Un
Paese che distrugge la sua scuola non lo fa mai solo per i soldi,
perché le risorse mancano, o i costi sono eccessivi. Un Paese che
demolisce la sua istruzione è già governato da quelli che dalla
diffusione del sapere hanno solo da perdere.
(Italo Calvino)
(Italo Calvino)
Il
bilancio politico del 2013 non può essere che impietoso. Il panorama è
liquido, si è addirittura liquefatto, coerente con la nuova forma che ha
assunto il capitalismo – “disorganizzato”, asimmetrico, globale,
neoliberista.
Forme fluide dagli esiti crudeli. Modelli privatistici che invadono i
comportamenti pubblici. Governi indecisi a tutto che abdicano al ruolo
di indirizzo e di regolazione della politica, rinunciano a redistribuire
benessere se non nelle briciole, si limitano ad assecondare i
cacciatori di rendite, tenendoli al riparo da un minimo di concorrenza e
lontani da ogni accettabile idea di merito. E i popoli si ritrovano
impoveriti e stremati, disillusi e incattiviti.
A causa di seri deficit nelle rispettive culture politiche, destra e
sinistra paiono diventate parole obsolete, detestate, e con loro i
partiti; l’epoca moderna pare finita e viene accantonata, liquidata con
poche sprezzanti battute; il linguaggio politico è cambiato e con lui il
pensiero. La democrazia rappresentativa è ormai affetta da un surplus
di potere dei gruppi di interesse che hanno cooptato partiti, sindacati,
associazioni, trasformandoli in strutture oligarchiche volte alla
riproduzione del consenso, piegandoli a sequenze infinite di compromessi
al ribasso. Appare particolarmente felice la definizione di
“postdemocrazia” coniata da Colin Crouch.
Assistiamo ormai privi di anticorpi non solo alla
trasformazione/involuzione della dimensione rappresentativa della
democrazia, ma alla crisi della sua dimensione costituzionale, con la
verticalizzazione e la personalizzazione della leadership, con
l’invocazione del carisma a supplire alla volontà condivisa, della
velocità a supplire l’approfondimento.
Oggi sono la democrazia diretta e l’euforia plebiscitaria, con le
loro pretese di verginità, con le loro parole d’ordine dicotomiche, con
le loro configurazioni spesso grottesche, a mobilitare passioni, fornire
gratificazioni che la relazione politica disciplinata nel quadro della
Costituzione non pare più in grado di offrire: ne sono attratti
soprattutto i meno garantiti, che sono diventati legioni e che hanno
risuscitato la sfiducia atavica del Bel Paese nelle istituzioni
democratiche. Ne conseguono sostanziale disprezzo delle regole
istituzionali e del ruolo del Parlamento, guide autocratiche, abiti
dirigistici, patologie propagandistiche accanto al fantasma comunitario
del populismo (se i contenitori politici e gli strumenti di mediazione
vanno in crisi si crea fra governo e cittadini un vuoto pericoloso, e
allora la tendenza è che sia la gente a illudersi di entrare
direttamente in scena, occasionalmente nelle piazze, più stabilmente
nella forma magmatica offerta dal web, dalla sua strana miscela di
modernità tecnologica e di archeologia antropologica).
I partiti si sono rinchiusi in se stessi come in un bunker,
interessano ormai solo ai telegiornali; la società civile, pur viva nei
suoi saltuari sussulti, non riesce ad incidere sulle fasi politiche che
attraversiamo.
La solidarietà, che nel secondo dopoguerra è stata propugnata come
istanza politica per sostenere i diritti sociali dei cittadini dei
moderni Stati di welfare, è diventata esclusivamente sinonimo di volontariato, ossia motivazione etica all’agire al di fuori dei partiti e della politica stessa.
Qualcosa si è spezzato. Smarrito il senso della convivenza,
atomizzata la società; dissolti i corpi intermedi, travolti dalla crisi
della politica, percepiti come meri ingranaggi del potere ma non
sostituiti; non resta più nulla a elaborare i bisogni e i desideri, se
non la pulsione indistinta di aggregati mobili e provvisori.
L’insoddisfazione verso le istituzioni democratiche è un dato
universale in tutto il mondo occidentale, ma in Italia si aggiunge a un
profondo degrado del sistema politico: della cultura, dello stile, delle
pratiche. Il nostro Paese fa da estenuata maglia nera in un’Europa
sempre meno amica.
