domenica 6 luglio 2014

Fenomenologia della crisi e il pensiero di Marx di Luigi Pandolfi



Sono sempre più persuaso che nel modo in cui si presenta l’attuale fase di sviluppo del capitalismo su scala globale, con le cicliche e perduranti crisi che l’accompagnano, alcune delle categorie e delle intuizioni marxiane possono rivelarsi ancora utili nella comprensione di fenomeni sociali ed economici complessi. Proprio la riscoperta del filosofo di Treviri in questo delicato frangente, segnato dalla crisi di un’economia in cui la componente finanziaria ha decisamente preso il sopravvento, dimostra come la necessità di una critica dell’esistente si accompagni sempre più a quella di riferimenti interpretativi forti, che aiutino la comprensione della realtà. La crisi della politica non è quella che generalmente ci raccontano, parlando di stipendi della casta o di altre cose simili: essa è data dall’incapacità della stessa di corrispondere alle sfide di questa modernità, dal suo essere degenerata in politicantismo. Non sto proponendo un ritorno al passato, né credo che certi modelli di ieri siano riproponibili oggi. Non penso nemmeno che la foto di Karl Marx debba essere di nuovo appesa sui muri delle sezioni e venerata come si trattasse di una divinità. No. Propongo solamente una riflessione sui dilemmi del tempo presente, avvalendomi, per quanto è possibile, di qualche strumento che per tanti anni ha aiutato la comprensione della realtà, tonificando per questo anche l’azione.
Per non limitarci ad enunciazioni di principio, facciamo però qualche esempio. Il cuore della critica marxiana delle forme di sfruttamento nelle società capitalistiche è quello che affronta il tema della mercificazione del lavoro e dell’appropriazione, da parte dei capitalisti, del cosiddetto pluslavoro, inteso come frazione di salario non corrisposto al lavoratore. Il lavoro, nelle società capitalistiche, al pari di ogni altra merce, ha un suo valore d’uso, vale a dire un suo grado di utilità per la società e l’economia, oltre che, di conseguenza, un suo prezzo (valore di scambio), nel quadro delle relazioni di mercato. Questi due fattori furono definiti da Marx anche come sostanza di valore e grandezza di valore.
La fonte del profitto nella società capitalistica è dunque data dal cosiddetto plusvalore, a sua volta il prodotto della differenza tra il lavoro impiegato per una data produzione e quello necessario alla riproduzione della forza- lavoro.
Il capitalista acquista la forza - lavoro come qualsiasi altra merce, ad un valore che è quello necessario alla sussistenza del lavoratore. Tale valore costituisce il cosiddetto salario. Per un dato numero di ore, il lavoratore lavora pertanto per il suo salario, per il tempo restante per il profitto del datore di lavoro.
Marx, prima nei Grundrisse poi nel Capitale, aveva affrontato, non senza accuratezza, la questione dell’applicazione delle macchine al processo produttivo, chiarendo che tale evenienza stava alla base, inevitabilmente, del tendenziale risparmio dei tempi di lavoro e, di conseguenza, ma solo nell’immediato, di una straordinaria massimizzazione dei profitti.
A lungo termine però, un aumento progressivo degli investimenti sul capitale fisso (macchine), a scapito del capitale variabile ( i salari degli operai), essendo quest’ultimo la fonte principe di estrazione del plusvalore, avrebbe determinato una tendenziale caduta dei profitti  (Caduta tendenziale del saggio di profitto). Non solo. Rimanendo sul punto, Marx aveva anche svelato come l’uso strategico delle macchine, favorendo un aumento dei volumi di produzione, un accrescimento dell’offerta di beni sul marcato, avrebbe determinato, come conseguenza, una diminuzione del valore di scambio di quest’ultimi. Quindi una diminuzione dei profitti.
Caduta dei profitti e contrazione dei consumi starebbero alla radice delle crisi cicliche del capitalismo. Crisi di sovrapproduzione, di sovrabbondanza di beni.
Per quanto attiene alle cosiddette “previsioni” di Marx, quella che più di altre ha stupito, per lucidità e fondatezza, è sicuramente quella relativa alla tendenza del capitalismo a globalizzarsi e ad accentuare la sua componente finanziaria. Proprio le recenti crisi che hanno investito il capitalismo mondiale, a partire dalla cosiddetta “bolla americana” fino alla crisi del debito nell’Eurozona, stanno a dimostrare come le turbolenze in ambito finanziario incidano sull’economia produttiva.
