Un
convegno del GRID (Gruppo di ricerca sulle idee politiche, facente capo
al Dipartimento di Studi storici dell’Università di Torino), in
collaborazione con l’Associazione Historia Magistra e la Fondazione
Luigi Firpo, ha affrontato, il 27-28 maggio scorsi, a Torino, la
questione delle origini del Sessantotto (qui il programma). Pubblichiamo la Prolusione al convegno di Angelo d’Orsi, che l’ha ideato e coordinato.
Ancora il Sessantotto? Invece che analizzare, ancora una volta, soggetti sociali, forze politiche, e idee del “movimento”, vogliamo provare a interrogarci sulle origini di quel forte scossone della società italiana, all’interno di un generale sommovimento delle società euroamericane, dagli Stati Uniti alla Francia, da Città del Messico a Praga. Limitandosi alla realtà italiana, sembrerebbe interessante gettare lo sguardo all’interno delle principali “famiglie” politiche (cattolici, comunisti, socialisti, laici), alla ricerca dei segni di tensioni, frizioni, microfratture o anche clamorose lacerazioni, a partire da quell’anno spartiacque che fu il 1956, con i fatti relativi al Canale di Suez, e soprattutto di Polonia, di Ungheria, e, infine, del XX Congresso del Pcus, con la denuncia dei crimini di Stalin da parte di Nikita Kruscev. Prendere il mirabile ’56 come punto di partenza è una scelta quasi obbligata: non è casuale che sempre di più tanto gli storici quanto i testimoni esaltino il significato dell’anno spartiacque, come lo ha chiamato Luciano Canfora, il quale ha addirittura scritto trattarsi di un anno fondamentale per la storia dell’umanità.
Quell’anno che colpì in particolare il Partito comunista, frantumando le sue certezze, reali o vissute come tali: fu un evento epocale, doloroso, ma che alla lunga produsse elementi di chiarezza interni a quel mondo, favorendo, con la presa di coscienza di tanti dirigenti e militanti, le prime incrinature, e con le tante cerimonie degli addii, l’inizio della ricerca di vie nuove verso la società di liberi ed uguali. Nulla fu più come prima, in sintesi.
Ancora il Sessantotto? Invece che analizzare, ancora una volta, soggetti sociali, forze politiche, e idee del “movimento”, vogliamo provare a interrogarci sulle origini di quel forte scossone della società italiana, all’interno di un generale sommovimento delle società euroamericane, dagli Stati Uniti alla Francia, da Città del Messico a Praga. Limitandosi alla realtà italiana, sembrerebbe interessante gettare lo sguardo all’interno delle principali “famiglie” politiche (cattolici, comunisti, socialisti, laici), alla ricerca dei segni di tensioni, frizioni, microfratture o anche clamorose lacerazioni, a partire da quell’anno spartiacque che fu il 1956, con i fatti relativi al Canale di Suez, e soprattutto di Polonia, di Ungheria, e, infine, del XX Congresso del Pcus, con la denuncia dei crimini di Stalin da parte di Nikita Kruscev. Prendere il mirabile ’56 come punto di partenza è una scelta quasi obbligata: non è casuale che sempre di più tanto gli storici quanto i testimoni esaltino il significato dell’anno spartiacque, come lo ha chiamato Luciano Canfora, il quale ha addirittura scritto trattarsi di un anno fondamentale per la storia dell’umanità.
Quell’anno che colpì in particolare il Partito comunista, frantumando le sue certezze, reali o vissute come tali: fu un evento epocale, doloroso, ma che alla lunga produsse elementi di chiarezza interni a quel mondo, favorendo, con la presa di coscienza di tanti dirigenti e militanti, le prime incrinature, e con le tante cerimonie degli addii, l’inizio della ricerca di vie nuove verso la società di liberi ed uguali. Nulla fu più come prima, in sintesi.