E’ come se la degenerazione cui l’Occidente sembra condannato avesse
dato i suoi frutti peggiori in un paese già eticamente fragile. Roberta
De Monticelli la chiama “filosofia del disincanto”. Paolo Ceri definisce
questo cinismo una “incapacità addestrata a stupirsi e a
scandalizzarsi”. Maurizio Viroli scrive dell’abitudine degli italiani di
scambiare la derisione dei princìpi per un realismo politico, che si
trasforma presto in opportunismo. Anche Claudio Magris vede gli italiani
come “realisti miserabili”. Ne parlava già Leopardi.
E’ la questione dell’“anomalia”? Troppo antichi per stupirsi, troppo
vecchi per indignarsi; al massimo, un po’ di moderato disgusto.
Secondo Demos il 30% degli italiani ritiene che si possa rinunciare
alla democrazia a favore di leader forti e decisionisti: non è un caso
che a pensarlo siano le persone meno istruite e in condizioni economiche
precarie, presso le quali le scorciatoie e gli slogan godono di maggior
popolarità. La crisi ha colpito le classi popolari e subalterne, la
parte bassa della distribuzione, non quella alta. Gli italiani più
ricchi hanno un reddito dodici volte superiore a quello dei più poveri.
Mentre le uniche azioni della Borsa di Milano che hanno chiuso in
positivo il 2013 sono state quelle dei marchi del lusso, più di una
famiglia su dieci vive in condizioni di povertà relativa e una su venti
in condizioni di povertà assoluta.
Nemmeno per fasce d’età la recessione è stata ed è uguale per tutti. I
giovani stanno pagando il prezzo più caro, stanno sostenendo e
sosterranno il peso di decenni di errori nostri. La disoccupazione
giovanile è arrivata quasi al 45%, emilioni di ragazzi sfiduciati ormai
neppure cercano lavoro, ma si limitano in qualche modo a sopravvivere. Neet: un acronimo incomprensibile per una tragedia chiarissima.
La crisi economica diventa crisi di civiltà, trasformazione del modo
d’essere dell’etica pubblica. Una massiccia erosione del capitale
sociale. Spezzato il rapporto di fiducia. Al suo posto il disincanto,
sentimento inutile, o la rabbia, l’animosità, il risentimento,
sentimenti ripiegati su se stessi. Proliferano incertezze, insicurezze,
frustrazione per i diritti perduti o per le certezze mai raggiunte. A
esprimere i sentimenti negativi più accentuati sono i giovani tra i 25 e
i 34 anni: coloro cui è mancata di più qualunque proposta di pedagogia
civile. Il disprezzo per i politici si è allargato all’intero
establishment: banchieri, tecnocrati, giornalisti, persino intellettuali
e scienziati.
Rapporto Eurispes 2013 sul nostro Paese: i delusi passano dal 68,5%
del 2011 al 73,2% del 2013, e raffrontati con il 2010 segnano un
incremento superiore al 27%; prendendo invece come base il 2004, anno
della prima rilevazione, si evince che il dato riferibile a quanti
indicano una diminuzione della propria fiducia ha subìto un incremento
di oltre il 35%.
A pesare non è lo spread, non è la stabilità, non è la famosa
governabilità: è la credibilità della classe politica, della politica
stessa. E’ il virus corrosivo della mancanza di speranza, della sfiducia
generalizzata nel futuro.
La fiducia è un concetto denso e sfuggente, ma comunque è un termine
che presuppone interattività e sfere condivise di significati. La dose
di fiducia che circola in una collettività rappresenta in ultima istanza
il fattore più decisivo ai fini del suo benessere e delle sue
possibilità di crescita; è la chiave di volta della sua coesione
sociale, della sua moralità pubblica, delle sue capacità di sviluppo,
dell’efficacia della sua amministrazione, della qualità stessa della
vita delle persone. L’analisi dei fenomeni che determinano la creazione o
la distruzione di fiducia è centrale non solo nel lavoro dei politologi
ma anche in quello degli economisti.
Credibilità, reputazione, competenza – o meglio, rappresentazioni
positive di esse – sono requisiti e sono risorse, implicano uno scambio
attivo tra l’individuo e il suo mondo sociale, l’interpretazione di
simboli e situazioni e la reciproca interrelazione di prospettive tra i
partecipanti nei processi di interazione. Riducono i costi, stimolano
l’innovazione.
