La modernità è prima di tutto una realtà negativa. Effettivamente si tratta di una rottura con la tradizione. È la fine del vecchio mondo di caste, nobiltà, obblighi di carattere religioso, riti giovanili di iniziazione, mitologia locale, sottomissione delle donne, potere assoluto del padre sui suoi figli, e divisione ufficiale tra un piccolo gruppo di governanti e una massa condannata di lavoratori. Nulla può spingere questo movimento indietro – un movimento che, evidentemente, è iniziato in Occidente con il Rinascimento, si è consolidato con l’Illuminismo del XVIII secolo e poi materializzato nelle innovazioni senza precedenti nelle tecniche di produzione e nel costante affinamento dei mezzi di misurazione, di circolazione e di comunicazione.
Forse il punto più sorprendente è che questa rottura con il mondo della tradizione, questo vero e proprio tornado che si abbatte sul l’umanità – quello che in appena tre secoli ha spazzato via forme di organizzazione che duravano da millenni – crea una crisi soggettiva le cui cause e portata sono evidenti , e uno dei cui aspetti più rilevanti è la difficoltà estrema e crescente che i giovani, in particolare, affrontano nel trovare un posto in questo nuovo mondo.
Questa è la vera crisi. A volte la gente pensa che questa è una crisi del capitalismo finanziario. No per niente! Il capitalismo si sta espandendo in tutto il mondo – lo sta facendo meravigliosamente. Le guerre e le crisi fanno parte dei suoi mezzi di sviluppo. Questi mezzi sono tanto brutali quanto sono necessari per spazzare via la concorrenza e permettere ai vincitori di concentrare la maggior quantità possibile di capitale disponibile nelle proprie mani.
Da questo punto di vista, strettamente oggettivo – la concentrazione del capitale – ricordate a che punto siamo arrivati: il 10% della popolazione mondiale possiede l’86% del capitale disponibile; l’1% detiene ancora il 46% di tale capitale; e il 50% della popolazione mondiale ne possiede esattamente nulla, 0%.
È facilmente comprensibile che il 10% che possiede quasi tutto non ha nessuna voglia di essere confuso con chi non ha nulla.
A loro volta, un gran numero di coloro che condividono il restante 14% nutrono un feroce desiderio di mantenere ciò che hanno.
È per questo che spesso danno il loro supporto – e il razzismo e il nazionalismo hanno un ruolo anche qui- le innumerevoli dighe repressive per costruire un muro difensivo contro la terribile “minaccia” che vedono dal 50% che non ha niente.
Tutto questo ci dice che lo slogan del movimento Occupy Wall Street “Noi siamo il 99%”, con la sua presunta capacità di unire le persone, è completamente vuoto. La verità è che ciò che chiamiamo l’Occidente è pieno di persone che pur non costituendo parte del 10% che costituisce l’aristocrazia dominante, tuttavia fornisce al capitalismo globalizzato una truppa di supporto piccolo-borghese, la famosa classe media, senza la quale l’ oasi democratica non avrebbe alcuna possibilità di sopravvivenza.
Perciò, lungi dall’essere il 99% – anche simbolicamente – i coraggiosi giovani di Wall Street non rappresentavano, anche nel loro gruppo originario, che un piccolo gruppetto, il cui destino era quello di scomparire non appena la festa del “movimento” fosse finita.
A meno che, naturalmente, riescano a legarsi in un senso duraturo alla massa reale di chi non ha nulla o davvero molto poco; se essi disegnano un diagonale politica tra questi del 14%, in particolare gli intellettuali, e quelli del 50 %, in particolare, da un lato, gli operai e i contadini, quindi la parte inferiore della classe media, la sua parte mal pagata e precaria.
Questo percorso politico è praticabile – è stato provato negli anni ’60 e ’70, sotto la bandiera del maoismo. Ed è stato provato più di recente nei movimenti di occupazione di Tunisi e del Cairo, e anche a Oakland, dove c’era almeno il contorno di una connessione attiva con gli scaricatori del porto. Tutto, assolutamente tutto, dipende dalla rinascita definitiva di questa alleanza, e della sua organizzazione politica a livello internazionale.