Il Pci togliattiano, colpito pesantemente dagli eventi, non ne venne
tuttavia travolto: “Si sta con la propria parte anche quando essa
sbaglia”, sentenziò il segretario, irrigidendosi nell’allineamento al
Pcus; ma avviò subito dopo, già nel ’57, anche in fondo sulla scorta
della celebre intervista sullo stalinismo,a Nuovi Argomenti del luglio
’56, un processo di ricupero di quella ampia fetta di intellettualità
che, delusa per le rivelazioni kruscioviane e disgustata per l’invasione
dell’Ungheria, si era allontanata. Soprattutto, il Pci si mise
all’opera sotto l’attenta regia del Migliore, per rilanciare con maggior
convinzione il processo di italianizzazione del Partito, sempre sotto
il segno di Gramsci, e dunque di ricupero di tradizioni culturali
“indigene”, e quindi di dialogo con una intellettualità diffusa, non
iscritta al Partito, e talora neppure simpatizzante con esso.
Lo choc del ’56, non lasciò intatte neppure le culture politiche altre, anche quelle che, come poi sarebbe accaduto nel 1989, poterono in qualche modo esultare per la prova provata delle chiusure del regime sovietico, da loro denunciate da sempre. In particolare in seno alle famiglie socialiste e repubblicane, e della nuova forza radicale, il ’56 fu visto come un’occasione per riequilibrare i rapporti di forza, ossia allontanare il Pci sempre di più dall’area governativa, e invece provare a tessere la tela di una “sinistra democratica”: progetto che trovò in Ugo La Malfa il suo più autorevole mentore politico, in intellettuali quali Leo Valiani, Ignazio Silone, Nicola Chiaromonte, Aldo Garosci (ed altri) i suoi intellettuali di riferimento, le riviste Tempo Presente, Nord e Sud, il Mulino, e, naturalmente, la sempre crociana il Mondo, alcune delle centrali “d’area”.
Non a caso da questi ambienti, con scarso senso storico, partivano bordate antigramsciane, proprio mentre nel Pci si cercava di accreditare Antonio Gramsci come un patrimonio nazionale, un «Gramsci di tutti», fondamento di un Partito comunista “italiano”, ma anche nel momento in cui anche da ambienti culturali non comunisti e non italiani, andava manifestandosi un forte e crescente interesse per il pensiero del Sardo, come avrebbe testimoniato il Convegno del gennaio 1958, il primo dedicato al ricordo di Gramsci nel ventennale della scomparsa, che fu insieme vittima degli eventi del ’56 (previsto per la primavera ’57, slittò all’inizio dell’anno successivo), ma costituì pure il primo tentativo di andare oltre, rilanciando all’ombra del grande rivoluzionario, le sorti del Partito e dell’intera sinistra italiana. Diversa la posizione di un Nenni, o ovviamente di un Lombardi o di un Basso, che, sia pure in oscillazioni politiche, furono e si sentirono comunque uomini di sinistra, anche se il primo soprattutto si fece irretire dalla paura dello spostamento a destra degli assetti di potere, e finì per adottare politiche sostanzialmente subalterne alla DC.
Lo choc del ’56, non lasciò intatte neppure le culture politiche altre, anche quelle che, come poi sarebbe accaduto nel 1989, poterono in qualche modo esultare per la prova provata delle chiusure del regime sovietico, da loro denunciate da sempre. In particolare in seno alle famiglie socialiste e repubblicane, e della nuova forza radicale, il ’56 fu visto come un’occasione per riequilibrare i rapporti di forza, ossia allontanare il Pci sempre di più dall’area governativa, e invece provare a tessere la tela di una “sinistra democratica”: progetto che trovò in Ugo La Malfa il suo più autorevole mentore politico, in intellettuali quali Leo Valiani, Ignazio Silone, Nicola Chiaromonte, Aldo Garosci (ed altri) i suoi intellettuali di riferimento, le riviste Tempo Presente, Nord e Sud, il Mulino, e, naturalmente, la sempre crociana il Mondo, alcune delle centrali “d’area”.
