Intervista . Hugo Radice, docente all’Università di Leeds sulle politiche economiche e fiscali europee: «È necessario ripartire dalle conquiste ottenute dai movimenti popolari e di base»
Sulla relazione tra politiche economiche e fiscali europee e crisi della democrazia abbiamo rivolto alcune domande a Hugo Radice, docente all’Università di Leeds.
In che modo il Fiscal Compact può rappresentare un problema per la democrazia?
I limiti all’esercizio degli strumenti democratici di decisione e controllo in materia di politica fiscale hanno cominciato a materializzarsi in Europa sin dalla sottoscrizione del trattato di Maastricht venti anni fa. In questo modo da un lato si è affievolita la capacità dei parlamenti nazionali di gestire e controllare i propri bilanci, dall’altro si sono cominciate ad adottare politiche promosse e garantite nella loro applicazione da un organismo non elettivo, la Commissione Europea. Tuttavia, nella fase di vigenza dei vincoli di Maastricht i parlamenti nazionali mantenevano la possibilità di coalizzarsi e contrattare all’interno della Commissione per indirizzare o bloccare decisioni ritenute distanti dagli interessi dei propri elettorati. In seguito alla crisi dei debiti sovrani nell’eurozona, la Germania ed i paesi ad essa alleati hanno ottenuto che i nuovi e più rigidi vincoli alla politica fiscale degli Stati membri fossero accompagnati da una serie di strumenti sanzionatori azionabili dalla Commissione. Il Fiscal compact autorizza la Commissione a ricorrere presso la Corte di Giustizia per obbligare ogni Stato firmatario a rimanere entro il nuovo limite, lo 0,5% per il cosiddetto deficit strutturale, pena la riduzione dei fondi europei assegnati o altre sanzioni.
Perché il concetto di deficit strutturale può essere così pericoloso e in che modo è connesso al tema della democrazia?
Non solo economisti radicali ma anche molti appartenenti al cosiddetto mainstream neoliberale hanno evidenziato due elementi fondamentali legati all’uso del deficit strutturale come obiettivo di politica economica. Primo, il deficit strutturale non può essere misurato oggettivamente durante il processo di formazione del bilancio. Secondo, i sistemi di misurazione attualmente in uso sono distorti: durante le recessioni, vi è una sovrastima del deficit che conduce a tagli di spesa (o ad aumenti delle tasse) forieri di un ulteriore peggioramento delle recessioni stesse.
Lei ha affermato che il Fiscal compact è un esempio perfetto di quella che definisce «la politica della depoliticizzazione». Cosa intende?
La depoliticizzazione si verifica quando il controllo delle politiche pubbliche passa da organismi elettivi come i parlamenti a soggetti «esperti» non eletti. L’esempio più calzante è quello della politica monetaria, sottratta quasi ovunque ai Ministri dell’Economia, tradizionalmente soggetti al controllo dei parlamenti, e attribuita alle Banche Centrali ed ai loro governatori. Questo passaggio può sembrare poco importante considerando che i governatori delle Banche Centrali sono a loro volta nominati dai governi, tuttavia, il presupposto di questo trasferimento di poteri è stato esattamente quello di sottrarre ai parlamenti la possibilità di adottare politiche fiscali e di stimolo di breve termine in tutti i casi in cui queste fossero invise alla Banca Centrale.
Il premier Renzi è stato ampiamente lodato dalla stampa europea perché sembrerebbe volersi impegnare per ottenere un approccio più flessibile alle regole di bilancio in Europa. Cosa ne pensa?
Questo riflette il crescente malcontento pubblico rispetto alle politiche di austerità. Moltissime persone sono ormai consapevoli del fatto che l’origine della crisi dei debiti sovrani non risiede nel comportamento poco virtuoso dei governi bensì nella spregiudicatezza delle banche a cui si è concesso di operare in un contesto del tutto deregolamentato. L’attuale presa di posizione di Renzi in Europa sembra essere motivata principalmente dalla necessità di non perdere il proprio consenso elettorale, tuttavia, va comunque considerata una mossa positiva.
Cosa dovrebbe prevedere una reale democratizzazione dell’Unione Europea?
