sabato 12 luglio 2014

La precarietà crea occupazione: falso!





di Guglielmo Forges Davanzati
 
 La disoccupazione giovanile in Italia è in costante aumento e riguarda principalmente individui con elevato titolo di studio. Si cerca di ridurla introducendo ulteriori misure di precarizzazione del lavoro, che, come ampiamente documentato, non solo non accrescono l'occupazione, ma spesso la riducono. In più, il blocco del turnover nelle Università non ha altri effetti se non mantenere elevata la disoccupazione intellettuale, in una spirale viziosa che incide negativamente sulla domanda interna e sulla produttività, e che frena la crescita.


L’ultimo Rapporto Eurostat segnala che l’Italia, con Cipro e Olanda, è il Paese nel quale – nel corso dell’ultimo anno – è maggiormente aumentato il tasso di disoccupazione, di quasi un punto percentuale. Il Rapporto certifica anche che, a fronte del fatto che nell’Eurozona il tasso di disoccupazione giovanile è del 23.7%, in Italia è pari a circa il 43%, ed è in costante aumento.

L’opinione dominante non fa altro che riproporre la tesi secondo la quale il fenomeno è imputabile all’eccessiva rigidità del mercato del lavoro e, in particolare, alle eccessive protezioni di cui godono gli occupati (qui il riferimento è, in particolare, all’art.18 dello Statuto dei Lavoratori). La principale proposta in campo riguarda l’istituzione di un contratto di lavoro unico a tutele crescenti, ovvero un contratto che lasci libere le imprese di licenziare senza costi nei primi anni, per poi imporre loro, nel caso licenzino, il pagamento di un’indennità crescente al crescere dell’anzianità di servizio.

Si osservi che la ratio di questa proposta risiede nel fatto che, se attuata, si renderebbe ancora più flessibile il contratto di lavoro e soprattutto si impedirebbe, di fatto, il ricorso giudiziario in caso di licenziamento. Il contratto unico a tutele crescenti, infatti, non solo non sostituisce le tipologie contrattuali esistenti – e dunque non contrasta il precariato – ma riformula il contratto a tempo indeterminato in senso meno “rigido”, lasciando alle imprese maggiore libertà di licenziamento. Nella sua versione più estrema, esso prevede la sostituzione definitiva del reintegro del lavoratore con l’indennizzo monetario e i servizi di riallocamento.

Si tratta di una proposta che si regge su una diagnosi profondamente errata del funzionamento del mercato del lavoro e, ancor più, delle caratteristiche della disoccupazione giovanile italiana. Occorre, a riguardo, innanzitutto chiarire che l’aumento del tasso di disoccupazione è principalmente imputabile al calo delle assunzioni e in minor misura ai licenziamenti, e che, per conseguenza, interessa essenzialmente le giovani generazioni, come rilevato dall’ufficio studi di Banca d’Italia fin dal 2010. Occorre anche chiarire che la disoccupazione giovanile è aumentata notevolmente negli ultimi anni, riguardando essenzialmente individui con elevata scolarizzazione. Come certificato da Almalaurea, circa il 27% di individui in possesso di laurea triennale non lavora a tre anni dal conseguimento del titolo e circa il 23% di individui in possesso di laurea magistrale (o a ciclo unico) risulta inoccupato negli ultimi tre anni. Se il dato viene rapportato al 2008, primo anno in cui il numero dei laureati disoccupati ha subìto un incremento, si registra un aumento esponenziale della disoccupazione intellettuale nell’ultimo quinquennio [1].

Le proposte di ulteriore precarizzazione del lavoro scontano fondamentalmente le seguenti criticità:

1) Come rilevato dall’OCSE, l’Italia è, fra i Paesi industrializzati, quello che ha dato il maggior impulso alle politiche di deregolamentazione del mercato del lavoro e che, al tempo stesso, ha registrato la maggiore crescita del tasso di disoccupazione. L’OCSE quantifica il grado di flessibilità contrattuale sulla base di un indicatore, denominato EPL (Employment Protection Legislation), che considera in primo luogo i vincoli normativi sui licenziamenti. Come si può rilevare in fig.1, l’Italia ha un indice di protezione dei lavoratori – in particolare per i licenziamenti individuali – inferiore alla media OCSE. In più, come ormai molta letteratura sul tema mostra, al crescere del grado di deregolamentazione del mercato del lavoro, il tasso di occupazione non aumenta, in non pochi casi si riduce. Ciò fondamentalmente a ragione del fatto che la precarizzazione del lavoro, in quanto riduce il potere contrattuale dei lavoratori, si associa a bassi salari, dunque a bassi consumi e a bassa domanda aggregata.