Non a caso da questi ambienti, con scarso senso storico, partivano bordate antigramsciane, proprio mentre nel Pci si cercava di accreditare Antonio Gramsci come un patrimonio nazionale, un «Gramsci di tutti», fondamento di un Partito comunista “italiano”, ma anche nel momento in cui anche da ambienti culturali non comunisti e non italiani, andava manifestandosi un forte e crescente interesse per il pensiero del Sardo, come avrebbe testimoniato il Convegno del gennaio 1958, il primo dedicato al ricordo di Gramsci nel ventennale della scomparsa, che fu insieme vittima degli eventi del ’56 (previsto per la primavera ’57, slittò all’inizio dell’anno successivo), ma costituì pure il primo tentativo di andare oltre, rilanciando all’ombra del grande rivoluzionario, le sorti del Partito e dell’intera sinistra italiana. Diversa la posizione di un Nenni, o ovviamente di un Lombardi o di un Basso, che, sia pure in oscillazioni politiche, furono e si sentirono comunque uomini di sinistra, anche se il primo soprattutto si fece irretire dalla paura dello spostamento a destra degli assetti di potere, e finì per adottare politiche sostanzialmente subalterne alla DC.
Un processo analogo si svolgeva intanto in seno al mondo cattolico (nel
quale l’anomalia era la presenza di una forza egemonica come la Chiesa
cattolica), negli anni a seguire, con l’ascesa di Angelo Roncalli al
soglio di Pietro, col nome di Giovanni XXIII. Era il 1958. Dopo il lungo
papato conservatore di Pio XII, quelli di “Papa Giovanni” furono anni
di rivoluzione interna, istituzionale, ma soprattutto morale. Il
Concilio Vaticano II, concepito l’anno dopo, e apertosi nel 1962, volle
davvero essere “ecumenico”, e segnò un solco, quasi un nuovo scisma in
seno al cattolicesimo: il nuovo contro il vecchio. Il cattolicesimo
detto poi “del dissenso” trovò nel Concilio una sponda formidabile di
cui si fece forza nel decennio successivo.
E, grazie a figure come Aldo Capitini o Danilo Dolci, per citarne solo un paio, emersero chiaramente forme nuove e fascinose di “religione aperta”, laica, praticata da uomini che volevano davvero cambiare il mondo, non solo con le teorizzazioni, ma con la pratica sociale. E diffidavano dei partiti, pur amando la politica. Se un altro mondo era possibile lo era altresì un’altra politica. Dal basso, al fianco dei senza terra siciliani, dei pastori sardi, dei contadini umbri. Capitini, con la sua teorica della pace e della nonviolenza, ruppe anche la logica dei blocchi, e la marcia della pace Perugia-Assisi del 1961 fu un evento epocale, col quale l’egemonia, per un momento, fu sua, in una situazione politica di diffidenza totale dei partiti della Sinistra, di antipatia del mondo cattolico, di ostilità della destra. E anche chi, come Norberto Bobbio o Guido Calogero, ebbe un sodalizio col filosofo perugino, non lo comprese mai fino in fondo: il profetismo di un “postcomunista” (parola con ben altro significato di quello con cui fu usata dopo il 1989), non poteva accordarsi con il realismo politico del primo, o col moderatismo dell’altro.
O, per citare un caso diverso, quello di Adriano Olivetti, giunto in Parlamento nel ’58 con il movimento di Comunità, il ceto medio riflessivo, la borghesia intellettuale e delle professioni, intrisa di buone letture; magari il postumo Gattopardo, e il Dottor Zivago, apparsi nel ’58, entrambi (non a caso) da Feltrinelli, a dispetto dei giudizi negativi di vari editors su Tomasi di Lampedusa e i tentativi sovietici di impedire la pubblicazione di Pasternak.
Mancavano ancora dieci anni all’esplosione studentesca, che avrebbe innescato la rivolta operaia, conferendo alla situazione italiana un carattere unico a livello internazionale. Il nostro Sessantotto non concerne insomma solo quell’anno, peraltro avviato nell’autunno del ’67 con le prime occupazioni di sedi universitarie (la Cattolica di Milano, Torino, Pisa, Trento…).
