“La
sinistra ha senso di esistere solo se diventa anti-sistemica, se si
batte per un sistema in cui i frutti del lavoro vanno a chi se li è
guadagnati. Dove esistono miliardari, non può esistere la democrazia”.
Oskar Lafontaine è uno dei politici tedeschi più importanti del
dopoguerra. Dopo aver abbracciato il socialismo una ventina di anni fa, è
diventato una figura particolarmente controversa. L’ex sostenitore
dell’integrazione europea e simpatizzante dei “movimenti
post-materialisti” degli anni ottanta è oggi un acceso critico
dell’Europa e strenuo difensore dello stato sociale.
Nel corso della sua lunga carriera, Lafontaine è stato ministro-presidente del minuscolo Länder
del Saarland, sul confine franco-tedesco; sindaco della capitale
Saarbrücken; ministro delle finanze tedesco; presidente del Partito
Socialdemocratico (Spd); e infine copresidente della Linke, il partito
tedesco della sinistra radicale.
Alla fine degli anni novanta, il tabloid inglese The Sun lo
definì “l’uomo più pericolo d’Europa” per la sua campagna a favore della
regolamentazione delle transazioni finanziarie a livello europeo. In
seguito ad una campagna mediatica ben orchestrata e dopo essere stato
marginalizzato dalla fazione neoliberista dell’Spd, guidata dal
cancelliere Gerhard Schröder, Lafontaine si dimise dal suo ruolo di
ministro nel governo rosso-verde. La Borsa tedesca reagì schizzando in
su del 5 per cento.
Nel 2005, dopo quarant’anni di militanza, Lafontaine ha abbandonato
l’Spd ed è entrato nella Linke. Sotto la sua leadership, il partito si è
notevolmente consolidato nelle urne. Ma Lafontaine è stato oggetto di
nuove critiche, stavolta da parte dell’ala filogovernativa del partito,
che vede in Lafontaine un ostacolo ad una possibile alleanza con i
socialdemocratici e i Verdi. Dopo essersi ammalato di tumore, Lafontaine
ha abbandonato la guida del partito del 2010, ma continua a guidare
l’organizzazione nel Saarland.
In seguito allo scoppio della crisi dell’eurozona, Lafontaine è
diventato un acceso critico dell’euro, sostenendo l’abolizione della
moneta unica e il ritorno ad un sistema di tassi di cambio coordinati.
In questa intervista discute con l’attivista tedesco Leandros Fischer
del futuro dell’Europa, di Syriza, della posizione della Linke e dei
partiti “anti-sistemici”.
Qualche anno fa hai fatto scandalo sostenendo lo smantellamento
dell’euro ed il ritorno ad un sistema di tassi di cambio coordinati. Sei
ancora della stessa idea e, se sì, perché?
L’attuale sistema dell’euro non funziona. Non si tratta solo di una
moneta, ma di un sistema determinato dalle regole contenute nel Trattato
di Maastricht. È per questo che sono favorevole ad introdurre una
maggiore flessibilità nel funzionamento nell’unione monetaria.
Più precisamente, questo vorrebbe dire introdurre una sorta di “euro
greco”, il cui tasso di cambio sarebbe deciso in maniera collettiva da
vari attori, tra cui la Banca centrale europea, al fine di prevenire una
svalutazione eccessiva della nuova moneta. In questo modo, la Grecia
non uscirebbe dall’Eurosistema; ne continuerebbe a far parte, ma a
condizioni più favorevoli.
La risposta della maggioranza del tuo partito è stata immediata:
la Linke è a favore della moneta unica, il problema sono le politiche
della cancelliera Angela Merkel. Le attuali istituzioni europee vanno
riformate o superate?
Nel partito crediamo tutti in un’Europa più sociale e democratica. Ma
quando ci sono paesi, come la Grecia, che vengono soffocati dagli
attuali vincoli finanziari imposti dall’eurozona, allora quei vincoli
vanno smantellati. Il problema è che molti a sinistra non capiscono come
funzionano le unioni monetarie. Nel periodo antecedente
all’introduzione dell’euro, nessuna sembrava rendersi conto della
necessità di una politica salariale comune, e del fatto che in assegna
di una politica salariale coordinata il sistema era inevitabilmente
destinato ad incepparsi.
Ma è veramente possibile un’uscita controllata nel contesto della
profonda crisi strutturale che sta attraversando il capitalismo? Le
proposte di questo tipo sono semplicemente uno strumento di stampo
keynesiano per rilanciare la crescita o sono un mezzo per organizzare la
società su basi radicalmente diverse?
Entrambe le cose. L’introduzione di una moneta parallela offrirebbe
ovviamente al paese in questione una boccata di ossigeno e un notevole
spazio di manovra economico in più. Ora ci troviamo in una situazione
disastrosa, in cui il governo greco è sostanzialmente privo di qualunque
potere ed è costretto a farsi dettare le condizioni da forze esterne.
Ovviamente la flessibilità offerta da questo “euro greco” non sarebbe di
per sé una garanzia di immediata reindustrializzazione, ma almeno
l’economia greca o di qualunque altro paese potrebbe ricominciare a
respirare.
