Il governo vuole chiedere un allentamento dei criteri fiscali per scorporare la spesa per investimenti dal computo del deficit. Ma mentre Monti e Letta preferivano la politica dei piccoli passi, Renzi prova il tutto per tutto subito. Una strategia che, da un punto di vista economico, rischia di essere miope e di corto respiro
Il semestre di Presidenza italiana dell’Unione europea è appena iniziato e la stampa internazionale riporta la notizia di Renzi che rinfaccia alla Germania l’aver sforato i parametri di Maastricht per prima, nel 2003. Il confronto con la Germania non era mai stato così ufficiale, almeno a parole, negli ultimi anni. Ma qual è il motivo del contendere? Quali gli obiettivi? E quali le prospettive? L’idea, che risale già ai tempi del governo Monti, è quella di chiedere un allentamento dei criteri di sorveglianza fiscale che permetta di scorporare la spesa pubblica per investimenti dal computo del deficit. Questo darebbe all’Italia, e agli altri paesi in difficoltà, margini di spesa maggiori del previsto senza incappare nella procedura di deficit eccessivo della Commissione europea.
Questo è l’obiettivo principale della politica italiana in Europa sin dal governo Monti. La differenza fra Renzi ed i suoi predecessori è la strategia negoziale: mentre Monti e Letta preferivano la politica dei piccoli passi, chiedere a mezza voce, dire e non dire, dimostrarsi dei bravi alunni, fare i compiti a casa per poi chiedere qualche concessione; Renzi prova il tutto per tutto subito, per poi magari ottenere un compromesso al ribasso.
Da un punto di vista negoziale, considerando che l’arena politica europea è sempre più una lotta fra egoismi nazionali, invece che una cooperazione fra amici, questa strategia è sicuramente migliore delle precedenti. Da un punto di vista economico, invece, rischia di essere miope e di corto respiro.
L’intera nuova architettura macroeconomica dell’eurozona è centrata sulla riduzione degli squilibri commerciali fra i paesi. Questo ha certificato, semmai ce ne fosse bisogno, che la zona euro non è e non sarà un’unione economica. Perché in una vera unione economica non si sta certo a guardare quale regione esporta e quale importa di più, e il budget centrale redistribuisce automaticamente. Addirittura gli istituti nazionali di statistica non registrano neanche più la posizione commerciale netta delle regioni all’interno di una nazione. Nell’eurozona, invece, la riduzione degli squilibri di bilancia dei pagamenti, e quindi del debito estero, diventa una necessità concreta per i paesi, come del resto è sempre stata prima dell’euro, non un obbligo legale.
I paesi che chiederanno l’allentamento dei criteri di sorveglianza fiscale, come l’Italia, la Francia o la Spagna, sono paesi che stanno faticosamente cercando di rientrare da un disavanzo della bilancia commerciale, cioè hanno importato troppo rispetto a quanto hanno esportato. E, almeno per l’Italia, i principali partner commerciali sono nell’eurozona, in particolare la Germania, quindi i nostri conti esteri sono legati alla competitività relativa con questi paesi.
Ammesso che si arrivasse ad un allentamento dei vincoli legali, e che si potesse realizzare maggiore spesa pubblica, questa si tradurrebbe in un aumento della domanda interna. Ma se il livello di competitività relativa fra l’Italia e i principali partner commerciali (il centro dell’eurozona, “casualmente” in surplus commerciale rispetto a noi) resta invariato, allora l’aumento di domanda interna in Italia si traduce immediatamente in maggiori importazioni, quindi in un peggioramento della bilancia commerciale italiana, ed in uno stimolo alla domanda estera per quei paesi. Questo è il motivo per cui, in fin dei conti, alla Germania non dispiacerà accettare le richieste italiane di spendere un po’ di più.
In buona sostanza, l’economia italiana è come un serbatoio che perde; la proposta è di riempirlo ulteriormente, senza preoccuparsi troppo della perdita. Bisognerebbe, invece, tappare il buco, cioè la costante perdita di competitività rispetto ai principali partner commerciali. Teoricamente questo si potrebbe fare in due modi: o dall’interno o dall’esterno.
Nel primo caso, si tratta di austerità e svalutazione interna, cioè taglio dei redditi. Ci abbiamo provato, ci hanno provato gli altri paesi, con le conseguenze che conosciamo: distruggiamo la domanda interna, creiamo disoccupazione, forziamo una riduzione dei salari, tutto per importare di meno e magari esportare qualcosa in più se le nostre merci costano meno. Come previsto, questa politica ha fallito, per tre motivi. Il primo interno alla zona euro: la svalutazione dei redditi nei paesi in deficit funziona se accompagnata da una simmetrica espansione in quelli in surplus. La Germania invece di adottare politiche espansive ha addirittura accelerato la sua politica interna di austerità, anticipando di due anni il pareggio di bilancio e costringendo gli altri a tagliare ancora di più. Il secondo esterno: l’euro invece di deprezzarsi, si è apprezzato; perché non è solo la nostra moneta, ma anche quella di paesi come la Germania che hanno un enorme surplus commerciale, quindi non hanno bisogno di un deprezzamento. Il terzo di carattere morale: non si possono ignorare i costi sociali e politici di questa politica da inizio novecento.
Nel secondo caso, ed in una situazione normale, quando l’economia di un paese importa troppo rispetto a quanto esporta il mercato dei cambi “riallinea” il valore della sua moneta, in questo caso deprezzandola. Ovviamente il deprezzamento ha senso solo se avviene in termini relativi rispetto ai principali partner commerciali, che per noi (guarda un po’!), sono all’interno dell’eurozona. In altre parole la moneta in cui le merci italiane sono prezzate dovrebbe riallinearsi rispetto a quella dei partner commerciali. Il che implicherebbe che queste monete fossero diverse. L’unico modo per farlo, quindi, sarebbe liberarsi dal vincolo della moneta unica.
Il grande obiettivo della Presidenza italiana, quindi, se anche fosse raggiunto, non risolverebbe il problema di fondo rappresentato dall’appartenenza ad un’unione monetaria mal concepita, peggio costruita, e ormai chiaramente insostenibile. L’Italia lascerà passare questo semestre di Presidenza senza discuterne. Il prossimo non ci sarà prima di quattordici anni.
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