Innanzitutto un’inversione della logica neoliberista che ha guidato le decisioni negli ultimi trenta anni. Questo richiederebbe un riallineamento che rimetta assieme i partiti di sinistra, quelli ecologisti e le rimanenti componenti progressiste. È necessario ripartire dalle conquiste ottenute in questi anni dai movimenti popolari e di base. Si sente il bisogno di una politica di speranza che abbia l’ambizione di un radicale cambiamento dal basso. Ma al tempo stesso sarebbe secondo me un errore abbandonare il sogno di un Europa unita e pacifica.
di Thomas Fazi, Il manifesto
I limiti all’esercizio degli strumenti democratici di decisione e controllo in materia di politica fiscale hanno cominciato a materializzarsi in Europa sin dalla sottoscrizione del trattato di Maastricht venti anni fa. In questo modo da un lato si è affievolita la capacità dei parlamenti nazionali di gestire e controllare i propri bilanci, dall’altro si sono cominciate ad adottare politiche promosse e garantite nella loro applicazione da un organismo non elettivo, la Commissione Europea. Tuttavia, nella fase di vigenza dei vincoli di Maastricht i parlamenti nazionali mantenevano la possibilità di coalizzarsi e contrattare all’interno della Commissione per indirizzare o bloccare decisioni ritenute distanti dagli interessi dei propri elettorati. In seguito alla crisi dei debiti sovrani nell’eurozona, la Germania ed i paesi ad essa alleati hanno ottenuto che i nuovi e più rigidi vincoli alla politica fiscale degli Stati membri fossero accompagnati da una serie di strumenti sanzionatori azionabili dalla Commissione. Il Fiscal compact autorizza la Commissione a ricorrere presso la Corte di Giustizia per obbligare ogni Stato firmatario a rimanere entro il nuovo limite, lo 0,5% per il cosiddetto deficit strutturale, pena la riduzione dei fondi europei assegnati o altre sanzioni.
Perché il concetto di deficit strutturale può essere così pericoloso e in che modo è connesso al tema della democrazia?
Non solo economisti radicali ma anche molti appartenenti al cosiddetto mainstream neoliberale hanno evidenziato due elementi fondamentali legati all’uso del deficit strutturale come obiettivo di politica economica. Primo, il deficit strutturale non può essere misurato oggettivamente durante il processo di formazione del bilancio. Secondo, i sistemi di misurazione attualmente in uso sono distorti: durante le recessioni, vi è una sovrastima del deficit che conduce a tagli di spesa (o ad aumenti delle tasse) forieri di un ulteriore peggioramento delle recessioni stesse.
Lei ha affermato che il Fiscal compact è un esempio perfetto di quella che definisce «la politica della depoliticizzazione». Cosa intende?
La depoliticizzazione si verifica quando il controllo delle politiche pubbliche passa da organismi elettivi come i parlamenti a soggetti «esperti» non eletti. L’esempio più calzante è quello della politica monetaria, sottratta quasi ovunque ai Ministri dell’Economia, tradizionalmente soggetti al controllo dei parlamenti, e attribuita alle Banche Centrali ed ai loro governatori. Questo passaggio può sembrare poco importante considerando che i governatori delle Banche Centrali sono a loro volta nominati dai governi, tuttavia, il presupposto di questo trasferimento di poteri è stato esattamente quello di sottrarre ai parlamenti la possibilità di adottare politiche fiscali e di stimolo di breve termine in tutti i casi in cui queste fossero invise alla Banca Centrale.
Il premier Renzi è stato ampiamente lodato dalla stampa europea perché sembrerebbe volersi impegnare per ottenere un approccio più flessibile alle regole di bilancio in Europa. Cosa ne pensa?
Questo riflette il crescente malcontento pubblico rispetto alle politiche di austerità. Moltissime persone sono ormai consapevoli del fatto che l’origine della crisi dei debiti sovrani non risiede nel comportamento poco virtuoso dei governi bensì nella spregiudicatezza delle banche a cui si è concesso di operare in un contesto del tutto deregolamentato. L’attuale presa di posizione di Renzi in Europa sembra essere motivata principalmente dalla necessità di non perdere il proprio consenso elettorale, tuttavia, va comunque considerata una mossa positiva.
Cosa dovrebbe prevedere una reale democratizzazione dell’Unione Europea?
Innanzitutto un’inversione della logica neoliberista che ha guidato le decisioni negli ultimi trenta anni. Questo richiederebbe un riallineamento che rimetta assieme i partiti di sinistra, quelli ecologisti e le rimanenti componenti progressiste. È necessario ripartire dalle conquiste ottenute in questi anni dai movimenti popolari e di base. Si sente il bisogno di una politica di speranza che abbia l’ambizione di un radicale cambiamento dal basso. Ma al tempo stesso sarebbe secondo me un errore abbandonare il sogno di un Europa unita e pacifica.
di Thomas Fazi, Il manifesto
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