E, grazie a figure come Aldo Capitini o Danilo Dolci, per citarne solo un paio, emersero chiaramente forme nuove e fascinose di “religione aperta”, laica, praticata da uomini che volevano davvero cambiare il mondo, non solo con le teorizzazioni, ma con la pratica sociale. E diffidavano dei partiti, pur amando la politica. Se un altro mondo era possibile lo era altresì un’altra politica. Dal basso, al fianco dei senza terra siciliani, dei pastori sardi, dei contadini umbri. Capitini, con la sua teorica della pace e della nonviolenza, ruppe anche la logica dei blocchi, e la marcia della pace Perugia-Assisi del 1961 fu un evento epocale, col quale l’egemonia, per un momento, fu sua, in una situazione politica di diffidenza totale dei partiti della Sinistra, di antipatia del mondo cattolico, di ostilità della destra. E anche chi, come Norberto Bobbio o Guido Calogero, ebbe un sodalizio col filosofo perugino, non lo comprese mai fino in fondo: il profetismo di un “postcomunista” (parola con ben altro significato di quello con cui fu usata dopo il 1989), non poteva accordarsi con il realismo politico del primo, o col moderatismo dell’altro.
O, per citare un caso diverso, quello di Adriano Olivetti, giunto in Parlamento nel ’58 con il movimento di Comunità, il ceto medio riflessivo, la borghesia intellettuale e delle professioni, intrisa di buone letture; magari il postumo Gattopardo, e il Dottor Zivago, apparsi nel ’58, entrambi (non a caso) da Feltrinelli, a dispetto dei giudizi negativi di vari editors su Tomasi di Lampedusa e i tentativi sovietici di impedire la pubblicazione di Pasternak.
Mancavano ancora dieci anni all’esplosione studentesca, che avrebbe innescato la rivolta operaia, conferendo alla situazione italiana un carattere unico a livello internazionale. Il nostro Sessantotto non concerne insomma solo quell’anno, peraltro avviato nell’autunno del ’67 con le prime occupazioni di sedi universitarie (la Cattolica di Milano, Torino, Pisa, Trento…).
Ma in quello stesso 1967 due eventi luttuosi, due morti, uno per
malattia, uno vittima di un omicidio a sangue freddo, donarono due icone
eccezionalmente efficaci al movimento nascente, unificandolo: alludo a
don Lorenzo Milani, morto nel giugno di tumore, e Ernesto Guevara,
ucciso in ottobre in Bolivia, dopo esser stato catturato e torturato.
Nondimeno entrambe le icone cominciarono ad essere efficaci veicoli di
mobilitazione proprio nell’anno cruciale, non smettendo poi di
esercitare una funzione importante nei decenni seguenti.
Se il primo rompeva la gabbia gerarchica del cattolicesimo, mentre rifiutava un caposaldo dell’educazione scolastica borghese, riportava il cattolicesimo verso la sintonia con i reietti, i poveri, gli esclusi, in certo modo avvicinandosi proprio alla cultura comunista; come del resto già un altro prete, don Mazzolari aveva fatto; e come dall’America Latina un’intera corrente teologica stava facendo da tempo, non solo avvicinando il cattolicesimo al marxismo, ma puntando alla fusione della croce e del mitra, quali strumenti del nuovo o meglio antichissimo Cristo rivoluzionario.
Quanto al Che, come per Lorenzo Milani, si trattava di un nome noto a pochi, ma che, da morto, valse più che da vivo: nel romanticismo della figura eroica, nella sua stessa bellezza fisica e nella nobiltà delle parole lette, Guevara occupò largamente l’immaginario dei giovani, ancora interni al partito comunista (generalmente alla Federazione giovanile), o esterni ad esso, sempre più tentati di cercare una propria via alla rivoluzione. Il barbuto volto sorridente del rivoluzionario di professione argentino, combattente di ogni buona causa, avrebbe presto cominciato a comparire sia sui cartelloni portati nelle manifestazioni dai senza partito, presto chiamati extraparlamentari, sia sulle pareti delle sezioni di partito, dei circoli Arci, ma non di rado anche delle Acli. Più tardi sarebbe precipitato nell’apoteosi commerciale, banalizzato e in fondo tradito. Ma allora il richiamo al guevarismo e al maoismo, spesso ignorando vicende e problemi, fu il segno forte, sebbene controverso, di una contrapposizione drastica alla via elettorale, e, per qualcuno, anche alla via legale, al cambiamento politico; mentre dai “francofortesi”, che si cominciavano a leggere, giungevano messaggi di critica radicale del “sistema”. Di colpo Della Volpe e Alicata, per non parlar di Togliatti, scomparvero all’orizzonte, sostituiti da nuovi riferimenti teorico-ideologici. E non mancò chi volle vedere in don Milani “Il Gramsci dei nuovi cattolici”, tentando un collegamento fra mondi diversi e distanti, in nome di comuni istanze di radicale cambiamento.