Profetiche, a tal riguardo, queste parole che troviamo nel secondo libro de Il Capitale: “Il processo di produzione appare soltanto come termine medio inevitabile, come male necessario per far denaro. Tutte le Nazioni a produzione capitalistica vengono colte perciò periodicamente da una vertigine, nella quale vogliono fare denaro senza la mediazione del processo di produzione.”
Queste quattro grandi questioni - reificazione e sfruttamento del lavoro, uso strategico e massivo della macchina e ciclicità delle crisi, mondializzazione e finanziarizzazione dell’economia - rivestono tutt’oggi una straordinaria rilevanza, sono ancora alcuni dei termini più pregnanti dell’attualità politica, a prescindere dalle interpretazioni e dai giudizi che se ne danno. Applicando i concetti, le categorie, fin qui fugacemente richiamate alla realtà del mondo contemporaneo, ai problemi sociali ed economici del nostro tempo, ci accorgiamo ordunque che gli stessi possono contribuire, molto più di quel che si pensi, ad illuminare il cammino della politica.
Il capitalismo, nello stadio attuale, sebbene globalizzato, fa i conti con la “limitatezza del mercato”: non siamo più nell’epopea fordista, in cui predominava un’idea di mercato illimitato, da riempire di beni di consumo. Al contrario è la saturazione del mercato lo spettro principale che hanno davanti le grandi imprese multinazionali. Questa circostanza, unita all’ipertecnologizzazione ed all’informatizzazione dei processi produttivi – agli investimenti sempre più massicci sul capitale costante,per dirla con Marx - ed alla concorrenzialità della manodopera dei paesi in via di sviluppo, sta alla base di una tendenziale, epocale, caduta del valore d’uso ( Utilità relativa per il sistema produttivo) e, di conseguenza,  del valore di scambio  (Salario) della merce lavoro nei paesi capitalistici avanzati.
È vero che il valore d’uso della forza- lavoro è dato, in Marx, essenzialmente dalla sua capacità fisica di soddisfare esigenze di produzione di beni, perciò il suo valore di scambio nel fabbisogno alla sua riproduzione, ma nel valore di questa particolare merce, seguendo proprio il ragionamento marxiano, c’è anche quello che chiamerei il suo grado di indispensabilità per l’impresa, la sua utilità in rapporto al fabbisogno di manodopera in un dato momento e in un dato contesto. Come un altro qualsiasi oggetto, sebbene molto speciale, il lavoro, nel quadro delle economie mercatiste, ha un suo grado di utilità nel soddisfare bisogni sociali e produttivi ed, al tempo stesso, un suo valore di mercato, un suo prezzo.
Per quanto speciale, come lo stesso Marx aveva chiarito, il lavoro, in questo tipo di società, è, a tutti gli effetti, una merce, di consumo e di scambio. Se allora per qualsiasi altra merce il valore d’uso consiste nella sua capacità di soddisfare determinati fabbisogni, nel caso della forza-lavoro tale fabbisogno può essere identificato anche con la domanda di manodopera. Pensiamo, in rapporto al concetto di lavoro come merce, alle modificazioni che sono intervenute negli ultimi anni nel mercato del lavoro. L’esempio più calzante a tal proposito sono i casi di “somministrazione di lavoro” da parte di agenzie interinale. La somministrazione di manodopera permette ad un soggetto definito “utilizzatore” di rivolgersi ad un altro soggetto appositamente autorizzato che costituisce il “somministratore”, per utilizzare il lavoro di personale non assunto direttamente, ma dipendente del “somministratore”. In questa fattispecie c’è una vera e propria sublimazione del concetto di reificazione del lavoro, che viene ad essere assimilato ad un qualsiasi altro oggetto.
I fenomeni che ho prima richiamato, tipici dell’attuale fase di sviluppo delle economie capitalistiche mature, sono alla base, come dicevo più indietro, di una sostanziale riduzione del valore d’uso, o, se si vuole, del grado di indispensabilità del lavoro, inteso sia in senso assoluto come tempo necessario nei cicli produttivi, sia in senso relativo come offerta di lavoro sul mercato.
