Non si farà rosolare a fuoco lento, non rimarrà incollato
alla poltrona. Come sta facendo Ignazio Marino, sussurra qualche
maligno. Ma soprattutto come ha fatto Roberto Cota, rimasto appeso per
quattro anni alla sentenza definitiva sulle firme false che alla fine
decretò l'annullamento delle elezioni. Sergio Chiamparino non ci sta.
Non vuole che ci sia nemmeno un'ombra che macchi una carriera
specchiata. Per cui, se il 9 luglio il Tar si pronuncerà a favore del ricorso presentato dalla Lega, trarrà le sue conclusioni e si dimetterà.
Sono
ore drammatiche per il partito in Piemonte. "Quando entri nella sede
del partito c'è un clima terribile, tutti che strisciano lungo i muri,
che si guardano di sottecchi", racconta con la voce grave un
parlamentare sabaudo. Perché è la filiera Democratica regionale che
viene pesantemente messa sotto accusa dal presidente. Un modo di dire
"io non c'entro nulla con voi, non pago con la mia reputazione vostri
errori".
I sostenitori del "Chiampa", come viene affettuosamente
chiamato dai suoi attaccano a testa bassa: "Se devi raccogliere le firme
devi farlo bene, non puoi farlo in maniera approssimativa". E ancora:
"Si deve ribadire la differenza e l'estraneità di Sergio da un sistema
politico che dimostra una così incredibile superficialità".
A
Torino e dintorni è iniziata da settimane quella che viene definita
"Rimbalzopoli". Viene messa sotto accusa la segreteria regionale, che
scarica il barile su quella provinciale, che mette sotto accusa i
certificatori, che attaccano i responsabili della raccolta firme. Una
girandola di veleni e maldicenze che è arrivata a colpire perfino i
semplici dipendenti del partito.
Tecnicamente la faccenda è
complicata. Ma è riassumibile così: chi doveva autenticare le firme
delle liste non era presente al momento di farlo. Tanto che alcuni
sottoscrittori hanno detto di non riconoscere i pubblici ufficiali che
dovevano essere presenti al momento dell'autografo, e alcuni dei
pubblici ufficiali stessi hanno spiegato candidamente che le firme
apposte sotto alcuni moduli non erano le loro.
Il Tar può seguire
quattro strade: respingere il ricorso; rinviare tutto all'autunno per
ulteriori approfondimenti; accogliere le osservazioni ma attendere
l'evolversi del procedimento penale prima di esprimersi; accogliere il
ricorso. In questi ultimi due casi Chiamparino ha annunciato con
chiarezza che mollerà. Nonostante il pressing che arriva da Roma. Il
vicesegretario Lorenzo Guerini da giorni ripete che tutto il partito è
con lui e che sulla faccenda delle dimissioni deve ripensarci. E, dietro
di lui, anche Matteo Renzi è in costante pressing. Spiega un deputato a
lui vicino: "Piuttosto che perdere il Piemonte, fossi in lui, mi
taglierei una mano. Se rivinci hai fatto il tuo, se perdi, o se vinci
con meno dell'ultima volta con percentuali superiori al 60%, ti si apre
un problema enorme".
Eppure da quell'orecchio l'ex sindaco di
Torino non ci sente. L'ultima risposta "all'amico Guerini" è arrivata
oggi. Ed è perentoria: "Non credo che i nostri elettori, e nemmeno in
generale tutti i piemontesi, siano d'accordo nel vedermi ripetere quanto
ha fatto Roberto Cota, che ha anteposto l’attaccamento alla poltrona
alla legalità e alla certezza dell’azione di governo".
Il partito è
sotto shock, "dominato dalle correnti e dai capibastone". Due anni fa
sarebbe bastato che il gruppo consiliare uscente certificasse le liste, e
il pasticcio si sarebbe evitato. Ma, spiegano, il timore era quello
che, essendo stato il Consiglio di Cota annullato, si potesse prestare
il fianco a ricorsi. E quando si paventò l'ipotesi di far certificare il
faldone ai gruppi nazionali, subentrò l'orgoglio del campanile.
Un
orgoglio che oggi rischia di costare carissimo. Da Torino spiegano che
il pressing di Renzi è forte anche in considerazione che il vertice
apicale del partito, il segretario regionale Davide Gariglio, è un renziano di ferro della prima ora,
considerato vicino al potente senatore Stefano Lepri. E quell'accusa di
"superficialità" che arriva direttamente dalle stanze della presidenza
rischia di terremotare uno dei pochi sistemi regionali che si avviavano a
marcare la discontinuità nei confronti della Ditta di bersaniana
memoria.
Ma il segretario è finito nell'occhio del ciclone. I suoi
detrattori lo accusano di essere stato indirettamente la causa del
pasticcio, avendo fatto pressioni per infilare nel listino del
presidente un suo uomo, il tesoriere regionale Domenico Mangone,
nonostante le contrarietà dell'allora candidato Chiamparino, e
convincendosi solo all'ultimo di virare su una donna, Valentina Caputo.
Portando avanti il tira e molla fino a tre giorni prima della
presentazione delle liste, provocando così quella corsa forsennata le
cui conseguenze oggi sono sotto gli occhi di tutti. Il segretario
provinciale Fabrizio Morri ha candidamente spiegato che i tempi così
esigui furono dovuti a "un problema politico, non roganizzativo"
Lo stesso Mangone è stato uno dei quattro membri di una commissione interna al partito, incaricata di fare luce su quel che era successo.
Una relazione, spiega uno degli interessati, che conteneva "la
consapevolezza che quella documentazione era raffazzonata, e che lo era
per una precisa responsabilità politica".
Così, mentre Renzi
lavora per scongiurare un'altro patatrac dopo l'imbarazzante vicenda di
Vincenzo De Luca e il clima da fine impero che si respira a Roma, e i
renziani tentano in tutti i modi di arginare una slavina che li
travolgerebbe, sono i Giovani Turchi a schierarsi compattamente attorno
al presidente, difendendo quella che ritengono "una scelta di grande
integrità morale e politica". "La penso come Chiamparino", ha fatto sapere il senatore Stefano Esposito.
Chi,
fino a un mese fa, giurava che il rischio elezioni era un'ipotesi
irreale, oggi si è spostato su una posizione di 50 e 50. Non subito,
però. Perché, dal momento dell'addio, la legge prescrive che la Regione
debba tornare al voto entro tre mesi. Uno scenario troppo esasperato
anche per i difensori di Chiamparino. Così la strategia dovrebbe essere
quella, in caso di cattive notizie dal Tar, di annunciare le dimissioni
per il prossimo gennaio-febbraio, in modo da consentire un'unica tornata
amministrativa insieme al capoluogo.
Anche perché un abbandono
immediato pregiudicherebbe lo sblocco della prima trance dei fondi
europei, il cui piano regionale è in drittura d'arrivo. Che
significherebbe il blocco, tra le altre cose, della formazione
professionale e il rinvio sine die di una lunga serie di incentivi alle
imprese.
I piani del presidente sembrano comunque chiari:
ricandidarsi, chiedendo di fatto di svolgere, anche se informalmente, il
ruolo di commissario del partito. Il che equivale a niente
condizionamenti su candidature, listino e giunta, niente influenza dei
capibastone e, ovviamente, niente pasticci sulla compilazione delle
liste. Una piattaforma che, unita alla messa in sicurezza dei conti
della Regione e all'avvio della razionalizzazione del piano sanitario,
gli consentirebbero di ripresentarsi ai piemontesi con un accresciuto
patrimonio di credibilità personale e ottime chance di vincere di nuovo.
Il
contrario di quel che pensano i renziani: "Se lo fa, e rimane a
bagnomaria fin dopo Natale, la sua amministrazione è delegittimata, e
lui è politicamente finito, e dovrà assumersene le sue responsabilità".
"Rimbalzopoli" e il "clima terribile" continuano a imperversare. E lo
faranno per lo meno fino al 9 luglio.
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