La storia insegna che un sistema monetario che impedisce ai singoli
paesi di svalutare non può funzionare senza coordinamento salariale. In
Grecia, i salari reali sono cresciuti più rapidamente della
produttività, ma allo stesso tempo la Germania ha praticato dumping
salariale. In queste condizioni, una rottura del sistema era
inevitabile.
Fin dove pensi che arriverà il governo tedesco nella sua “guerra”
contro Syriza? La loro intenzione è “liberarsi dei greci” e cacciarli
dall’eurozona, o tenerli all’interno della “gabbia d’acciaio” e
costringerli a implementare le misure di austerità?
Non è del tutto chiaro. Da un lato sappiamo che il nostro ministro
dell finanze, Wolfgang Schäuble, era a favore di un’uscita della Grecia
dall’euro già nel 2012. Dall’altro, vari ufficiali del governo hanno
dichiarato che il “Grexit” avrebbe conseguenze imprevedibili. In un
certo senso, penso che il governo sia diviso su questo punto.
Personalmente, ritengo che né la Merkel né Schäuble capiscano bene come
funzionano le unioni monetarie, perché entrambi rimangono fedeli al
dogma neoliberista secondo cui ridurre i salari, deregolamentare il
lavoro e fare austerità aiuti a promuovere la crescita.
La Linke, con poche eccezioni, ha votato a favore dell’accordo
raggiunto qualche settimana fa dall’Eurogruppo con il nuovo governo
greco. La paura tra gli esponenti del partito era che, non offrendo il
proprio sostengo all’accordo, sarebbero stati accusati di non essere
solidali con il governo di Alexis Tsipras. Come giudichi questa
posizione?
La paura di non apparire solidali con la Grecia è una cosa che
capisco. Ma è una paura che ha più a che fare che una percezione
distorta della realtà che con i fatti. La verità è che in base a quella
proposta il governo tedesco ha offerto nuovi prestiti alla Grecia a
condizioni molto pesanti. La nostra solidarietà con Syriza consiste
nella nostra opposizione ai pacchetti di austerità imposti dalla Germania
alla Grecia – siamo l’unico partito in Germania a farlo – e nella
nostra critica alle fallimentari politiche del governo tedesco.
La Linke ha quasi dieci anni. Quando fu fondata, poteva contare su
importanti alleati in altri paesi europei, tra cui Rifondazione in
Italia. Oggi, però, molti di quei partiti non esistono più…
La partecipazione di un partito di sinistra al governo è accettabile
solo se porta a dei risultati concreti. Questo è l’errore che ha
commesso Rifondazione in Italia, e per questo è stata punita
dall’elettorato. Lo stesso è accaduto a vari partiti di sinistra
europei. È un destino a cui andrà incontro qualunque partito di sinistra
che continua a ripetere gli errori del passato.
Sembra esserci molta insofferenza nei confronti dell’attuale
sistema economico, ma anche nei confronti dei partiti politici tout
court. La Linke si è via via istituzionalizzata negli anni, e per questo
non sembra essere in grado di catalizzare il malcontento popolare nella
stessa maniera in cui riescono a farlo partiti nuovi come Syriza e
Podemos, che si presentano come alternative di sistema. Se una
coalizione rosso-rosso-verde è fuori questione (Spd-Linke-Verdi), qual è
il futuro della Linke? Come può avviare un processo di
ri-politicizzazione?
È una cosa molto difficile perché il sistema sociale in cui viviamo,
il sistema capitalista, è estremamente impermeabile al cambiamento. È
studiato in maniera tale da far sì che chi detiene il potere economico
presieda su tutte le decisioni di carattere politico. Le democrazie
rappresentative non sono democrazie nel vero senso del termine. È dai
tempi di Pericle che sappiamo che le democrazie sono sistemi sociali che
servono gli interessi della maggioranza, e ovviamente questo non
avviene in nessuna delle “democrazie” europee.
In questo senso, la Linke ha senso di esistere solo se diventa – o se
rimane – un partito anti-sistemico. Essere anti-sistemici vuol dire
battersi costantemente a favore di una società in cui la vita sociale è
riorganizzata su basi radicalmente diverse, in cui i frutti del lavoro
vanno a chi se li è guadagnati. Vuol dire anche prendere atto del fatto
che gli esperimenti socialisti del passato sono falliti perché erano
antidemocratici e centralizzati. È necessario, dunque, perseguire una
strada diversa. Personalmente, credo che la strada per superare
l’attuale sistema neo-feudale sia quella delle imprese gestite dai
dipendenti, in cui la democrazia si manifesta in tutti gli aspetti della
vita quotidiana. Perché dove esistono miliardari, non può esistere la
democrazia. Nessuno ha il diritto di guadagnare miliardi. L’esistenza
stessa di un miliardario contraddice l’idea di base dell’illuminismo,
secondo cui la ricchezza è il frutto del lavoro.
Pubblicato sulla rivista Jacobin il 30 marzo 2015.
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