Chiunque voglia discutere seriamente dell'evoluzione del
sistema pensionistico italiano deve ammettere che – dalla riforma Dini
del 1996 ad oggi – c'è stata una perdita monetaria drastica per chi nel
frattemp è uscito dal lavoro; inoltre c'è stato un allungamento
altrettanto drastico dell'età pensionabile (da 57 a 66 anni e sette
mesi; praticamente 10 anni in più).
Gli argomenti usati erano falsi, in buona parte, e persino in
contraddizione tra loro. Si diceva; il sistema non può tenere perché ci
sarà una 'gobba', ossia un picco di ritiri dal lavoro coincidente con la
'maturità della boom generation, i nati negli anni tra il 1950 e
il 1965. L'argomento falso era: i giovani che subentreranno al loro
posto sono molti di meno (per fattori demografici), quindi i loro
contributi non saranno sufficienti a pagare le loro pensioni. Falso
perché le pensioni sono un “salario differito”, quindi te la sei già
pagata lavorando; non c'è nessun altro che te la deve pagare (a parte i
casi delle “minime” e delle “sociali” erogate a persone che non hanno
mai lavorato, in genere donne e casalinghe).
Per questo motivo si allungava l'età del ritiro “in rapporto
all'aumento delle aspettative di vita” e si modificava il sistema di
calcolo dell'assegno finale (ed anche delle liquidazioni, in parte),
spostandolo progressivamente dal retributivo al contributivo.
La legalizzazione della precarietà e gli incentivi alle imprese
(decontribuzione, ecc) hanno ridotto fortemente i flussi di entrata per
l'Inps. E ancor peggio andrà nei prossimi ani, quando anche i
“vecchietti” ancora inchiodati al lavoro con le vecchie regole (e i
relativi contributi previdenziali “pesanti”) se ne andranno a riposo.
Anche perché di giovani al lavoro ne sono entrati veramente pochi,
complici la crisi e soprattutto l'allungamento dell'età pensionabile,
che ha interrotto e rimandato di dieci anni, mediamente, il turnover.
Nonostante i mille pasticci incostituzionali del duo Fornero-Monti,
dunque, abbiamo una situazione paradossale di lavoratori anziani che le
aziende vorrebbero mandare a casa – specie per le mansioni a bassa
qualifica e alta intensità di impegno fisico – e masse di giovani (anche
quarantenni) che non possono sostituirli; sia per l'alta età
pensionabile ora vigente, sia per l'inesperienza lavorativa.
Un governo fetido come questo, per risolvere il problema
dell'ulteriore taglio della spesa pensionistica (imposto dalla Troika)
senza sollevare una rivolta sociale di dimensioni greche, sta meditando
soluzioni da presentare come un “vi vogliamo dare una mano e mandarvi in pensione un po' prima”.
Ha qualche possibilità di pensarlo perché esiste una massa
considerevole di lavoratori anziani che non vedono l'ora di lasciare. E
che quindi sarebbero disposti a rinunciare a qualche spicciolo
sull'assegno pensionistico futuro pur di finirla qui, o comunque presto.
Come sempre il punto centrale diventa: a quanto bisognerebbe rinunciare per di andarsene?
Qui si sta esercitando il cinismo dei tecnici messi al lavoro
per trovare ipotesi di soluzione del rebus, fermo restando – ovviamente –
che deve sembrare un “ti sto dando una mano”.
Bisogna dunque guardare al ventaglio di ipotesi pubblicato da IlSole24Ore
online per farsi un'idea di quel che sta bollendo in pentola. Dalle
stanze del governo, infatti, arriva la solita fuffa di dichiarazioni che
non entrano mai nel merito. Mentre negli ambienti di Confindustria –
l'editore de IlSole – ci si scambiano con l'esecutivo sia pareri, sia tecnici, sia soluzioni.
Vi diamo il relativo link alla fine di questo nostro articolo. Il
linuaggio è molto tecnico, ostico per i non addetti ai lavori; ma
qualcosa si capisce lo stesso.
Nell'ipotesi A (“anticipo con taglio”), si potrebbe scegliere di
ritirarsi a 62 anni di età (invece che a 66 e 7 mesi, mediamente)
perdendo però un 2-3% per ogni anno di anticipo. Diciamo tra il 9 e il
13% dell'assegno. Non poco, ma si può fare di peggio.
L'ipotesi B (“La staffetta generazionale”) è tecnicamente complessa –
e quindi poco attrente per le imprese - in quanto prevede un mix tra
riduzione d'orario e stipendio, coperto però da un'erogazione
pensionistica anch'essa ridotta. Per i lavoratori anziani – almeno per
come la presenta IlSole, ma bisogna vedere cosa deciderà il
governo – la perdita salariale-pensionistica sarebbe ridotta, quasi
accettabile; per i giovani, invece, sarebbe comunque un periodo a
salario bassissimo e poco “pesante” anche sulla carriera contributiva.
L'ipotesi C (“Il ritorno delle quote”) sembra un passo indietro
rispetto alla Fornero, me è un passo indietro doppio. Perché – grazie a
un'idea del “Pd sinistro” Cesare Damiano – la quota minima per andare in
pensione sarebbe posta a 100, sommando età anagrafica e anzianità
contributiva. Prima della Fornero la quota era a 96, fatevi due conti...
L'ipotesi D (ricalcolo con il contributivo”) è da considerare come
l'ipotesi “fine di mondo” per i lavoratori e di festa grande per la
Troika. In pratica verrebbero cancellati i periodi di lavoro
antecendenti al 1996, calcolati con il retributivo, e le pensioni future
(ma forse anche quelle in essere, una volta che si sia imposto questo
altro principio incostituzionale) vennebbero computate integralmente con
il contributivo. La perdita sezza sull'assegno sarebbe qui davvero
micidiale: -32%. Spaventa persino il redattore de IlSole, forse direttamente interessato...
L'ipotesi E (“le opzioni per le donne”) non è in realtà alternativa
alla altre, ma aggiuntiva. E risulterebbe davvero difficile presentarla
come un “venire incontro alle esigenze delle donne”. Nell'esempio fatto –
una donna di 58 anni con 35 anni di contributi – la decisione di andare
in pensione subito (dal 2016 l'”opzione” non sarà più esercitabile)
comporterà infatti una perdita in assegno pari al 25-30%.
Ma “per il vostro bene”, naturalmente...
Qui il link al quotidiano di Confindustria: http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2015-06-08/pensione-flessibile-l-anticipo-taglio-090737.shtml?uuid=AB7SoOuD&nmll=2707#navigation
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