La riduzione dell’utilità assoluta e relativa del lavoro ha, com’è facile immaginare, una ricaduta negativa sul corrispondente valore di scambio dello stesso, sul suo prezzo di mercato, che chiamiamo salario. Ma anche sul suo valore sociale, con pregiudizi, per fare il primo esempio che mi viene in mente, dei livelli di sicurezza nei luoghi di lavoro.
La conseguenza pratica di questo stato di cose è, in primo luogo, un aumento dei livelli di sfruttamento e di dipendenza del lavoratore dal potere dell’impresa. Secondariamente la contrazione dei salari e, nel caso della delocalizzazione extranazionale della produzione, il depauperamento delle economie interne.
L’inedita possibilità di delocalizzare segmenti sempre più significativi della produzione da parte dei grandi gruppi industriali, costituisce da un lato una forma di beneficio diretto per quest’ultimi, dall’altro un fattore di deterrenza sul piano interno, da giocare in sede di negoziazione salariale e di ristrutturazione aziendale.
E che cos’è la tendenza all’abbattimento dei costi del lavoro, anche attraverso la delocalizzazione dei siti produttivi, se non il rimedio alla parabola discendente del saggio di profitto, determinata dai mutamenti nella composizione del capitale e dal fenomeno della sovrabbondanza di merci in rapporto alle dimensioni del mercato? Forse, o certamente, questa legge non spiegherà, come Marx invece pensava, di che morte morirà, o potrebbe morire, il capitalismo, ma ci aiuta a comprenderne l’intimo funzionamento. 
A tutto ciò è legata infine, in termini sistemici, la questione della forza- lavoro eccedente, il problema della disoccupazione. A proposito di quest’ultima, Marx aveva parlato di esercito industriale di riserva, quella variabile che, nelle economie capitalistiche, insieme ad altri fattori, consente di tenere i salari a livelli di sussistenza ed a garantire la riproduzione del plusvalore, quindi dello stesso sistema capitalistico.
Si può dire che nelle nostre società gli alti tassi di disoccupazione non sono funzionali al contenimento della dinamica salariale ed alle strategie di ricatto dei datori di lavoro? Che, insieme al deterrente della delocalizzazione, la pressione della disoccupazione di massa non compensa la tendenza alla perdita di profitto? A queste domande risponderei così: questo non è il pensiero di Marx, ma la realtà del capitalismo, che Marx ha contribuito a disvelare, a descrivere, semplicemente a descrivere.
Bassi salari, precarizzazione dei rapporti di lavoro, abbassamento dei livelli di sicurezza nelle fabbriche, disoccupazione di massa, rappresentano pertanto i termini principali dell’attuale questione sociale, la cui lettura, senza dubbio, è facilitata dal ricorso a talune categorie marxiane, come quelle che abbiamo testé esaminato.
Rispetto alla società industriale degli albori, che Marx aveva analizzato da vicino, le uniche questioni davvero nuove sono che anche il lavoro intellettuale, specializzato, è stato assorbito dalla spirale della mercificazione e che la dipendenza dal potere dell’impresa si presenta sempre più sotto forma di rapporti di lavoro precari.
Anzi, proprio la precarizzazione del lavoro, che poi si tramuta in precarizzazione dell’esistenza, costituisce il prolungamento storico dei rapporti di lavoro alienati di cui Marx aveva ampiamente parlato nella sua opera, l’esito fatale della loro evoluzione.
Letteralmente col termine alienazione Marx indicava la condizione dell’operaio salariato, che, in regime capitalistico, è estraniato dal processo produttivo che lo riguarda e dallo stesso prodotto del lavoro: egli era, ed è, condannato a produrre beni che non gli appartengono, a produrre non per se stesso ma per gli altri. Una condizione che finisce per estraniarlo da se medesimo, dalla sua essenza, perché il suo lavoro non è libero e costruttivo, come lo era per i vecchi artigiani, bensì obbligato, meccanico, spersonalizzato.
L’alto livello di precarizzazione del lavoro nelle nostre società, aumentando i livelli di dipendenza del lavoratore, manuale o dell’intelletto che sia, dal potere dell’impresa e, per certi versi, dagli stessi beni che è chiamato a produrre, costituisce il fondamento di una forma ancora più micidiale di alienazione, di estraniamento da se stessi, dalla propria essenza sociale.
