Se i capitalisti, presi singolarmente,
non agiscono in termini razionali (in riferimento al sistema produttivo
generale, s’intende), il capitalismo nel suo complesso sa descriversi
molto bene. La voce del padrone, a volte, riesce ad illuminare meglio
delle esegesi proletarie. L’assunto apparso sul Corriere di
giovedì scorso sembra confermare questo dato. In un articolo di tal
Roberto Sommella, si legge questa frase, buttata là per dimostrare una
cosa che in realtà ne dimostra una opposta: “Apple quest’anno può
guadagnare 88 miliardi di euro occupando 92.600 persone, mentre negli
Anni 60 General Motors raggiungeva i 7 miliardi di dollari di ricavi
dando un salario a 600.000 dipendenti.” Sembra una banalità, invece è
esattamente qui il cuore della crisi capitalista, la contraddizione
principale tale per cui le crisi, nell’attuale sistema produttivo, sono
cicliche e mai risolte una volta per tutte. La natura borghese della
riflessione del commentatore del Corriere impedisce però di
trarne la giusta conclusione (una volta si sarebbe detto: la sua falsa
coscienza necessaria che crede di scovare l’inghippo invece continua a
non capirlo). Secondo Sommella, infatti,
criticando tale forma produttiva di “crescita senza lavoro”, afferma che
ormai, nel capitalismo digitale, questo riesce a generare profitti
senza creare posti di lavoro (di qui alla conseguenza implicita
subordinata, cioè che i capitali riescono a rigenerarsi senza mano
d’opera lavorativa, il passo è brevissimo e già compiuto nella testa
dell’articolista). Sembra incredibile dopo quasi un decennio di crisi e
recessione reale, ma c’è ancora qualcuno che afferma che “il capitalismo
genera profitti senza lavoro” (e non ci riferiamo alle simpatiche
fandonie post-operaiste sul superamento della teoria del valore, quanto
alle analisi dei capitalisti stessi, quelli più avveduti, non gli
ovvinionisti alla Severgnini). Se c’è una cosa che in questi dieci anni
(per dire dell’epifenomeno, in realtà bisognerebbe guardare alla
tendenza almeno trentennale) dovrebbe essere chiara, materiale, persino
noiosa, è quella per cui il capitalismo non riesce più a generare profitti. Non è una crescita senza lavoro, è una non crescita senza lavoro.
Breve divagazione: il fatto che la
tendenza si sia manifestata concretamente solo in questi ultimi anni è
dato dalla serie di misure di controtendenza che il capitale ha messo in
moto per arginare la perdita di profitti. In pratica, la
finanziarizzazione dell’economia, l’esplosione dei mutui, del ricorso
strutturale al debito privato, altro non sono che tentativi di mantenere
un adeguato livello medio dei consumi a fronte di un tendenziale
impoverimento determinato dalla caduta generale del saggio di profitto.
Se prima con uno stipendio ci si poteva pagare l’affitto, comprarsi
l’auto e la lavatrice, e dopo dieci anni mi compro sempre l’auto e la
lavatrice ma accendendo un mutuo, l’elemento di controtendenza (il
mutuo, cioè la possibilità di comprare indirettamente indebitandomi)
garantisce al sistema di produrre e vendere, ma genera un fenomeno
debitorio privato. Se dopo dieci anni ancora le garanzie che mi
servivano per accendere il mutuo vengono progressivamente limate (altro
elemento di controtendenza), ecco che il sistema continua a resistere
(cioè le aziende riescono ancora a vendere), ma la bolla cresce fino a
generare il mostro, cioè l’insolvenza generale (stiamo qui parlando di
debiti privati, non dei debiti statali e/o pubblici). Ecco perché
l’attuale fase è quella di una non crescita, ma dell’estremo tentativo
di agire elementi di controtendenza fino a quando qualche cosa non
faccia ripartire i profitti. Il capitalismo però non ha rimedi
razionali, dunque sono tutti in attesa del futuro, mantenendo
artificialmente in vita il cadavere di un sistema produttivo inceppato.