Ma nel presente stato di estrema debolezza di un tale movimento, il risultato oggettivo, misurabile, della uscita dalla tradizione – se avviene nel formalismo mondializzato del capitalismo – non può essere che quello di cui abbiamo parlato, vale a dire una minuscola oligarchia detta la sua legge non solo alla stragrande maggioranza delle persone ai margini della mera sopravvivenza, ma anche alle classi medie occidentalizzate, cioè vassallizzate e sterilizzate.
Ma cosa succede poi a livello sociale e soggettivo? Marx ne diede nel 1848 una descrizione fulminante che è infinitamente più vera oggi che al suo tempo. Citiamo alcune righe di questo vecchio testo che è rimasto incredibilmente giovane:
Dovunque ha conquistato il potere[la borghesia]ha distrutto i rapporti feudali, patriarcali, idillici (..) Essa ha affogato nelle gelide acque del calcolo egoistico i sacri fremiti dell’estasi religiosa, dell’entusiasmo cavalleresco, del sentimentalismo piccolo-borghese. Essa ha fatto della dignità personale un semplice valore di scambio. (…) La borghesia ha spogliato delle loro aureole tutte le attività fino ad allora venerabili e considerate sacre. Essa ha trasformato il medico, il giurista, il prete, il poeta, l’uomo di scienza in suoi salariati.
Ciò che Marx ha descritto qui è che l’uscita dalla tradizione nella sua versione borghese e capitalista apre in realtà una gigantesca crisi dell’organizzazione simbolica dell’umanità. Per millenni, infatti, le differenze interne alla vita umana sono state codificate, simbolizzate, sotto una forma gerarchica.
Le dualità più importanti, come giovani e vecchi, uomini e donne, chi è della mia famiglia e chi non lo è, miserabile e potente, il mio gruppo professionale e gli altri gruppi, stranieri e nazionali, gli eretici e i fedeli, gente comune e nobili, città e campagna, intellettuali e manuali, sono stati trattati, nel linguaggio, nelle mitologie, nelle ideologie, nelle religiosi morali stabilite, con il ricorso a strutture di ordine, che codificavano il posto degli uni e degli altri dentro dei sistemi gerarchici sovrapposti.
Così, una donna nobile era inferiore al marito, ma superiore a un uomo del popolo; un ricco borghese, doveva inchinarsi davanti a un duca, ma i suoi servi dovevano inchinarsi davanti a lui; come pure, una squaw di una certa tribù indiana era quasi nulla rispetto a un guerriero della sua tribù, ma quasi tutto rispetto al prigioniero di un’altra tribù, di cui a volte lei fissava le modalità di tortura. O ancora un misero fedele della Chiesa cattolica era trascurabile rispetto al suo vescovo, ma poteva considerarsi come un eletto rispetto a un eretico Protestante, come il figlio di un uomo libero dipendeva assolutamente da suo padre, ma avrebbe potuto avere personalmente come schiavo il padre nero di una famiglia numerosa.
Tutta la simbolizzazione tradizionale si basa sulla struttura di ordinamento che distribuisce i posti e quindi la relazione tra questi posti. L’uscita dalla tradizione, incarnata dal capitalismo come sistema di produzione generale, in realtà non offre alcuna nuova simbolizzazione attiva, ma solo il gioco brutale e indipendente dell’economia, il regno neutro, a-simbolico di quello che Marx chiama “l’acqua gelida del calcolo egoistico”. Il risultato è una crisi storica della simbolizzazione, nella quale i giovani contemporanei sopportano il suo disorientamento.
Alla luce di questa crisi, che, sotto l’apparenza di una libertà neutrale, non propone come referente universale che il denaro, ci vogliono far credere che ci sono solo due vie: o l’affermazione che non esiste, nè può esistere, niente di meglio di questo modello liberale e “democratico”, delle libertà sigillate mediante la neutralità del calcolo mercantile; o il desiderio reattivo di un ritorno alla simbolizzazione tradizionale, cioè gerarchica.