Alla produzione di beni per gli altri, alla tradizionale forma di estraniazione rispetto al proprio lavoro, nella nostra epoca, si aggiunge, pertanto un altro elemento alienante: il lavoro in forma precaria, ansiotica; ultima frontiera dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo, che aliena l’individuo dalla sua vita, dal suo futuro. Come non convenire allora sul fatto che alla base di tali questioni c’è quello che definirei il nodo principale degli assetti socioeconomici capitalistici: il fatto che il lavoro sia assimilato ad una qualsiasi altra merce: che tutte le relazioni sociali tendono a mercificarsi, con pregiudizio della dignità e della libertà dell’uomo? Che il lavoro salariato sia condannato a produrre ricchezza per gli altri, in misura inversamente proporzionale alla sua valorizzazione sociale?
E che dire poi, rimanendo sulle eredità spendibili del pensiero di Marx, delle crisi periodiche del capitalismo e degli effetti dell’economia speculativa, finanziaria, su quella reale? Anche su questo versante il filosofo tedesco aveva visto giusto, così come aveva visto giusto con riferimento alla concorrenza tra operai, sia sul piano interno che su quello extranazionale, a tutto vantaggio dell’impresa.
Vale la pena, tal riguardo, riportare un passo dello stesso Marx, la cui attualità è sorprendente:

“Su 1000 operai di uguale qualifica determinano il salario non i 950 occupati, ma i 50 disoccupati. Influsso degli irlandesi sulla condizione degli operai inglesi e dei tedeschi sulla condizione degli operai alsaziani (…)”

Parafrasando, potremmo dire influsso degli operai serbi, o polacchi, sulla condizione degli operai italiani. Una questione di stringente attualità! Che rimanda, oggigiorno, al tema della delocalizzazione della produzione, la strada  per beneficiare di costi di manodopera più bassi e di più bassi livelli di sindacalizzazione della forza lavoro, nei paesi emergenti o in via di sviluppo. Insomma ancora al tema dello sfruttamento del lavoro salariato e del valore mercantile del lavoro.
Potremmo stare a lungo su questi argomenti, ma una loro trattazione più approfondita costituirebbe il contenuto di un intero volume. Possiamo però concludere con una constatazione: nelle società capitalistiche ancora c’è molto cammino da fare sul terreno della mediazione tra uguaglianza formale ed uguaglianza sostanziale dei cittadini. L’intuizione marxiana sulla contraddizione tra uguaglianza nello Stato e disuguaglianza nella società in regime capitalistico, costituisce ancora oggi un punto cardine per la critica degli squilibri nelle nostre società.
Non per negare, come aveva fatto Marx, una funzione livellatrice dello Stato, ma, al contrario, per incoraggiarla. Per sostenere politiche di trasformazione dell’esistente, volte a liberare dalla spirale mercantile quegli spazi, qui beni, che attengono alla sfera della libertà e della dignità dell’uomo. Tra questi innanzitutto il lavoro, il terreno su cui si misura il grado di realizzazione della persona umana, la sua libertà, la sua indipendenza.
Fino a quando il lavoro sarà assimilato ad una qualsiasi altra merce, da scambiare e trattare al pari di ogni altro bene nel quadro delle relazioni di mercato, non si potrà dire che una società è pienamente libera e democratica.
Finché il valore del lavoro sarà calcolato come valore d’uso e di scambio, secondo il criterio capitalistico già esaminato, e non in base alla sua funzione sociale, in quanto attività nella quale, contribuendo alla crescita dell’intera società, l’uomo realizza se stesso, non si potrà parlare di libertà piena e sostanziale con riferimento alle nostre società.
Rimuovere gli ostacoli che limitano di fatto la  libertà e l’uguaglianza dei cittadini, costituisce tutt’ora un debito della politica nei confronti della società. Di tutte le società. Nondimeno il problema che abbiamo oggi è proprio il dileguamento della politica, l’assenza di grandi progetti di cambiamento, sostenuti da una visione del mondo larga e prospettica.
Ho già detto che non mi riferisco a dottrine millenaristiche, a nuove concezioni messianiche dello sviluppo storico, ma a concreti programmi di riforma dell’esistente, intorno ai quali organizzare, mobilitare, larghi strati della società, su cui fondare un’azione di governo autenticamente riformatrice.
E in questo, ancora Marx può venirci in soccorso, quando ci ricorda che l’economia politica sbaglia a considerare immutabili, oggettive, le leggi dell’economia capitalistica, poiché le stesse, così come sono realizzate dell’uomo, così dall’uomo possono essere cambiate.

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