Confindustria e le imprese italiane chiedono spesa pubblica. Subito, tanta, per infrastrutture. E qui c'è già il primo errore clamoroso. Poi insistono sul "rigore" a senso unico su lavoratori pubblici, pensioni, redditi da lavoro. Ed è il secondo errore, quello irrepatabile.
Con un editoriale firato dal direttore, Roberto Napoletano, IlSole24Ore fa sentire la voce delle imprese dopo una serie di dati pessimi sull'andamento dell'economia reale sia in Italia che nell'Unione Europea. Caduta la produzione industriale italiana (-1,8% rispetto a un anno fa), ma anche quella francese e tedesca; il che indica un limite clamoroso nelle scelte di gestione della crisi continentale. Non c'è infatti solo la difficoltà permanente dei "piigs", paesi-cicale con i conti in disordine, ma anche quella dei due principali pilastri industriali della Ue.
Certamente ha un senso invocare un "new deal" di dimensioni europee, ma delimitarlo - secondo le regole attuali della Ue - alle sole "grandi opere infrastrutturali" è alzare polvere senza fare pulizia. Interventi del genere, anche quando effettuati (e c'è da dubitarne fortemente, visto l'atteggiamento di Merkel e Bundesbank), aumentarebbero i profitti di pochissime grandi imprese, senza incidere minimamente sui tassi di disoccupazione e sui redditi disponibili per maggiori consumi di massa. Per la fascia di imprese produttive il cui output è soprattutto verso il mercato inerno i risultati sarebbero assenti o quasi. Mentre i bilanci pubblici ne verrebbero egualmente compromessi. Come spiega Kim Kallas, estone commissario pro-tempore agli affari economici della Ue, "da nostro punto di vista non ci sono spese buone o cattive, ma solo spese". Tutte "cattive", secondo l'attuale indirizzo teorico e pratico prevalente.
Confindustria è diventata insomma "keynesiana", ma soltanto a metà. Anzi, per un quarto.
Ma il fatto grave - gravissimo - è che colloca questa richiesta nel quadro di un attivismo europeo "competitivo", affiancandola alla richiesta di una "difesa comune" e di una politica estera europea capace di conquistare spazio sui merati inetrnazionali. Un combinato disposto che in altri tempi è stato definito senza mezzi termini come "imperialismo". Il quale, ricordiamolo almeno a chi si ritiene comunista, non è un atteggiamento aggressivo-invasivo-militarista, ma una fase del modo di produzione. L'espansione indefinita della crescita economica, in un mondo limitato, comporta obbligatoriamente - per questioni puramente "di spazio" - lo scontro duro con altri interessi altrettanto capitalistici. Secondo una dinamica che vede come sbocco "naturale" la guerra. O, se volete chiamarla così, "la competizione con altri mezzi".
E' questo l'orizzonte di ogni richiesta "keynesiana", ovvero di espansione forzata della produzione al di là dei limiti "fisiologici" già toccati con l'apertura ufficiale della fase di crisi (2007 sul piano finanziario, molto prima su quello della "aturazione dei mercati").
Si spiega in questo modo anche l'esibita intolleranza verso qualsiasi perplessità, interesse differente, esitazione. ""Per uscire dal mondo vecchio non dovranno essere più tollerati compromessi con i vizi di una spesa pubblica improduttiva [...] il sindacato in particolare deve capire che il futuro non può essere quello della cassa integrazione in deroga e di un mercato del lavoro cristallizzato". Cristallizzato? Ma se da venti anni a questa parte i governi non hanno fatto altro che liquefarlo ("flessibilità", a questo punto, suona quasi come una "stabilizzazione")!
La ripetizione di parole vecchie in un contesto già modificato indica una volontà di andare a fondo, senza più mediazioni. Spazzando via non più un sistema di regole e tutele - anche costituzionali - che di fatto già non esiste più sul piano pratico; ma l'idea stessa che il lavoro subordinato sia titolare di un potere contrattuale, quindi in fondo anche di diritti umani.
E' la richiesta di un piano di guerra sul piano interno per meglio preparare quello internazionale. Nemmeno più tanto "tra le righe". Ed è a partire da qui che Confindustria striglia Renzi a "fare" davvero quel che sinora ha soltanto "detto".
Volete sopportare questa logica "stringente"? Volete farlo sapendo che siete proprio voi quelli che verranno "stretti" fino a essere strizzati? Volete opporvi senza ragionare a fondo, scientificamente, su come sta cambiando il quadro? Non ci sembra il caso di affrontare questi nemici con la candida ingenuità di chi pensa ancora di vivere in un mondo "democratico liberale" e che quindi "un certo livello di benessere ce lo devono pur sempre lasciare".
