.
La lotta alle disuguaglianze passa anche per nuove politiche fiscali mirate a “colpire” grandi capitali e patrimoni soprattutto quando non reinvestiti in attività produttive. Perché in Italia la redistribuzione delle ricchezze non resti una chimera.
NOTE
[1] Causes and Consequences of Income Inequality: A Global Perspective (2015)
[2] In It Together: Why Less Inequality Benefits All (2015)
[3] http://www.oxfamitalia.org/dal-mondo/la-grande-disuguaglianza (2015)
[4] In It Together: Why Less Inequality Benefits All (2015), capitolo 1: Overview of inequality trends, key findings and policy directions
[5] In It Together: Why Less Inequality Benefits All (2015), capitolo 4: non-standard work, job polarisation and inequality, pag 179 5 “In Italia paghiamo troppe tasse. Falso!”, Innocenzo Cipolletta (Laterza editore 2014)
[6] La ricchezza giusta per la sinistra, Mariana Mazzucato, La Repubblica, 16 giugno 2015
[7] Corporate Tax rate 2006-2014, KPMG
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