Polverizzate e messe in contrapposizione reciproca le condizioni
reali, rese afasiche le strutture simboliche, come si ricostruiscono
rapporti sociali capaci di alludere a un differente modello di società?
Io parto dal mio habitat. Come si ricostruisce un legame sociale fra
me, che mi batto per non perdere ciò che resta dei diritti conquistati, e
la nuova generazione di studentesse e di studenti che ho di fronte, per
la quale parole come eguaglianza, diritti, perfino lavoro, sono quasi
prive di significato perché la loro vita scorre in una dimensione di
precarietà che diventa la sola possibilità dell’esistere? Abbiamo
trasmesso loro un’eredità pesante da portare, quella del disincanto.
Si è spezzato l’esile filo che pure legava l’istruzione legale
(quella che appare sulla Gazzetta Ufficiale) e l’istruzione reale che
vive nelle aule. Quest’ultima sembra oggi senza diritto di parola, senza
voce, senza orizzonti e soprattutto senza senso.
Ripenso all’insegnamento di Weber: una relazione sociale può essere
definita “comunità” se e nella misura in cui la disposizione dell’agire
poggia su una comune appartenenza, soggettivamente sentita (affettiva o
tradizionale), degli individui che ad esso partecipano. E’ “comunità” la
mia università, tutta autoreferenziale, tutta burocratizzata, un
cantiere in perpetua ridefinizione ma sempre in ritardo, incapace di
incidere sui destini dei suoi studenti e sulla cultura del Paese? La
stessa autodefinizione è ambigua: cerchiamo di vivere al nostro interno
istanze e pratiche riconducibili alla metafora della comunità, ma siamo
governati dalla metafora dell’impresa. Una congerie di atti privi di
organicità regge ormai le nostre sorti.
I dati non permettono neppure al miglior ottimista di negare lo stato
di crisi in cui versa l’università italiana oggi: in dieci anni il
numero degli iscritti si è ridotto di 58 mila unità.
La stessa cosa accade alla scuola, con ben altra ampiezza. E’ stata
lasciata sola di fronte a problemi che non può risolvere da sola. I veri
problemi della scuola sono i problemi della società e della politica:
sono le conseguenze di un disorientamento generale. La precarietà del
futuro e il ristagno del sistema Italia sono anche il risultato di una
lunga e colpevole disattenzione alla qualità dell’istruzione. Se da
molti anni si parla di un deficit culturale di massa, la novità recente è
che oggi è possibile addirittura vantarsi della propria ignoranza,
perché questo costantemente fa la nostra classe dirigente.
Le strutture formative furono credibili e rispettate finché furono
sostenute da una fiducia diffusa, da un elevato consenso sociale, da
valori condivisi dalle autorità politiche, da quelle scolastiche, dalle
famiglie, dai docenti. Questa trama di relazioni si è indebolita, e non
solo per i contraccolpi del ventennio ignorante, che pure si sentono
ovunque.
In questo Paese bloccato, l’intero valore del sapere come motore di
crescita e di successo è entrato in crisi, l’intero pacchetto-cultura
non interessa a nessuno. I lettori continuano a calare, anno dopo anno
(uno spread che non pare preoccupante): sei italiani su dieci non
leggono mai. Una famiglia su dieci non possiede nemmeno un libro. La
spesa bibliotecaria per abitante in Italia equivale a un terzo di quella
media europea. Abbondano ovunque gli sportelli bancari e le
gioiellerie, ma chiudono le librerie e i cinematografi; per non parlare
dei teatri, dei musei, delle zone archeologiche …
C’è sempre meno voglia di andare a scuola, sono sempre di meno quelli
che ci credono. L’Italia è in coda all’Europa per abbandono scolastico,
con il 17,6% di adolescenti che non arriva al diploma di contro alla
media UE del 12,6%. Siamo d’altronde agli ultimi posti per quanto
riguarda il complesso della spesa pubblica destinata all’istruzione. I
paesi OCSE vi investono mediamente il 5,7% del Pil, il nostro a malapena
il 4,5%; riesce a fare di peggio solo la Repubblica slovacca.