Ormai, la cesura tra vecchio e nuovo, tra istituzionalismo e movimentismo, era in corso e appariva irreversibile. La stessa esperienza politica del Centrosinistra, esauritasi ancor prima dell’ingresso ufficiale del Psi al governo, aveva lasciato modesta traccia, e certo scarsa presa sulle nuove generazioni.
Se il primo rompeva la gabbia gerarchica del cattolicesimo, mentre rifiutava un caposaldo dell’educazione scolastica borghese, riportava il cattolicesimo verso la sintonia con i reietti, i poveri, gli esclusi, in certo modo avvicinandosi proprio alla cultura comunista; come del resto già un altro prete, don Mazzolari aveva fatto; e come dall’America Latina un’intera corrente teologica stava facendo da tempo, non solo avvicinando il cattolicesimo al marxismo, ma puntando alla fusione della croce e del mitra, quali strumenti del nuovo o meglio antichissimo Cristo rivoluzionario.
Quanto al Che, come per Lorenzo Milani, si trattava di un nome noto a pochi, ma che, da morto, valse più che da vivo: nel romanticismo della figura eroica, nella sua stessa bellezza fisica e nella nobiltà delle parole lette, Guevara occupò largamente l’immaginario dei giovani, ancora interni al partito comunista (generalmente alla Federazione giovanile), o esterni ad esso, sempre più tentati di cercare una propria via alla rivoluzione. Il barbuto volto sorridente del rivoluzionario di professione argentino, combattente di ogni buona causa, avrebbe presto cominciato a comparire sia sui cartelloni portati nelle manifestazioni dai senza partito, presto chiamati extraparlamentari, sia sulle pareti delle sezioni di partito, dei circoli Arci, ma non di rado anche delle Acli. Più tardi sarebbe precipitato nell’apoteosi commerciale, banalizzato e in fondo tradito. Ma allora il richiamo al guevarismo e al maoismo, spesso ignorando vicende e problemi, fu il segno forte, sebbene controverso, di una contrapposizione drastica alla via elettorale, e, per qualcuno, anche alla via legale, al cambiamento politico; mentre dai “francofortesi”, che si cominciavano a leggere, giungevano messaggi di critica radicale del “sistema”. Di colpo Della Volpe e Alicata, per non parlar di Togliatti, scomparvero all’orizzonte, sostituiti da nuovi riferimenti teorico-ideologici. E non mancò chi volle vedere in don Milani “Il Gramsci dei nuovi cattolici”, tentando un collegamento fra mondi diversi e distanti, in nome di comuni istanze di radicale cambiamento.
Ormai, la cesura tra vecchio e nuovo, tra istituzionalismo e movimentismo, era in corso e appariva irreversibile. La stessa esperienza politica del Centrosinistra, esauritasi ancor prima dell’ingresso ufficiale del Psi al governo, aveva lasciato modesta traccia, e certo scarsa presa sulle nuove generazioni.
E per quanto le organizzazioni giovanili dei partiti tentassero di
raccordarsi al movimento, o di frenarne gli “eccessi”, sottolineando il
dato dello scontro generazionale, il Sessantotto andava cominciando
proprio, sul finire del 1967, non solo con la rottura con la linea
politica di questo o quel partito, ma con un distacco dalla politica dei
partiti, e con un rifiuto dello stesso concetto della democrazia
rappresentativa. Ancora una volta le riviste svolsero un ruolo decisivo:
Quaderni rossi, invece che Partito socialista; l’Astrolabio, piuttosto che Repubblicani e Radicali; Officina, Nuovi Argomenti, Quindici,
invece che Partito comunista e le sue testate ortodosse. E in fondo,
Rousseau e Marcuse, piuttosto che Marx e lo stesso Gramsci.
Il Sessantotto,trovò, infine, una drammatica rilegittimazione nell’agosto dell’anno fatidico, con la nuova invasione delle truppe sovietiche (e del Patto di Varsavia), ai danni della Cecoslovacchia di Dubcek. Stavolta il Pci non si piegò, ma questo non sarebbe bastato a salvaguardare il rapporto con un movimento ormai magmatico che era impossibile controllare, e al quale, nei mesi successivi, l’esplosione della collera operaia, avrebbe portato linfa vitale, avviando una nuova fase, ben più rilevante della lotta, trasferita dalle università alle fabbriche. Il Sessantotto italiano fu un biennio, non un anno. E i “grandi anni Settanta”, così salutati da Mao Ze-dong, furono davvero tali, da noi: per il costume, le istituzioni, la società intera, anche se la reazione di una destra la cui forza era stata sottovalutata, e l’interna consunzione del movimento, isterilito nelle dispute e paralizzato dalle scissioni, produssero, nel finale, danni i cui effetti gravano ancora sul nostro presente. Eppure le istanze che quel movimento raccolse dal dodicennio precedente, pur nelle ingenuità e negli errori, talora gravissimi, imperdonabili, furono nobili, sotto il segno di una genuina volontà di dare l’assalto al cielo.
Fu la rivoluzione femminista (che in parte coincise con il movimento di liberazione sessuale) forse il suo prodotto più rilevante, in assoluto contrasto alle culture politiche tradizionali, anche della sinistra, a dimostrazione che nelle piccole e meno piccole crepe apparse nel loro seno, si stavano annidando i germi di una vera rivoluzione. Sì, come recita il titolo di una memoria di un protagonista (Mario Capanna), furono “formidabili quegli anni”. E vale la pena di continuare a indagarli, cercandone le scaturigini, come questo Convegno tenterà di fare.
Il Sessantotto,trovò, infine, una drammatica rilegittimazione nell’agosto dell’anno fatidico, con la nuova invasione delle truppe sovietiche (e del Patto di Varsavia), ai danni della Cecoslovacchia di Dubcek. Stavolta il Pci non si piegò, ma questo non sarebbe bastato a salvaguardare il rapporto con un movimento ormai magmatico che era impossibile controllare, e al quale, nei mesi successivi, l’esplosione della collera operaia, avrebbe portato linfa vitale, avviando una nuova fase, ben più rilevante della lotta, trasferita dalle università alle fabbriche. Il Sessantotto italiano fu un biennio, non un anno. E i “grandi anni Settanta”, così salutati da Mao Ze-dong, furono davvero tali, da noi: per il costume, le istituzioni, la società intera, anche se la reazione di una destra la cui forza era stata sottovalutata, e l’interna consunzione del movimento, isterilito nelle dispute e paralizzato dalle scissioni, produssero, nel finale, danni i cui effetti gravano ancora sul nostro presente. Eppure le istanze che quel movimento raccolse dal dodicennio precedente, pur nelle ingenuità e negli errori, talora gravissimi, imperdonabili, furono nobili, sotto il segno di una genuina volontà di dare l’assalto al cielo.
Fu la rivoluzione femminista (che in parte coincise con il movimento di liberazione sessuale) forse il suo prodotto più rilevante, in assoluto contrasto alle culture politiche tradizionali, anche della sinistra, a dimostrazione che nelle piccole e meno piccole crepe apparse nel loro seno, si stavano annidando i germi di una vera rivoluzione. Sì, come recita il titolo di una memoria di un protagonista (Mario Capanna), furono “formidabili quegli anni”. E vale la pena di continuare a indagarli, cercandone le scaturigini, come questo Convegno tenterà di fare.
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