Il reddito di cento poveri vale quello
di ciascuno dei 38 mila italiani più ricchi. E ci vuole la ricchezza di
trecentomila poveri – persone che rientrano nel 10% degli italiani con
meno risorse – per uguagliare il patrimonio di uno dei dieci italiani
più ricchi.
Nel 2010 la ricchezza netta totale degli italiani era
stimata in 9.500 miliardi di euro, ed è cresciuta moltissimo: oggi (a
prezzi costanti) è sette volte e mezza in più del 1965; il tasso di
crescita è stato del 4,7% l'anno, un record a confronto con il ristagno
del reddito complessivo.
Divisa per il numero di italiani,
farebbe una ricchezza del valore di 143 mila euro a testa. Quasi due
terzi della ricchezza sono beni reali (come gli immobili), il resto sono
attività finanziarie, mentre i debiti rappresentano il 9% delle
attività complessive. Fino al 1985 la ricchezza netta italiana non era
molto superiore al Pil: la crescita dei redditi andava di pari passo con
quella della ricchezza. Da allora, il gonfiarsi di attività finanziarie
e immobiliari hanno portato la ricchezza italiana a raggiungere un
valore di 5,7 volte il Pil nel 2009 (4,5 volte se sottraiamo il debito
pubblico); tra 1985 e oggi questo rapporto è raddoppiato.
Le disuguaglianze qui sono molto forti.
Il 10% delle famiglie più ricche possiede quasi il 45% della ricchezza
totale, mentre riceve il 27% del reddito. Il 50% delle famiglie più
povere dispone di appena il 10% della ricchezza totale. All'estremo
vertice della piramide, i dieci individui più ricchi posseggono una
quantità di ricchezza pari a quella dei tre milioni di italiani più
poveri. In media, la ricchezza di uno di questi italiani che guidano la
classifica dei "super-stra-ricchi", vale quella di trecentomila italiani
poveri. Un dato da paese feudale.
A quali gruppi sociali va la ricchezza
italiana? Se poniamo pari a 100 la ricchezza familiare netta media del
paese, vediamo che il gruppo professionale dei dirigenti presenta un
valore medio pari a 246 (in crescita negli ultimi dieci anni), i
professionisti sono a 203 (in aumento dopo il 2000), imprenditori e
autonomi hanno valori pari a 153 (in calo). Il declino dei ceti medi si
vede con la posizione degli impiegati, che hanno ora livelli di
ricchezza inferiori alla media, pari a 95, mentre nel 1993 i loro
patrimoni erano pari al 106% della media nazionale. I veri "perdenti"
sono gli operai, che nel 1987 avevano proprietà pari al 62% della media
degli italiani, e ora dispongono solo del 44%. Che l'Italia sia sempre
meno "un paese per giovani" si vede anche dalla distribuzione per età; i
"perdenti" rispetto al 1987 sono in tutte le fasce di età fino ai 54
anni, tutte con valori medi della ricchezza inferiori alla media
nazionale. Per i giovani fino a 34 anni l'impoverimento è nettissimo: si
passa da valori pari all'83% della media nazionale nel 1987 al 62% nel
2008.
Se ci concentriamo sui patrimoni
finanziari, nella media degli anni 2000-2008 la ricchezza finanziaria
netta delle famiglie italiane è pari a 1,6 volte il Pil, più alta di
tutti i maggiori paesi europei, Gran Bretagna compresa; Francia,
Germania e Olanda hanno valori intorno a 1,2 volte il Pil. Le dimensioni
di questa "potenza finanziaria" delle famiglie italiane, relativa agli
altri paesi europei, sono sorprendenti. I flussi di risparmi si sono
notevolmente ridotti in Italia, ma negli altri paesi erano da tempo
inferiori. Che cosa ha tenuto in alto i livelli di ricchezza finanziaria
nel nostro paese? La domanda giusta è "che cosa non li ha trascinati in
basso?". E la risposta è il debito privato.