La situazione economic segna dunque una temperatura sottozero, ma quella politica e sociale vede salire molte febbri.
Con un editoriale firato dal direttore, Roberto Napoletano, IlSole24Ore fa sentire la voce delle imprese dopo una serie di dati pessimi sull'andamento dell'economia reale sia in Italia che nell'Unione Europea. Caduta la produzione industriale italiana (-1,8% rispetto a un anno fa), ma anche quella francese e tedesca; il che indica un limite clamoroso nelle scelte di gestione della crisi continentale. Non c'è infatti solo la difficoltà permanente dei "piigs", paesi-cicale con i conti in disordine, ma anche quella dei due principali pilastri industriali della Ue.
Certamente ha un senso invocare un "new deal" di dimensioni europee, ma delimitarlo - secondo le regole attuali della Ue - alle sole "grandi opere infrastrutturali" è alzare polvere senza fare pulizia. Interventi del genere, anche quando effettuati (e c'è da dubitarne fortemente, visto l'atteggiamento di Merkel e Bundesbank), aumentarebbero i profitti di pochissime grandi imprese, senza incidere minimamente sui tassi di disoccupazione e sui redditi disponibili per maggiori consumi di massa. Per la fascia di imprese produttive il cui output è soprattutto verso il mercato inerno i risultati sarebbero assenti o quasi. Mentre i bilanci pubblici ne verrebbero egualmente compromessi. Come spiega Kim Kallas, estone commissario pro-tempore agli affari economici della Ue, "da nostro punto di vista non ci sono spese buone o cattive, ma solo spese". Tutte "cattive", secondo l'attuale indirizzo teorico e pratico prevalente.
Confindustria è diventata insomma "keynesiana", ma soltanto a metà. Anzi, per un quarto.
Ma il fatto grave - gravissimo - è che colloca questa richiesta nel quadro di un attivismo europeo "competitivo", affiancandola alla richiesta di una "difesa comune" e di una politica estera europea capace di conquistare spazio sui merati inetrnazionali. Un combinato disposto che in altri tempi è stato definito senza mezzi termini come "imperialismo". Il quale, ricordiamolo almeno a chi si ritiene comunista, non è un atteggiamento aggressivo-invasivo-militarista, ma una fase del modo di produzione. L'espansione indefinita della crescita economica, in un mondo limitato, comporta obbligatoriamente - per questioni puramente "di spazio" - lo scontro duro con altri interessi altrettanto capitalistici. Secondo una dinamica che vede come sbocco "naturale" la guerra. O, se volete chiamarla così, "la competizione con altri mezzi".
E' questo l'orizzonte di ogni richiesta "keynesiana", ovvero di espansione forzata della produzione al di là dei limiti "fisiologici" già toccati con l'apertura ufficiale della fase di crisi (2007 sul piano finanziario, molto prima su quello della "aturazione dei mercati").
Si spiega in questo modo anche l'esibita intolleranza verso qualsiasi perplessità, interesse differente, esitazione. ""Per uscire dal mondo vecchio non dovranno essere più tollerati compromessi con i vizi di una spesa pubblica improduttiva [...] il sindacato in particolare deve capire che il futuro non può essere quello della cassa integrazione in deroga e di un mercato del lavoro cristallizzato". Cristallizzato? Ma se da venti anni a questa parte i governi non hanno fatto altro che liquefarlo ("flessibilità", a questo punto, suona quasi come una "stabilizzazione")!
La ripetizione di parole vecchie in un contesto già modificato indica una volontà di andare a fondo, senza più mediazioni. Spazzando via non più un sistema di regole e tutele - anche costituzionali - che di fatto già non esiste più sul piano pratico; ma l'idea stessa che il lavoro subordinato sia titolare di un potere contrattuale, quindi in fondo anche di diritti umani.
E' la richiesta di un piano di guerra sul piano interno per meglio preparare quello internazionale. Nemmeno più tanto "tra le righe". Ed è a partire da qui che Confindustria striglia Renzi a "fare" davvero quel che sinora ha soltanto "detto".
Volete sopportare questa logica "stringente"? Volete farlo sapendo che siete proprio voi quelli che verranno "stretti" fino a essere strizzati? Volete opporvi senza ragionare a fondo, scientificamente, su come sta cambiando il quadro? Non ci sembra il caso di affrontare questi nemici con la candida ingenuità di chi pensa ancora di vivere in un mondo "democratico liberale" e che quindi "un certo livello di benessere ce lo devono pur sempre lasciare".
La situazione economic segna dunque una temperatura sottozero, ma quella politica e sociale vede salire molte febbri.
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