Nel decreto firmato da Franceschini - non ancora pubblicato ma che ilfattoquotidiano.it ha potuto leggere - il sovrapprezzo che i consumatori dovranno pagare alla Siae come "risarcimento" preventivo per eventuali diritti d'autore violati. 5,20 euro per un computer, addirittura 9 per una semplice pennetta Usb. Il testo sostanzialmente identico a un documento Siae circolato nei mesi scorsi
5,20 euro per un Pc – quali che ne siano le caratteristiche – e 5,20 per uno smartphone o un tablet
se dotati di capacità di memoria superiore a 32 Giga [rispettivamente
3, 4 o 4,80 euro se la capacità è inferiore ovvero fino a 8 giga, da 8 a
16 giga o da 16 a 32 giga]. Quattro euro, invece, per televisori
dotati di capacità di registrazione, cui, peraltro, dovranno
aggiungersi quelli dovuti per il supporto di registrazione che si tratti
di una pendrive Usb o di un hard disk. Fino a 20 euro per un hard disk e fino 9 per una pendrive Usb.
Sono queste alcune delle nuove tariffe del cosiddetto equo compenso per copia privata, risultato degli aumenti disposti da Dario Franceschini, Ministro dei Beni e delle attività culturali con il Decreto firmato lo scors0 20 giugno ma, sin qui, curiosamente, non pubblicato né sulla Gazzetta Ufficiale né sul sito Istituzionale del Ministero.
A rivelarle per primo, Gianfranco Giardina, questa mattina di buon ora, sulle pagine di Dday. Le tariffe, pubblicate da Giardina, peraltro, trovano tutte puntuale conferma in una copia del Decreto della quale siamo venuti in possesso.
Sono
– come peraltro era già dato immaginare dalle anticipazioni contenute
nel comunicato stampa del Ministero dello scorso 20 giugno ed in quello,
di pari data, della Siae – aumenti tariffari da capogiro che costeranno ai consumatori italiani oltre 150 milioni di euro l’anno e porteranno nelle casse della Siae– solo a titolo di rimborsi di costi di gestione – oltre 10 milioni di euro
cui andranno ad aggiungersi importi egualmente esorbitanti grazie agli
interessi bancari ed ai proventi finanziari che la Società maturerà
avendo in deposito la montagna di denaro in questione.
Ma
scorrendo il testo del Decreto, oltre ai numeri, ci sono altri aspetti
che balzano agli occhi e colorano questa vicenda delle tinte fosche dei
peggiori esempi di buona amministrazione.
Cominciamo dal
principio. La legge prevede che il Ministro dei beni e delle attività
culturali aggiorni – e, non necessariamente aumenti – le tariffe
dell’equo compenso, sentito il Comitato permanente sul diritto d’autore e le associazioni di categoria dei produttori di tecnologia. Nessun riferimento, dunque, alla Siae.
Eppure
il Decreto che il Ministro Franceschini ha firmato è stato,
sostanzialmente, dettato proprio dalla Siae, soggetto che, nella
partita, è portatore di un doppio interesse, evidentemente, di parte sia
in quanto rappresentante di autori ed editori destinatari ultimi del
compenso sia perché, più sono alte le tariffe dell’equo compenso
maggiore è l’importo che essa trattiene per sé a titolo di rimborso dei
costi di gestione.
Nessun Ministro della Repubblica dovrebbe
lasciarsi suggerire cosa scrivere in un proprio decreto da un soggetto
portatore di un palese ed evidente proprio interesse di parte.
Eppure è sufficiente mettere a confronto il testo decreto firmato da Dario Franceschini con quello circolato, tra gli addetti ai lavori, nei mesi scorsi e stampato su carta intestata della Siae per avvedersi che, salvo un paio di marginali, scostamenti i due testi sono esattamente identici.
Le cifre degli aumenti tariffari proposte dalla Siae sono state,
sostanzialmente, recepite al centesimo di euro, nel Decreto del Ministro
Franceschini.
E’ un fatto inaccettabile che, probabilmente, in un Paese normale giustificherebbe le immediate dimissioni
di chi ha consentito che un’amministrazione apicale dello Stato venisse
asservita agli interessi di parte di un soggetto come la Siae.
Ma
non basta. C’è un altro passaggio del Decreto firmato da Franceschini e
in attesa di pubblicazione che getta sconforto in chiunque creda che la
macchina dello Stato dovrebbe operare nell’interesse di tutti e secondo
principi di obiettività e ragionevolezza.
Vale la pena riportare
letteralmente uno stralcio del Decreto: “CONSIDERATO che la
discrezionalità tecnica demandata dalla norma primaria
all’amministrazione, nell’esercizio della funzione di aggiornamento
triennale del compenso… si connota di elementi di equità integrativa
come evidenziato dalla fonte comunitaria… che usa la locuzione ‘equo
compenso’ e RITENUTO, pertanto, che l’aggiornamento non debba
corrispondere in modo vincolato a un criterio puramente ricognitivo di
dati aritmetici in ordine all’evoluzione tecnica, all’ingresso sul
mercato e nell’uso comune di nuovi dispositivi, agli spostamenti delle
abitudini di impiego e/o alla capacità di memoria degli apparecchi e dei
supporti… ma debba tenere conto delle informazioni e dei dati
acquisiti, nonché dei diversi punti di vista e delle proposte delle
categorie interessate, al fine di definire un punto di equilibrio tra le
opposte esigenze, di assicurare da un lato, la giusta remunerazione
dell’attività creativa e artistica degli autori e degli interpreti ed
esecutori, nonché dei produttori… e dall’altro un’incidenza
proporzionata e ragionevole del meccanismo di prelievo alla fonte… tale
da non colpire in modo eccessivo i settori produttivi interessati dal
prelievo medesimo”.
Un modo come un altro per dire che le decisioni del Ministro in termini di aumenti tariffari – almeno secondo il Ministro – non dovrebbero necessariamente avere solide basi obiettive, matematiche o statistiche.
Per
capire l’importanza e, a un tempo, la gravità del passaggio contenuto
nel Decreto, bisogna tornare indietro con la memoria di qualche mese a
quando, l’ex Ministro dei Beni e delle attività culturali Massimo Bray
– che, evidentemente, la pensava diversamente – commissionò una ricerca
di mercato che accertò come gli italiani fanno sempre meno “copie
private” e, comunque, è raro che usino per farne tablet e smartphone.
Quella
inserita dal Ministero nel decreto è dunque una giustificazione non
richiesta –e per la verità anche poco condivisibile – che suggerisce di
ricordare il vecchio proverbio latino secondo il quale: excusatio non petita, accusatio manifesta ovvero se non hai niente di cui giustificarti, non scusarti.
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