Nel nostro paese, di fronte alla caduta
dei redditi reali di nove su dieci degli italiani, i consumi sono stati
sostenuti prevalentemente da una riduzione dei risparmi; il ricorso al
debito privato è salito, ma resta molto distante dalla situazione degli
altri paesi europei. In rapporto alla ricchezza finanziaria delle
famiglie, il debito delle famiglie è passato dall'11% del 2000 al 16%
del 2008. Negli stessi anni la Francia passava dal 28 al 30%, la Gran
Bretagna dal 22 al 40%, la Spagna dal 30 al 50%. In controtendenza,
ancora una volta, solo la Germania, che ha visto il debito ridursi dal
42 al 32% della ricchezza. Ecco una notizia importante per l'Italia: la
minor diffusione della finanza nella vita delle famiglie ha ridotto la
fragilità dell'intero paese, e limitato gli effetti negativi delle
oscillazioni di Borsa; la ricchezza delle famiglie resta molto grande, e
molto superiore – relativamente alle dimensioni dell'economia – a
quella dei maggiori paesi europei.
Questo ha due implicazioni. La prima è
che la fragilità italiana legata al debito pubblico viene capovolta se
consideriamo il totale del debito, pubblico e privato. In rapporto al
Pil la somma del debito pubblico e privato italiano resta di otto punti
percentuali sotto il valore mediano dei paesi dell'euro. L'alto debito
pubblico è più che compensato dal fatto che il debito di famiglie e
imprese italiane è di oltre 30 punti percentuali al di sotto della
mediana europea. Tra i paesi "virtuosi" in termini di debito totale,
meglio dell'Italia fa soltanto la Germania .
La seconda implicazione è che è qui –
nella ricchezza immobiliare, ma ancora di più in quella finanziaria –
che si sono accumulati (e non sono stati dissipati dalla crisi) i
profitti e le rendite. Il declino italiano ha fatto crescere poco la
torta dei redditi, calare la fetta dei salari, reso più poveri i poveri
di reddito che, come abbiamo visto, sono addirittura poverissimi in
termini di ricchezza posseduta. Sul fronte opposto, manager,
imprenditori, professionisti, lavoratori autonomi hanno ottenuto grandi
profitti, senza confronti con gli altri paesi europei, e hanno visto
crescere le loro ricchezze. È da questa grande ricchezza italiana –
immobiliare, ma più ancora finanziaria – estremamente concentrata nelle
mani dei più ricchi, che si possono trovare le risorse, attraverso
politiche economiche appropriate, per finanziare la ripresa dopo la
crisi, una "via d'uscita" dal declino e una "grande redistribuzione" che
migliori le condizioni di vita e la giustizia sociale del paese.(...)
Queste disuguaglianze estreme, senza
precedenti, non sono spuntate da sole. Vent'anni fa erano più contenute
perché la politica le limitava. Su buona parte dei loro redditi, ciascun
"super-stra-ricco" doveva pagare vent'anni fa un'aliquota fiscale del
72%, come in quasi tutto il resto d'Europa. Oggi paga il 43%: poco più
di chi ha un reddito dieci volte inferiore. Fino a dieci anni fa
l'imposta di successione assicurava un minimo di contenimento nella
concentrazione della ricchezza: è stata prima ridotta e poi abolita, di
comune accordo, dai governi di centro-sinistra e di destra.
Si chiude qui la parabola di trent'anni
di liberismo. È sorto come un'ideologia fondata sulla libertà di
cambiare, sull'esplosione della finanza, delle nuove tecnologie e della
globalizzazione, delle opportunità d'impresa contrapposte ai vincoli
della politica e della società. Ora tramonta tra crisi e depressione,
impoverimento e austerità, e prende la forma di un ancien régime di
privilegiati, contornati da un populismo reazionario. Purtroppo questo
"tramonto" del liberismo non coincide necessariamente con la fine della
sua egemonia: potremmo avere una prolungata agonia che lacera l'Europa
proprio come avvenne negli anni venti e trenta del novecento.
Un'alternativa, per l'Europa e l'Italia, è necessaria e urgente: capace
di unire i nove su dieci in un blocco sociale diverso, capace di
costruire una nuova egemonia sulla politica e l'economia.
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