giovedì 12 aprile 2012

Disoccupazione e disinformazione, di Giampaolo Patta


È in atto una martellante campagna per convincere gli italiani che la colpa della disoccupazione giovanile é del posto fisso e dell’articolo 18, il quale – rendendo difficili i licenziamenti – scoraggerebbe le assunzioni.
Insomma, i giovani restano disoccupati perché pochi escono dal lavoro e perché le imprese non possono licenziare liberamente.
Bugiardi.
I lavoratori licenziati ogni anno sono in numero enorme. L’Inps ha erogato, nel 2010, 2,2 milioni indennità di disoccupazione tra ordinarie (licenziati per motivi indipendenti dalla propria volontà), a requisiti ridotti (per i discontinui) e agricole su poco più di 12 milioni di lavoratori dipendenti. Così all’incirca è stato nel 2011 e così si prevede per il 2012. Anche nei periodi non di crisi i numeri sono elevati.
Le entrate e le uscite dal mondo del lavoro hanno dimensioni ancora più cospicue perché ai licenziamenti vanno aggiunte le dimissioni volontarie, i pensionamenti e purtroppo le morti.
Se infatti guardiamo le imprese sopra i 500 dipendenti che, secondo la campagna in atto, sarebbero il santuario del posto fisso, sappiamo dall’Istat che il turn over è stato (2010) del 27%. 113 assunti a fronte di 122 in uscita, dei quali il 73% per scadenza dei famigerati contratti a termine, dimissioni incentivate o licenziamenti; e il 27% per cessazioni spontanee. I licenziamenti secchi sono stati il 7,5%. Teniamo presente che nei periodi pre-crisi il turn over è arrivato al 36%.
Se avessero ragione coloro che incolpano l’articolo 18 della precarietà esistente le cose dovrebbero invece andare bene nelle aziende che non devono reintegrare il lavoratore ingiustamente licenziato. Così non è. Nelle aziende fino a 10 dipendenti (dove non solo non vige il famigerato art. 18 ma non è presente nemmeno il sindacato), nel 2010 su 332.620 assunzioni solo 112.910 (il 33%) erano a tempo indeterminato; mentre le altre si dividevano tra tempi determinati e stagionali. Il tasso degli assunti a tempo indeterminato, esclusi gli stagionali, nelle aziende sotto i 10 dipendenti, è quasi identico a quello delle imprese con oltre 500 dipendenti (il 47% nelle microimprese contro il 46,6% nelle grandi). Se aggiungiamo gli stagionali, la precarietà nelle imprese dove non vige lo statuto dei lavoratori con il suo art. 18 schizza a livelli nettamente superiori a quello delle grandi imprese.
E che dire delle Pubblica amministrazione dove l’art. 18 è assolutamente marginale e dove i contratti a tempo determinato sono in pochi anni raddoppiati, arrivando a interessare circa 500 mila lavoratori?
Le cause sono quindi più complesse e del resto l’articolo 18 dello Statuto è stato approvato nel 1970; in oltre quarant’anni l’occupazione è cresciuta o diminuita più volte, non per questo benedetto articolo che non è mai cambiato ma secondo l’andamento del ciclo economico e secondo le leggi sul mercato del lavoro approvate nel frattempo. È più convincente trovare spiegazioni della precarietà giovanile nella proliferazione di forme di lavoro atipiche (pacchetto Treu e legge 30). In realtà, alle aziende, queste forme precarie convengono anche perché risparmiano sul costo del lavoro e sono un serbatoio di flessibilità cui attingere in funzione del ciclo economico.
Nè va sottovalutato l’impatto che avrà sulla condizione giovanile l’innalzamento dell’età per accedere alla pensione. Già nel 2011, per il solo spostamento delle finestre di uscita, le nuove pensioni sono diminuite del 18,5%. Immaginiamoci cosà accadrà quando si dovrà lavorare fino a 67 anni e forse oltre! E – causa delle cause – la precarietà aumenterà sicuramente, e anche i disoccupati, se dovesse continuare la politica pesantemente recessiva del governo Monti.

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