Altro che società dell'informazione, siamo nel pieno della "Età dell'ignoranza".
E ci siamo arrivati quasi senza accorgercene. Un libro di Fabrizio Tonello contro l'ottimismo tecnologico e altre scorciatoie che possono trarre in inganno. Un'anticipazione
Non si sente parlare che di “società dell’informazione” ma siamo entrati senza accorgercene nell’Età dell’Ignoranza.
Nostra, di tutti. Si scrivono intere biblioteche sul valore di internet per la crescita culturale e la conoscenza diffusa; nelle scuole entrano i portatili e gli iPad; i nuovi telefoni cellulari ci permettono di scaricare musica, parole o immagini ovunque; possiamo restare in contatto con gli amici 24 ore su 24, ascoltare la radio italiana anche se siamo in Australia, leggere qualsiasi giornale anche stando a capo Nord, dove saremo arrivati tranquillamente in moto grazie a Google Maps; possiamo studiare sul nostro computer rari incunaboli fino a poco tempo fa disponibili solo in antiche biblioteche e oggi digitalizzati. Internet , nel giro di pochissimi anni, ha reso possibili tutte queste cose, e molte altre ancora. Purtroppo, l’ingenuo ottimismo dei cantori della modernità tende a ignorare molti problemi che ci stanno di fronte.
Prima di tutto, guardiamo al fossato che si sta approfondendo tra chi ha accesso a internet e chi non ce l’ha. Nel dicembre 2011, i giornali italiani hanno commentato con soddisfazione che il traguardo del 50% della popolazione che frequenta la Rete era stato raggiunto; in un giorno medio sono 12 milioni gli italiani che usano la Rete. Cifre positive? C’è da dubitarne: siamo indietro rispetto a tutti i partner europei (l’accesso mediante banda larga ha un tasso di penetrazione del 49% rispetto alla media europea del 61%)ed è facile capire che, se si escludono dal calcolo gli studenti e chi deve usare un computer per lavoro ben pochi italiani usano la Rete , non fosse che per mandare una mail ai parenti lontani o un messaggio Facebook agli amici più intimi. Una maggioranza dei nostri concittadini è ancora indifferente, o impossibilitata per varie ragioni, a usare questa risorsa: “chi ha bassi livelli di scolarità, meno della licenza media, sembra quasi escluso da questi usi [del computer]”.
Guardiamo anche ai dati americani, che rivelano una sostanziale stagnazione nell’uso della Rete: gli utilizzatori di internet avevano toccato il picco del 79% degli adulti già nell’aprile 2009, per poi calare al 74% otto mesi dopo, risalire al 79% nel maggio 2010 e riscendere al 74% in novembre dello stesso anno. Nel maggio 2011 erano a quota 77%. Questo andamento significa che, al di là delle oscillazioni statistiche e delle variazioni stagionali, si sta consolidando una divisione della società americana, che vede circa 4 adulti su 5 come utenti della Rete, senza progredire ulteriormente. Ma il 20% degli adulti sono più di 50 milioni di persone, cifra che non casualmente è assai vicina a quella dei cittadini che vivono in povertà. Anche se le due aree non coincidono perfettamente, è ovvio che la grande maggioranza dei poveri non usa internet perché non può permetterselo, non sa come usarlo, ha difficoltà sociali e cognitive per sfruttare la Rete .
In secondo luogo, sappiamo che avere a disposizione miliardi di informazioni non equivale a comprenderle, né a saperle usare correttamente: al contrario, il “rumore di fondo” può diventare un ostacolo all’uso dell’intelligenza critica, la “fondamentale capacità dell'uomo di comprendere al tempo stesso in che mondo si trova a vivere ed a partire da quali condizioni la rivolta contro questo mondo diventa una necessità morale”. Fino ad oggi la Terra non è stata guarita dalle sue povertà, violenze, disuguaglianze, problemi alimentari e ambientali grazie a internet: l’immensa banca dati che oggi abbiamo a portata di mano non potrà mai sostituire l’attività critica della Ragione e ancor meno l’azione collettiva.
Il dibattito di questi anni su internet è stato privo di spessore storico, della capacità di chiedersi se altre invenzioni moderne non fossero state caricate di aspettative del tutto sproporzionate. Anche a cavallo del 1900, per esempio, un redattore di Scientific American definiva l’epoca in cui stava vivendo come un momento “unico” nella storia dell’umanità,
“una gigantesca onda di marea di ingegnosità e capacità umana, così meravigliosa nella sua grandezza, così complessa nella sua diversità, così profonda nel suo pensiero, così fruttuosa nella sua ricchezza, così benefica nei suoi risultati che la mente fatica e stenta nello sforzo di aprirsi a una completa comprensione del fenomeno.”
Negli anni Venti, molti erano convinti che la radio avrebbe portato con sé cultura, fine dell’isolamento delle campagne, informazione per tutti e in ogni momento: “Si pensi al valore che potrebbe avere la radio specie per gli abitanti di piccoli villaggi che non possono usufruire neanche di un cinema (…) il sistema radiofonico deve venire esteso rapidamente, infatti esso contribuirà sensibilmente all’estendersi della cultura generale del popolo”. Essa era vista un po’ come internet oggi, come una tecnologia capace di eliminare le barriere che impedivano ai cittadini un accesso diretto alla politica.
Ci si aspettava che l’aviazione avrebbe portato la parità fra uomo e donna e ampliato la democrazia eliminando “le discriminazioni e i mali che il nostro sistema capitalistico di distribuzione ci ha inflitto”, mentre il premio Nobel Wilhelm Ostwald scriveva nel settimanale radicale The Masses che l’aereo avrebbe fatto scomparire le frontiere e “apportato la fratellanza umana”.
Negli anni Quaranta, l’elettrificazione delle campagne permessa dalla costruzione di grandi dighe e l’uso dei fertilizzanti chimici rappresentavano, per i collaboratori di Roosevelt, la “democrazia che avanza”.
Negli stessi anni, la catena di montaggio degli stabilimenti di Detroit suscitava queste riflessioni in un visitatore tedesco: “Nessuna sinfonia, nessuna Eroica è paragonabile come profondità, contenuto e potere alla musica che ci minacciava e ci colpiva mentre percorrevamo le officine Ford, passanti travolti dall’audace espressione dello spirito umano”.
A sua volta, la televisione fu presentata alla fiera di New York nel febbraio 1939 come “una forza vitale per l’educazione e l’intrattenimento”, un “miracolo” che avrebbe avuto “una magnifica missione di pace e interdipendenza tra le nazioni”.
Nel 1978, l’esperienza di oltre trent’anni di televisione commerciale non avrebbe impedito a Daniel Boorstin di celebrarla per il suo potere di ”dissolvere gli eserciti, licenziare i presidenti, creare un mondo democratico interamente nuovo”.
Questo atteggiamento di ingenuo determinismo tecnologico è particolarmente visibile oggi nelle aspettative create da Wikipedia e, più recentemente, da Facebook, Twitter e altre piattaforme simili. Da quando le “tecnologie nomadi”, il laptop, l’iPad, i cellulari di ultima generazione si sono diffusi con grande velocità in tutti i paesi industrializzati toccando l’organizzazione della vita quotidiana e le forme di relazione sociale, la Rete è diventata oggetto di un culto quasi religioso negli uomini (Steve Jobs, Bill Gates), nelle tecnologie (motori di ricerca, telefonini), nelle aspettative (cultura a disposizione di tutti, economia dell’abbondanza) nell’impatto politico (Twitter e Facebook come “forze motrici” della primavera araba).
Purtroppo, Internet non è la bacchetta magica della democrazia. Martha Nussbaum ha giustamente scritto: “Non mi riferisco alla crisi economica mondiale che è iniziata nel 2008. (...) Mi riferisco invece a una crisi che passa inosservata, che lavora in silenzio, come un cancro; una crisi destinata ad essere, in prospettiva, ben più dannosa per il futuro della democrazia: la crisi mondiale dell’istruzione”.
Chi ha studiato, e studiato, e studiato ancora, può usare le sue risorse come la lampada di Aladino: chiedete (a Google) e i vostri desideri saranno realizzati (almeno per chi ha una carta di credito valida). Chi usa internet per mettere le foto delle vacanze su Facebook non diventerà per questo un cittadino informato e responsabile. Nessuna connessione a banda larga, nessun iPad ci protegge dall’aumento vertiginoso della complessità della vita quotidiana, dalla mancanza di punti di riferimento che fino a ieri davamo per scontati. La nostra percezione del mondo si affida sempre più ai mass media e questo ci rende confusi, incerti, angosciati, una condizione assai pericolosa per la democrazia. Di fronte a queste tendenze negative sta, si dice, la trasparenza della Rete e la capacità di usarla tipica delle nuove generazioni. Oggi mentire, per i politici, è assai più difficile perché sul Web non è difficile trovare le dichiarazioni di ieri, le immagini delle gaffe, i documenti di governi e organizzazioni internazionali.
I capitoli che seguono cercheranno quindi di esplorare questa contraddizione: un mondo di ignoranti in un’era dove la conoscenza è a portata di mano. Un mondo di persone disinformate in un’era di comunicazioni istantanee. L’Età della (nostra) ignoranza è una situazione in cui un intreccio di tecnologie, pratiche sociali e habitus prevalenti mette in pericolo il patrimonio di saperi del mondo civile e le basi sociali della democrazia. Proporremo quindi di indicare come “ignorante” colui il quale manchi delle risorse etico-cognitive necessarie per confrontarsi con il mondo in cui viviamo.
Internet certo non libererà l’Italia da chi parcheggia in seconda fila, getta la spazzatura in strada o urla al telefonino in treno. Ignoranza, oggi, significa prima di tutto maleducazione, arroganza, prepotenza simili a quelle dei tifosi della curva Sud. Sembra che nel nostro paese quasi nessuno ragioni più con una logica che fino a ieri sembrava elementare: talvolta ci si chiede cosa sia successo nella testa delle persone, visto che il ragionamento logico non funziona, non fa presa, non convince.
Per fortuna, ci sono controtendenze in atto, mobilitazioni di massa che fanno un uso creativo delle nuove tecnologie, movimenti che si oppongono alla commercializzazione della Rete e ai suoi usi per rafforzare la sorveglianza e la repressione.
E ci siamo arrivati quasi senza accorgercene. Un libro di Fabrizio Tonello contro l'ottimismo tecnologico e altre scorciatoie che possono trarre in inganno. Un'anticipazione
Nostra, di tutti. Si scrivono intere biblioteche sul valore di internet per la crescita culturale e la conoscenza diffusa; nelle scuole entrano i portatili e gli iPad; i nuovi telefoni cellulari ci permettono di scaricare musica, parole o immagini ovunque; possiamo restare in contatto con gli amici 24 ore su 24, ascoltare la radio italiana anche se siamo in Australia, leggere qualsiasi giornale anche stando a capo Nord, dove saremo arrivati tranquillamente in moto grazie a Google Maps; possiamo studiare sul nostro computer rari incunaboli fino a poco tempo fa disponibili solo in antiche biblioteche e oggi digitalizzati. Internet , nel giro di pochissimi anni, ha reso possibili tutte queste cose, e molte altre ancora. Purtroppo, l’ingenuo ottimismo dei cantori della modernità tende a ignorare molti problemi che ci stanno di fronte.
Prima di tutto, guardiamo al fossato che si sta approfondendo tra chi ha accesso a internet e chi non ce l’ha. Nel dicembre 2011, i giornali italiani hanno commentato con soddisfazione che il traguardo del 50% della popolazione che frequenta la Rete era stato raggiunto; in un giorno medio sono 12 milioni gli italiani che usano la Rete. Cifre positive? C’è da dubitarne: siamo indietro rispetto a tutti i partner europei (l’accesso mediante banda larga ha un tasso di penetrazione del 49% rispetto alla media europea del 61%)ed è facile capire che, se si escludono dal calcolo gli studenti e chi deve usare un computer per lavoro ben pochi italiani usano la Rete , non fosse che per mandare una mail ai parenti lontani o un messaggio Facebook agli amici più intimi. Una maggioranza dei nostri concittadini è ancora indifferente, o impossibilitata per varie ragioni, a usare questa risorsa: “chi ha bassi livelli di scolarità, meno della licenza media, sembra quasi escluso da questi usi [del computer]”.
Guardiamo anche ai dati americani, che rivelano una sostanziale stagnazione nell’uso della Rete: gli utilizzatori di internet avevano toccato il picco del 79% degli adulti già nell’aprile 2009, per poi calare al 74% otto mesi dopo, risalire al 79% nel maggio 2010 e riscendere al 74% in novembre dello stesso anno. Nel maggio 2011 erano a quota 77%. Questo andamento significa che, al di là delle oscillazioni statistiche e delle variazioni stagionali, si sta consolidando una divisione della società americana, che vede circa 4 adulti su 5 come utenti della Rete, senza progredire ulteriormente. Ma il 20% degli adulti sono più di 50 milioni di persone, cifra che non casualmente è assai vicina a quella dei cittadini che vivono in povertà. Anche se le due aree non coincidono perfettamente, è ovvio che la grande maggioranza dei poveri non usa internet perché non può permetterselo, non sa come usarlo, ha difficoltà sociali e cognitive per sfruttare la Rete .
In secondo luogo, sappiamo che avere a disposizione miliardi di informazioni non equivale a comprenderle, né a saperle usare correttamente: al contrario, il “rumore di fondo” può diventare un ostacolo all’uso dell’intelligenza critica, la “fondamentale capacità dell'uomo di comprendere al tempo stesso in che mondo si trova a vivere ed a partire da quali condizioni la rivolta contro questo mondo diventa una necessità morale”. Fino ad oggi la Terra non è stata guarita dalle sue povertà, violenze, disuguaglianze, problemi alimentari e ambientali grazie a internet: l’immensa banca dati che oggi abbiamo a portata di mano non potrà mai sostituire l’attività critica della Ragione e ancor meno l’azione collettiva.
Il dibattito di questi anni su internet è stato privo di spessore storico, della capacità di chiedersi se altre invenzioni moderne non fossero state caricate di aspettative del tutto sproporzionate. Anche a cavallo del 1900, per esempio, un redattore di Scientific American definiva l’epoca in cui stava vivendo come un momento “unico” nella storia dell’umanità,
“una gigantesca onda di marea di ingegnosità e capacità umana, così meravigliosa nella sua grandezza, così complessa nella sua diversità, così profonda nel suo pensiero, così fruttuosa nella sua ricchezza, così benefica nei suoi risultati che la mente fatica e stenta nello sforzo di aprirsi a una completa comprensione del fenomeno.”
Negli anni Venti, molti erano convinti che la radio avrebbe portato con sé cultura, fine dell’isolamento delle campagne, informazione per tutti e in ogni momento: “Si pensi al valore che potrebbe avere la radio specie per gli abitanti di piccoli villaggi che non possono usufruire neanche di un cinema (…) il sistema radiofonico deve venire esteso rapidamente, infatti esso contribuirà sensibilmente all’estendersi della cultura generale del popolo”. Essa era vista un po’ come internet oggi, come una tecnologia capace di eliminare le barriere che impedivano ai cittadini un accesso diretto alla politica.
Ci si aspettava che l’aviazione avrebbe portato la parità fra uomo e donna e ampliato la democrazia eliminando “le discriminazioni e i mali che il nostro sistema capitalistico di distribuzione ci ha inflitto”, mentre il premio Nobel Wilhelm Ostwald scriveva nel settimanale radicale The Masses che l’aereo avrebbe fatto scomparire le frontiere e “apportato la fratellanza umana”.
Negli anni Quaranta, l’elettrificazione delle campagne permessa dalla costruzione di grandi dighe e l’uso dei fertilizzanti chimici rappresentavano, per i collaboratori di Roosevelt, la “democrazia che avanza”.
Negli stessi anni, la catena di montaggio degli stabilimenti di Detroit suscitava queste riflessioni in un visitatore tedesco: “Nessuna sinfonia, nessuna Eroica è paragonabile come profondità, contenuto e potere alla musica che ci minacciava e ci colpiva mentre percorrevamo le officine Ford, passanti travolti dall’audace espressione dello spirito umano”.
A sua volta, la televisione fu presentata alla fiera di New York nel febbraio 1939 come “una forza vitale per l’educazione e l’intrattenimento”, un “miracolo” che avrebbe avuto “una magnifica missione di pace e interdipendenza tra le nazioni”.
Nel 1978, l’esperienza di oltre trent’anni di televisione commerciale non avrebbe impedito a Daniel Boorstin di celebrarla per il suo potere di ”dissolvere gli eserciti, licenziare i presidenti, creare un mondo democratico interamente nuovo”.
Questo atteggiamento di ingenuo determinismo tecnologico è particolarmente visibile oggi nelle aspettative create da Wikipedia e, più recentemente, da Facebook, Twitter e altre piattaforme simili. Da quando le “tecnologie nomadi”, il laptop, l’iPad, i cellulari di ultima generazione si sono diffusi con grande velocità in tutti i paesi industrializzati toccando l’organizzazione della vita quotidiana e le forme di relazione sociale, la Rete è diventata oggetto di un culto quasi religioso negli uomini (Steve Jobs, Bill Gates), nelle tecnologie (motori di ricerca, telefonini), nelle aspettative (cultura a disposizione di tutti, economia dell’abbondanza) nell’impatto politico (Twitter e Facebook come “forze motrici” della primavera araba).
Purtroppo, Internet non è la bacchetta magica della democrazia. Martha Nussbaum ha giustamente scritto: “Non mi riferisco alla crisi economica mondiale che è iniziata nel 2008. (...) Mi riferisco invece a una crisi che passa inosservata, che lavora in silenzio, come un cancro; una crisi destinata ad essere, in prospettiva, ben più dannosa per il futuro della democrazia: la crisi mondiale dell’istruzione”.
Chi ha studiato, e studiato, e studiato ancora, può usare le sue risorse come la lampada di Aladino: chiedete (a Google) e i vostri desideri saranno realizzati (almeno per chi ha una carta di credito valida). Chi usa internet per mettere le foto delle vacanze su Facebook non diventerà per questo un cittadino informato e responsabile. Nessuna connessione a banda larga, nessun iPad ci protegge dall’aumento vertiginoso della complessità della vita quotidiana, dalla mancanza di punti di riferimento che fino a ieri davamo per scontati. La nostra percezione del mondo si affida sempre più ai mass media e questo ci rende confusi, incerti, angosciati, una condizione assai pericolosa per la democrazia. Di fronte a queste tendenze negative sta, si dice, la trasparenza della Rete e la capacità di usarla tipica delle nuove generazioni. Oggi mentire, per i politici, è assai più difficile perché sul Web non è difficile trovare le dichiarazioni di ieri, le immagini delle gaffe, i documenti di governi e organizzazioni internazionali.
I capitoli che seguono cercheranno quindi di esplorare questa contraddizione: un mondo di ignoranti in un’era dove la conoscenza è a portata di mano. Un mondo di persone disinformate in un’era di comunicazioni istantanee. L’Età della (nostra) ignoranza è una situazione in cui un intreccio di tecnologie, pratiche sociali e habitus prevalenti mette in pericolo il patrimonio di saperi del mondo civile e le basi sociali della democrazia. Proporremo quindi di indicare come “ignorante” colui il quale manchi delle risorse etico-cognitive necessarie per confrontarsi con il mondo in cui viviamo.
Internet certo non libererà l’Italia da chi parcheggia in seconda fila, getta la spazzatura in strada o urla al telefonino in treno. Ignoranza, oggi, significa prima di tutto maleducazione, arroganza, prepotenza simili a quelle dei tifosi della curva Sud. Sembra che nel nostro paese quasi nessuno ragioni più con una logica che fino a ieri sembrava elementare: talvolta ci si chiede cosa sia successo nella testa delle persone, visto che il ragionamento logico non funziona, non fa presa, non convince.
Per fortuna, ci sono controtendenze in atto, mobilitazioni di massa che fanno un uso creativo delle nuove tecnologie, movimenti che si oppongono alla commercializzazione della Rete e ai suoi usi per rafforzare la sorveglianza e la repressione.
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