Queste due vie sono, a mio parere, delle situazioni di stallo estremamente pericolose, e la contraddizione, sempre più sanguinosa, coinvolge l’umanità in un ciclo di guerre senza fine. Questo è il problema di false contraddizioni che interdicono il gioco della vera contraddizione. Questa contraddizione reale, che dovrebbe servirci come riferimento per il pensiero come per l’azione, è quella che si oppone alle due visioni del l’ inevitabile uscita dalla tradizione simbolica gerarchizzante: la visione a-simbolica del capitalismo occidentale, che crea disuguaglianze mostruose e patogene peregrinazioni, e la visione generalmente chiamata “comunismo”, che dopo Marx e i suoi contemporanei, propone di inventare una simbolizzazione egualitaria. Questa contraddizione fondamentale del mondo moderno è nascosta, dopo provvisorio fallimento storico del socialismo di stato in URSS e in Cina, dalla falsa contraddizione – in relazione all’uscita dalla tradizione – che oppone la pura negatività neutra e sterile dell’Occidente dominatore alla reazione fascista, che spesso travestitain narrazioni religiose degenerate, che offre un ritorno alle vecchie gerarchie, e a tal fine dispiega una violenza spettacolare progettata per mascherare la sua reale debolezza.
Questa presunta contrapposizione serve gli interessi di entrambe le parti, per quanto violento il loro conflitto possa apparire.
Aiutata dal loro controllo dei mezzi di comunicazione, essa cattura l’interesse generale, costringe ogni persona a una falsa scelta tra “l’Occidente o barbarie”. Così facendo, bloccano l’avvento del solo convincimento globale che potrebbe salvare l’umanità dal disastro.
Questa convinzione- che a volte ho definito l’idea comunista – afferma che, anche nel movimento di rottura con la tradizione, dobbiamo lavorare per creare una simbolizzazione egualitaria in grado di guidare, regolare, e formare il fondamento soggettivo stabile della collettivizzazione delle risorse, l’effettiva scomparsa delle disuguaglianze, il riconoscimento delle differenze-di uguale diritto soggettivo – e, in definitiva, il deperimento delle forme separate di autorità di tipo statale.
Così noi dobbiamo dedicare la nostra soggettività a un compito del tutto nuovo: Per questo dobbiamo dare la nostra soggettività ad un compito del tutto nuovo: l’invenzione, in una lotta su due fronti – contro la distruzione del simbolico nelle acque ghiacciate del calcolo capitalista e contro il fascismo reattivo che immagina la restaurazione del vecchio ordine – di una simbolizzazione egualitaria, che reinstalla le differenze facendo prevalere delle regole comuni, sulla base di una condivisione totale delle risorse.
Quanto a noi, gente dell ‘Occidente, dobbiamo prima fare una rivoluzione culturale, che consiste nello sbarazzarsi di convinzione assolutamente arcaica secondo la quale la nostra visione delle cose è superiore a qualunque altra. È, invece, già molto indietro rispetto a quello che volevano e prevedevano i primi grandi critici, nel secolo XIX, sulla brutalità non egualitaria e la perdita di senso del capitalismo. Questi grandi antenati avevano parimenti ben visto che l’organizzazione politica presunta democratica, con i suoi ridicoli riti elettorali, era soltanto il paravento di una vassallizzazione totale della politica da parte degli interessi superiori della concorrenza e dell’avidità. Oggi più che mai, abbiamo sotto gli occhi il triste spettacolo di quello che hanno definito con la loro lucidità spietata, il “cretinismo parlamentare”.
L’abbandono massiccio di questa identità “occidentale” allo stesso tempo combinato al rifiuto assoluto dei fascismi reattivi, costituisce il tempo negativo necessario entro il quale possiamo affermare il potere dei nostri nuovi valori egualitari.
Non essere più il giocattolo della falsa contraddizione, situarsi nella contraddizione reale, cambierà le soggettività e le renderà finalmente capaci di inventare la forza politica che rimpiazzerà la proprietà privata e la concorrenza attraverso quello che Marx chiamava “l’associazione libera”.
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