Fino a quando l’immagine della scuola è stata collegata alla domanda
sociale di modernizzazione essa ha fruito dell’alone dell’idea di
progresso. Via via, il rinforzo sociale si è spento. Oggi anche noi
siamo schiacciati dalle macerie del discredito delle istituzioni, anche
noi ci siamo dovuti rassegnare a galleggiare nella mediocrità. Per
ottenere comportamenti virtuosi non basta ripetere il mantra del merito,
inflazionato nell’enfasi retorica; occorre disegnare meccanismi che
additino obiettivi socialmente desiderabili.
Mai come in questo momento il tema dell’uguaglianza è diventato
centrale, perché mai gli abissi di ineguaglianza sono stati così forti,
mai hanno fatto parte in maniera così vistosa di un intero modello
economico e sociale. Accade in tutto il mondo, ma da noi è più
devastante: abbiamo il tasso di ereditarietà della ricchezza più alto
d’Europa, la mobilità sociale più bassa. Un Paese rigidamente diviso in
caste, immobile e marchiato dalle disparità, dove «la classe di origine
influisce in misura rilevante e limita la possibilità di movimento
all´interno dello spazio sociale»: è l´Italia fotografata dall´Istat.
La percezione di vivere in una società iniqua anche nella
distribuzione delle posizioni lavorative impatta con forza sulla
performance scolastica. L’esistenza di una competizione distorta per le
posizioni lavorative ed economiche diminuisce l’incentivo alla skill acquisition
sia degli studenti privilegiati, che ottengono le posizioni comunque,
sia di quelli non privilegiati, che hanno scarse probabilità di farcela e
comunque verranno remunerati meno della loro produttività. E le risorse
familiari influenzano non solo la performance scolastica, ma
anche il livello delle aspirazioni: è la scuola frequentata, assai più
delle personali competenze, a modellare le aspirazioni dei ragazzi. I
meno privilegiati sanno che per loro i “buoni” lavori sono
progressivamente scomparsi, per far posto a impieghi che richiedono
scarse competenze e che sono mal remunerati dal punto di vista materiale
e dal punto di vista psicologico.
Gli effetti retroagiscono infatti sulle cause che li hanno prodotti,
rafforzandole. Per dirla con Marco Rossi-Doria, «è peggio oggi che ai
tempi di don Milani». La scuola italiana è tra quelle meno capaci di
favorire emancipazione.
C’è di più: il problema non è solo funzionale, ma epistemologico. E’
saltato e non è stato sostituito il patto che fonda la trasmissione
simbolica dei valori e delle regole da una generazione all’altra. Il
confine dell’età giovane è difficilmente definibile rispetto a un tempo,
ma il fatto grave è che gli adulti sembrano aver perso la capacità di
essere punto di riferimento per le generazioni che seguono.
Quello che ci si aspetta dalla scuola è che dia ai giovani le
conoscenze, le abilità e anche i valori appropriati alla società in cui
vivranno.E’ il luogo dove la realtà esterna e sociale dovrebbe
cominciare a diventare comprensibile a chi si appresta a diventare
adulto. E’ la scuola che fornisce i primi e grandi schemi
interpretativi. Oggi essa per prima sa, più o meno coscientemente, che
non è più in grado di fornire schemi interpretativi non solo perché ogni
schema diventa presto obsoleto e inutile, ma perché il quadro che
riesce a fornire ai ragazzi forse non è appropriato neppure per la
realtà presente. L’universalizzazione dell’istruzione, messa a confronto
con una pluralità crescente di condizioni e di esigenze, non ha saputo
imprimere un mutamento decisivo all’antico modello culturale. I
risultati che riusciva un tempo a garantire con sicurezza sono diventati
aleatori e inversamente proporzionali alle risorse e alle aspettative
investite.
Nel complesso l’attuale ricerca del senso da parte delle nuove
generazioni è idiosincrasica rispetto a gran parte degli stili, dei
codici e delle abitudini tramandati. E’ probabilmente la prima volta
nella storia umana che cambiamenti così radicali avvengono nell’arco di
così pochi anni. Non si tratta del solito cambiamento di mode, di idoli,
di gerghi, di stili: c’è qualcosa di ben più profondo. Si praticano
modalità dell’esperire, strutture cognitive, abitudini sociali che sono
situate in luoghi lontani dall’ordine concettuale di buona parte della
tradizione pedagogica, e dunque costringono a metterla apertamente e
radicalmente in discussione. Ben pochi tra noi ne sono capaci, pochi ne
avvertono la necessità.