Figura 1: EPL Paesi OCSE (Fonte: OECD Employment Outlook – 2013)


L’OCSE certifica anche che il numero di precari in rapporto alla popolazione attiva è più che raddoppiato nel corso dell’ultimo decennio. In particolare, si registra che, nel corso dell’ultimo anno è significativamente aumentata (nell’ordine del 4%) la percentuale di assunzioni con contratto a tempo determinato sul totale delle assunzioni rispetto all’anno precedente (v. fig.2).

Fig.2: andamento dell’EPL in Italia (OCSE, 2013)



2) E’ anche ampiamente dimostrato che le politiche di deregolamentazione del mercato del lavoro incentivano le imprese a competere riducendo i salari, disincentivando le innovazioni e riducendo, di conseguenza, il tasso di crescita della produttività del lavoro [2].

La proposta di istituzione di un contratto di lavoro con tutele crescenti, in questa prospettiva, è dunque controproducente dal momento che rende ancora più precari i rapporti di lavoro ed è fondamentalmente inutile al fine di contrastare l’aumento del tasso di disoccupazione giovanile. Ciò innanzitutto per una considerazione ovvia: rendere più costosi i licenziamenti al crescere dell’anzianità di servizio implica, di per sé, solo disincentivare i licenziamenti di lavoratori anziani (disincentivo tanto più forte quanto maggiore è l’età degli occupati). E anche perché non si capisce per quale ragione un’impresa dovrebbe farvi ricorso se ha a disposizione altre forme di contratti precari.

La crescita della disoccupazione giovanile – fenomeno presente in molti Paesi europei, fortemente accentuato in Italia – non è imputabile alla (presunta) rigidità del mercato del lavoro italiano, ma fondamentalmente ai seguenti fattori: l’esistenza di una struttura produttiva fatta da imprese di piccole dimensioni e poco innovative che non esprimono domanda di lavoro qualificato; una spesa pubblica per ricerca e sviluppo inferiore allo 0.5% del Pil [2]; il blocco del turn-over nel pubblico impiego e, per quanto attiene alla forza-lavoro altamente qualificata, alla rilevante decurtazione di fondi alle Università. Una recente indagine dell’ADI (Associazione dottorandi e dottori di ricerca italiani) rileva che solo il 7% dei dottori di ricerca potrà intraprendere la carriera accademica e che, per il combinato del sottofinanziamento delle Università e dell’introduzione di contratti precari per lo svolgimento di attività di ricerca, negli ultimi cinque anni 2.000 posti da ricercatore strutturato si sono trasformati in meno di 1.000 posti da precario.

E’ ampiamente noto che il forte impulso dato alle politiche di deregolamentazione del mercato del lavoro non ha avuto effetti di segno positivo sull’occupazione e sul tasso di crescita ed è palesemente irrazionale bloccare il reclutamento nei centri di ricerca con oltre il 40% di disoccupazione giovanile prevalentemente con elevato titolo di studio. Eppure non si cambia strada: la teoria del “con la cultura non si mangia” e il mito delle “vocazioni naturali del territorio” sono duri a morire. E allora non ci si può stupire se l’economia italiana è in caduta libera.

NOTE

[1] Il tasso di attività di individui di età compresa fra i 15 e i 64 anni, nel 1993, era del 58%, a fronte del 42% di quello di individui collocati nella fascia d’età 15-24. Nel 2004, il tasso di attività nella fascia d’età 15-64 è aumentato collocandosi a oltre il 62%, mentre, nello stesso arco temporale, si è ridotto il tasso di attività giovanile, collocandosi intorno al 35%. Nel corso degli ultimi anni, il divario fra occupazione “adulta” e occupazione giovanile è costantemente aumentato.

[2] Cfr. P.Pini, Regole europee, cuneo fiscale e trappola della produttività, “Quaderni di Rassegna Sindacale”, 2, 2014.

Nessun commento: