E’ difficile comprendere le dinamiche del nostro Paese, divise tra chi
concepisce la necessità di uno sviluppo armonico del sistema produttivo,
orientato ad un mercato in evoluzione, fondato su sinergie virtuose e
sostenibili, e chi continua da anni a seguire i dettami di
un’impostazione politica ed economica fallimentare nel lungo termine, ma
molto proficua per l’elite che ne raccoglie i frutti nel breve.
Quanto costa lo sviluppo dell’economia verde in Italia? A mio parere l’ostacolo principale non risiede nel carico economico a cui il sistema Paese è sottoposto, bensì consiste nell’abbattimento degli ultimi, ma forti, baluardi di uno status quo radicato nelle menti di una vecchia classe politica e dirigenziale che, pur vaneggiando, continua ad occupare i posti di comando, soggiogando quanto di buono l’Italia possa offrire, con la scusa della tutela del bilancio pubblico.
Sono anni che i diversi governi, con minime differenze di approccio, imputano alla green economy la responsabilità di assorbire grandi risorse economiche pubbliche, a scapito della crescita e dello sviluppo del Paese. In questi giorni, i riflettori sono puntati sulle energie rinnovabili, per l’imminente pubblicazione dei decreti che definiranno i nuovi schemi incentivanti. Si tratta dell’ormai noto “Conto Energia”, strumento adottato dalla stragrande maggioranza dei Paesi industrializzati, al fine di favorire la transizione dell’impianto generativo nazionale verso tecnologie a basso tenore di carbonio.
Le recenti dichiarazioni dei ministri Clini e Passera restano perfettamente inquadrate nelle politiche dei governi precedenti, alimentando un surreale scetticismo nei confronti di un piano energetico impostato sul forte sviluppo delle fonti rinnovabili. Invece di seguire gli esempi virtuosi di altri Paesi, la cui stabilità economica è favorita da una politica di risparmio energetico e di allontanamento progressivo – o “phase-out” – dalle tecnologie tradizionali, in Italia si portano alla luce solo i costi di questi programmi, non i ricavi.
Non occorre essere esperti di finanza per comprendere l’errore nell’approccio: investire in un piano energetico fortemente rivolto allo sfruttamento di fonti gratuite è una scelta obbligata, al di là di nobili e fondamentali ragioni ambientaliste, per restare al passo con lo sviluppo tecnologico, la ricerca e il mercato europeo. E’ un settore capace di assorbire rapidamente le quote di operai, professionisti e dirigenti che, da altre aree del manifatturiero, oggi agonizzano nel limbo della cassa integrazione.
Si parla di decine di miliardi di introiti che ogni anno proverrebbero dal gettito Iva e dalle altre imposte, dal calo della dipendenza dall’estero di approvvigionamento energetico, spesso legato a prezzi oscillanti che si ripercuotono sull’intera economia nazionale. E ancora, dal risparmio progressivo nelle bonifiche, nella sanità, nella distribuzione energetica, nella valorizzazione del territorio e dalla riattivazione del connubio tra università e industria che oggi resta focalizzato a pochi ambiti, ma che potrebbe sinergicamente contribuire alla riconquista di quei primati nella scienza e nella tecnologia che hanno reso famoso il nostro Paese in passato.
Invece, i nostri “tecnici” cambiano per l’ennesima volta le carte in tavola. Il nuovo decreto rinnega quanto dichiarato da questo stesso governo sull’importanza della creazione di una filiera nazionale di settore. Basta incentivi ai moduli fotovoltaici di produzione europea, in favore di quelli cinesi e a scapito dei piccoli produttori nazionali. Basta incentivi alla rimozione dell’amianto, proprio quando la sentenza per il caso Eternit di Casale Monferrato aveva riportato al grande pubblico la pericolosità della persistenza di questo materiale nelle nostre case. Infine, il taglio ulteriore alle tariffe incentivanti, in nome del risparmio della spesa pubblica.
Dott. Clini, la invito a pubblicare i costi di gestione del sistema energetico tradizionale e delle sue oscillazioni di fornitura di petrolio e gas, che avvengono in funzione degli equilibri politici internazionali. Ci faccia sapere quanti sussidi statali reggono ancora l’estrazione, il trasporto, la raffinazione e la vendita di prodotti petroliferi. Ci racconti di quanto costa allo Stato una centrale a carbone, tra danni all’ambiente e l’aumento delle patologie respiratorie e oncologiche nelle aree limitrofe agli impianti. Andiamo a fare i conti a Taranto o a Mestre, di quanto costi un distretto industriale non sostenibile. Facciamo la somma di quanto bestiame, di quanto latte e di quanti pascoli sono andati distrutti o trattati come rifiuto speciale per giustificare inceneritori o centrali a olio combustibile.
La sfido ad avere il coraggio di mostrare al pubblico il vero costo del nostro impianto generativo, delle multe che ci stiamo approntando a pagare per il mancato rispetto del protocollo di Kyoto e del ritardo di innovazione di cui soffre il nostro Paese. Un ministro che si rispetti, dovrebbe mostrare indipendenza e obiettività davanti a scelte che influenzano la vita di tutti.
Quanto costa lo sviluppo dell’economia verde in Italia? A mio parere l’ostacolo principale non risiede nel carico economico a cui il sistema Paese è sottoposto, bensì consiste nell’abbattimento degli ultimi, ma forti, baluardi di uno status quo radicato nelle menti di una vecchia classe politica e dirigenziale che, pur vaneggiando, continua ad occupare i posti di comando, soggiogando quanto di buono l’Italia possa offrire, con la scusa della tutela del bilancio pubblico.
Sono anni che i diversi governi, con minime differenze di approccio, imputano alla green economy la responsabilità di assorbire grandi risorse economiche pubbliche, a scapito della crescita e dello sviluppo del Paese. In questi giorni, i riflettori sono puntati sulle energie rinnovabili, per l’imminente pubblicazione dei decreti che definiranno i nuovi schemi incentivanti. Si tratta dell’ormai noto “Conto Energia”, strumento adottato dalla stragrande maggioranza dei Paesi industrializzati, al fine di favorire la transizione dell’impianto generativo nazionale verso tecnologie a basso tenore di carbonio.
Le recenti dichiarazioni dei ministri Clini e Passera restano perfettamente inquadrate nelle politiche dei governi precedenti, alimentando un surreale scetticismo nei confronti di un piano energetico impostato sul forte sviluppo delle fonti rinnovabili. Invece di seguire gli esempi virtuosi di altri Paesi, la cui stabilità economica è favorita da una politica di risparmio energetico e di allontanamento progressivo – o “phase-out” – dalle tecnologie tradizionali, in Italia si portano alla luce solo i costi di questi programmi, non i ricavi.
Non occorre essere esperti di finanza per comprendere l’errore nell’approccio: investire in un piano energetico fortemente rivolto allo sfruttamento di fonti gratuite è una scelta obbligata, al di là di nobili e fondamentali ragioni ambientaliste, per restare al passo con lo sviluppo tecnologico, la ricerca e il mercato europeo. E’ un settore capace di assorbire rapidamente le quote di operai, professionisti e dirigenti che, da altre aree del manifatturiero, oggi agonizzano nel limbo della cassa integrazione.
Si parla di decine di miliardi di introiti che ogni anno proverrebbero dal gettito Iva e dalle altre imposte, dal calo della dipendenza dall’estero di approvvigionamento energetico, spesso legato a prezzi oscillanti che si ripercuotono sull’intera economia nazionale. E ancora, dal risparmio progressivo nelle bonifiche, nella sanità, nella distribuzione energetica, nella valorizzazione del territorio e dalla riattivazione del connubio tra università e industria che oggi resta focalizzato a pochi ambiti, ma che potrebbe sinergicamente contribuire alla riconquista di quei primati nella scienza e nella tecnologia che hanno reso famoso il nostro Paese in passato.
Invece, i nostri “tecnici” cambiano per l’ennesima volta le carte in tavola. Il nuovo decreto rinnega quanto dichiarato da questo stesso governo sull’importanza della creazione di una filiera nazionale di settore. Basta incentivi ai moduli fotovoltaici di produzione europea, in favore di quelli cinesi e a scapito dei piccoli produttori nazionali. Basta incentivi alla rimozione dell’amianto, proprio quando la sentenza per il caso Eternit di Casale Monferrato aveva riportato al grande pubblico la pericolosità della persistenza di questo materiale nelle nostre case. Infine, il taglio ulteriore alle tariffe incentivanti, in nome del risparmio della spesa pubblica.
Dott. Clini, la invito a pubblicare i costi di gestione del sistema energetico tradizionale e delle sue oscillazioni di fornitura di petrolio e gas, che avvengono in funzione degli equilibri politici internazionali. Ci faccia sapere quanti sussidi statali reggono ancora l’estrazione, il trasporto, la raffinazione e la vendita di prodotti petroliferi. Ci racconti di quanto costa allo Stato una centrale a carbone, tra danni all’ambiente e l’aumento delle patologie respiratorie e oncologiche nelle aree limitrofe agli impianti. Andiamo a fare i conti a Taranto o a Mestre, di quanto costi un distretto industriale non sostenibile. Facciamo la somma di quanto bestiame, di quanto latte e di quanti pascoli sono andati distrutti o trattati come rifiuto speciale per giustificare inceneritori o centrali a olio combustibile.
La sfido ad avere il coraggio di mostrare al pubblico il vero costo del nostro impianto generativo, delle multe che ci stiamo approntando a pagare per il mancato rispetto del protocollo di Kyoto e del ritardo di innovazione di cui soffre il nostro Paese. Un ministro che si rispetti, dovrebbe mostrare indipendenza e obiettività davanti a scelte che influenzano la vita di tutti.
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