Fine della divagazione, torniamo ora al
nostro Sommella e alla sua illuminante sintesi. Se la crisi è
determinata da questa benedetta caduta del saggio di profitto (una
caduta, è bene sottolinearlo, tendenziale, non diretta quanto,
piuttosto, inevitabile, dato il carattere irrazionale complessivo dei
singoli capitalisti; oltretutto, è una caduta relativa, e non assoluta),
la causa di questa caduta sta proprio nel concetto espresso da Sommella
sul Corriere. Leggiamo Marx (libro III, sezione III, capitolo
XIII):
“supponendo[...]che questo graduale mutamento della composizione
del capitale[...]implichi mutamenti della composizione organica
media[...]totale appartenente ad una determinata società, allora questo
graduale aumento del capitale costante in rapporto al capitale variabile
avrà necessariamente per risultato una graduale caduta del saggio
generale di profitto pur restando invariato il saggio di plusvalore,
ovvero il grado di sfruttamento del lavoro da parte del capitale[...]La
tendenza reale della produzione capitalistica[...]genera, con la
continua diminuzione relativa del capitale variabile in confronto al
capitale costante, una composizione organica del capitale totale sempre
più elevata, la cui conseguenza immediata è che il saggio di
plusvalore, eguale restando e perfino crescendo il grado di sfruttamento
del lavoro, si esprime in un saggio generale di profitto continuamente
decrescente.”
In pratica Marx ci dice che il capitalista tende ad
allargare il suo commercio, ad espandersi, a ricercare sempre più
profitti, e questa tale dinamica porta la composizione organica del suo
capitale a privilegiare la sua parte fissa, cioè ad investire in
macchinari, perché questi aumentano la produttività del lavoro a parità
di sfruttamento. Solo che spostando troppo il baricentro della
composizione del capitale investito sulla sua parte costante, il
profitto tende a decrescere, perché questo è determinato solo dal
plusvalore determinato dal lavoro astrattamente incorporato nell’oggetto
prodotto dal lavoratore. La finanziarizzazione dell’economia è un
gigantesco processo antagonistico alla caduta dei profitti, non il nuovo
modo che hanno scovato i capitalisti stessi per generare profitti
liberandosi del lavoro. Da questo se ne ricava che rimane sempre e
comunque il lavoro lo strumento attraverso cui moltiplicare i capitali.
Rileggiamo ora Sommella: “Apple
quest’anno può guadagnare 88 miliardi di euro occupando 92.600 persone,
mentre negli Anni 60 General Motors raggiungeva i 7 miliardi di dollari
di ricavi dando un salario a 600.000 dipendenti.” L’esempio di Apple
vale per il capitalismo nel suo complesso: in questi trent’anni è
cresciuta esponenzialmente la quota di capitale investito in macchinari
di vario tipo (dai computer alla robotizzazione, dal digitale alle
economie di scala, eccetera). Questo non ha prodotto meno sfruttamento
della mano d’opera, ma una sua minore incidenza nel valore complessivo
della merce venduta. Un intero capitolo del bel libro di Zoja e Galloni,
Crisi, tendenza alla guerra e classe (l’appendice 3: il
keynesismo, sociale o militare che sia, è ancora attuale o attuabile?)
spiega egregiamente perché è impossibile riattivare il modello economico
keynesiano stante l’attuale composizione organica del capitale: l’alta
intensità di lavoro incorporato nelle opere pubbliche degli anni trenta
consentiva al moltiplicatore keynesiano di soddisfare la domanda di
salario di un numero enorme di lavoratori generando una dinamica attiva
dei consumi; oggi una qualsiasi opera pubblica (la Tav, gli F35, il
Mose, l’Expo, eccetera) richiede una composizione organica del capitale a
bassissima intensità di lavoro e, viceversa, ad altissima
concentrazione di macchinari. Ecco perché anche moltiplicando tali
interventi pubblici, fosse anche sul piano militare, questi darebbero
lavoro a una percentuale infinitesimale di persone rispetto a ciò che la
crisi e la mancanza di lavoro richiederebbero.
Il capitalismo però non deciderà
razionalmente di privarsi, eliminandolo, del capitale costante in
eccesso. Siamo in una fase di estrema, epocale, concentrazione di
capitali tendenti al monopolio. I miliardi di telefonini e computer
prodotti nel mondo sono di proprietà di aziende che possono contarsi
sulle dita di una mano; lo stesso discorso vale per il cibo, le
automobili, le banche, eccetera. Anche l’aspetto logistico va
concentrandosi in dimensioni senza precedenti. La concentrazione
produttiva porta con se, come abbiamo visto, l’aumento forzato della
produttività nel lavoro, cioè l’impiego di macchinari in sostituzione
della mano d’opera lavorativa. Il problema allora, nel prossimo futuro,
non sarà di una graduale soluzione alla crisi, quanto di un suo
peggioramento, in vista di quegli eventi inaspettati capaci di
riattivare il ciclo di accumulazione. Non ci sarà alcuna crescita senza
occupazione. Continueremo, perversamente, in una tragica decrescita
mista a sfruttamento lavorativo.
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