D’altronde si sconta un’ulteriore impasse: è ovvio che tutte le
agenzie di mediazione sociale siano deputate ai tempi lunghi, ai
risultati differiti, e le agenzie formative più delle altre. Il nostro è
invece un tempo che sa solo correre, insofferente per tutto ciò che è
lento, che non dà gratificazioni istantanee. Nella cultura che va per la
maggiore tutto è prigioniero della filosofia dell’immediato; attendere
equivale a provare irritazione, frustrazione e noia; si cerca
soddisfazione immediata in ogni click; si coltivano reazioni rapide,
giudizi sommari. Andiamo così veloci che non riusciamo a fare esperienza
delle cose, figuriamoci trasmetterla alla generazione successiva.
Di quale genere di apprendimento hanno bisogno le nuove generazioni,
che a quanto pare devono prepararsi a vivere una vita intera all’insegna
della rincorsa, del mutamento e dell’incertezza? E’ nota la tesi di
Bauman secondo il quale il senso opprimente di crisi, la sensazione
diffusa di trovarsi a un crocevia, avrebbero poco a che vedere con
errori e negligenze degli educatori e molto con i tratti culturali che
caratterizzano la condizione postmoderna.
Sono gli insegnanti stessi a denunciare questo stato di cose, loro
che sono stati massacrati da riforme abborracciate, lasciati soli a
sopperire a tutto ciò che manca, loro che vivono una crescente
difficoltà a misurarsi con il disinvestimento scolastico e che soffrono
ogni giorno sulla propria pelle il fatto che i ragazzi si disinteressano
del curriculum proposto. Le difficoltà sono aumentate, benché la
demoralizzazione, la scarsa autorevolezza sociale, la carriera bloccata e
la misera retribuzione non inducano al rimpianto o alla fuga verso un
altro lavoro: la stragrande maggioranza, convinta che la microsocietà
delle aule sia meno scalcinata di come i mass media la dipingono,
dichiara che se potesse tornare indietro sceglierebbe di nuovo la stessa
professione. Amareggiati, stremati, ma non rassegnati. Quasi un
miracolo.
Tra le istituzioni infatti, quelle formative se la cavano meglio
delle altre. È scesa la fiducia degli italiani nella scuola: secondo
l’Istat era al 63% alla fine del 2003, mentre oggi si attesta al 54%
(partiti e Parlamento rispettivamente 5,1% e 7,1%). Comunque, più di una
persona su due la considera un’istituzione su cui fare affidamento, e
agli insegnanti va la fiducia del 60% degli italiani.
Meno ottimisti sono gli studenti: secondo il rapporto su Gli italiani e lo Stato
(curato da Ilvo Diamanti) solo il 48,7% dei giovani intervistati
dichiara di aver fiducia nella scuola, solo il 28,2% ne è soddisfatto.
Quattro su dieci non ritengono che gli insegnanti siano all’altezza del
compito loro affidato: forse non hanno torto, almeno a guardare alla
noncuranza con cui il nostro ministero tratta un settore delicato come
quello dell’aggiornamento della professione.
E’ l’insegnante il vero artefice della scuola, non il programma, non i
libri, e tantomeno quelle Lim o quei tablet cui molti affidano
escatologiche speranze. La disponibilità di insegnanti capaci – in
termini di preparazione, di motivazione e di capacità didattiche e
relazionali – è il motore propulsivo dell’intero sistema.
D’altra parte una politica che riduca la questione dell’istruzione al
tipo di reclutamento è non solo illusoria, ma scorretta: addossare agli
insegnanti il peso dei risultati scolastici significa non vedere che la
crisi è crisi di senso. Le loro professionalità, funzioni, condizioni
di lavoro, l’intera fisionomia del loro mondo evolveranno in un modo o
in un altro a seconda degli scenari che si apriranno. Scenari politici,
ovviamente.
I fenomeni sono in atto, lo si desideri o no. E’ importante cercare
di capire quali conseguenze ne derivino, e come si possano
padroneggiare. E’ importante decidere se vogliamo affidare al solo
mercato il compito di indirizzarli e di governarli. E’ importante
riprendere a declinare la parola futuro ma non sappiamo
da che parte cominciare. Forse non lo sa nemmeno la ministra
dell’istruzione, visto che delega a un sondaggio via web il compito di
delineare la scuola del futuro (ossia il Paese dei prossimi decenni).
Eppure la storia dovrebbe aver insegnato che dalla crisi della politica si esce solo con la politica
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