«Diaz»
è un pugno nello stomaco. Non è un film di denuncia perché la
repressione di Genova è stata ampiamente vivisezionata da inchieste
giornalistiche e giudiziarie. Non svela nulla di nuovo perché da
appurare, undici anni dopo, rimangono solo le reali ragioni che spinsero
il Potere (quello globale con le sue propaggini berlusconiane), a
decidere di stroncare con la forza un movimento che profeticamente
anticipava la crisi economica globale.
«Diaz» è solo un colpo durissimo, insopportabile come fu quell’operazione di polizia scattata alle 22,45 del 21 luglio del 2001 nel quartier generale del movimento anti-G8, a suggello di due giorni di violenze culminate nell’uccisione di Carlo Giuliani. Ma la piazza, gli scontri e la caccia all’uomo nelle strade non sono il cuore della storia. Quello che il regista Daniele Vicari fa vedere è ciò che finora avevamo solo immaginato leggendo le testimonianze dei protagonisti e i resoconti giudiziari. A pensarci bene, di quello che è avvenuto nelle strade di Genova abbiamo visto tutto grazie soprattutto alle migliaia di reporter, fotografi e videoattivisti in strada, anche dell’uccisione di Carlo Giuliani abbiamo più di una sequenza nonostante le immagini non siano riuscite a rendere giustizia di quella morte. Alla storia per immagini delle giornate del G8 mancava un tassello: quello relativo a quanto avvenne all’interno della scuola Diaz e della caserma di Bolzaneto, gli unici episodi che il movimento più mediatico della storia non ha potuto filmare.
Ora che il puzzle è ricostruito ci appare di intollerabile durata la sospensione del diritto cominciata alle 22,45 di quel giorno di luglio e finita quattro giorni dopo. Quattro giorni in cui decine di familiari andavano alla ricerca di notizie sui figli scomparsi, che nel frattempo si trovavano sottoposti a ogni sorta di vessazione. È un pugno nello stomaco la lunga sequenza di pestaggi all’interno della scuola, suscitano rabbia e indignazione le umiliazioni cui viene sottoposta una ragazza tedesca, ma la violenza che il film ci restituisce con crudo realismo è tutto sommato inferiore ai fatti.
Il senso di «Diaz» è tutto qui, nel far capire al mondo intero che il dormitorio dei no global e soprattutto la caserma di Bolzaneto sono stati il nostro Garage Olimpo. Non appaia esagerato il paragone con il carcere clandestino dei torturatori della dittatura argentina, ma le analogie, fatte le dovute proporzioni, appaiono davvero tante: l’esercizio brutale e premeditato della forza nei confronti di un “nemico interno” e non esterno, la creazione di un luogo in cui le regole del diritto erano sospese, il ricorso sistematico e gratuito alla tortura. «Diaz» non vuole svelare retroscena e non è un documentario, i fatti raccontati sono tutti realmente accaduti ma ai protagonisti sono stati cambiati i connotati, le responsabilità politiche rimangono confinate alla magistrale conferenza stampa di Berlusconi, la mattina del 22 luglio, dove l’allora premier dà una versione dei fatti assolutamente incredibile e in linea con quella della polizia.
Da allora un paese del democratico Occidente non è riuscito a rendere punibile la tortura e nemmeno a dotarsi di semplici anticorpi come la possibilità di riconoscere gli agenti attraverso un numero identificativo. I responsabili di quell’azione, che non è esagerato definire fascista, hanno nomi e cognomi e sono tutti ancora al loro posto, perfino promossi a nuovi prestigiosi incarichi. Sul ruolo dei politici, a cominciare dalla misteriosa presenza di Gianfranco Fini nella sala operativa della Questura di Genova, è calato un velo di silenzio, come da italica tradizione.
«Diaz» è solo un colpo durissimo, insopportabile come fu quell’operazione di polizia scattata alle 22,45 del 21 luglio del 2001 nel quartier generale del movimento anti-G8, a suggello di due giorni di violenze culminate nell’uccisione di Carlo Giuliani. Ma la piazza, gli scontri e la caccia all’uomo nelle strade non sono il cuore della storia. Quello che il regista Daniele Vicari fa vedere è ciò che finora avevamo solo immaginato leggendo le testimonianze dei protagonisti e i resoconti giudiziari. A pensarci bene, di quello che è avvenuto nelle strade di Genova abbiamo visto tutto grazie soprattutto alle migliaia di reporter, fotografi e videoattivisti in strada, anche dell’uccisione di Carlo Giuliani abbiamo più di una sequenza nonostante le immagini non siano riuscite a rendere giustizia di quella morte. Alla storia per immagini delle giornate del G8 mancava un tassello: quello relativo a quanto avvenne all’interno della scuola Diaz e della caserma di Bolzaneto, gli unici episodi che il movimento più mediatico della storia non ha potuto filmare.
Ora che il puzzle è ricostruito ci appare di intollerabile durata la sospensione del diritto cominciata alle 22,45 di quel giorno di luglio e finita quattro giorni dopo. Quattro giorni in cui decine di familiari andavano alla ricerca di notizie sui figli scomparsi, che nel frattempo si trovavano sottoposti a ogni sorta di vessazione. È un pugno nello stomaco la lunga sequenza di pestaggi all’interno della scuola, suscitano rabbia e indignazione le umiliazioni cui viene sottoposta una ragazza tedesca, ma la violenza che il film ci restituisce con crudo realismo è tutto sommato inferiore ai fatti.
Il senso di «Diaz» è tutto qui, nel far capire al mondo intero che il dormitorio dei no global e soprattutto la caserma di Bolzaneto sono stati il nostro Garage Olimpo. Non appaia esagerato il paragone con il carcere clandestino dei torturatori della dittatura argentina, ma le analogie, fatte le dovute proporzioni, appaiono davvero tante: l’esercizio brutale e premeditato della forza nei confronti di un “nemico interno” e non esterno, la creazione di un luogo in cui le regole del diritto erano sospese, il ricorso sistematico e gratuito alla tortura. «Diaz» non vuole svelare retroscena e non è un documentario, i fatti raccontati sono tutti realmente accaduti ma ai protagonisti sono stati cambiati i connotati, le responsabilità politiche rimangono confinate alla magistrale conferenza stampa di Berlusconi, la mattina del 22 luglio, dove l’allora premier dà una versione dei fatti assolutamente incredibile e in linea con quella della polizia.
Da allora un paese del democratico Occidente non è riuscito a rendere punibile la tortura e nemmeno a dotarsi di semplici anticorpi come la possibilità di riconoscere gli agenti attraverso un numero identificativo. I responsabili di quell’azione, che non è esagerato definire fascista, hanno nomi e cognomi e sono tutti ancora al loro posto, perfino promossi a nuovi prestigiosi incarichi. Sul ruolo dei politici, a cominciare dalla misteriosa presenza di Gianfranco Fini nella sala operativa della Questura di Genova, è calato un velo di silenzio, come da italica tradizione.
Angelo Mastrandrea - il manifesto
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