La questione dei
“costi della politica” è velenosa perché intricata. Molto “dialettica”,
ci verrebbe di dire, visto che ogni argomento ha un suo opposto
altrettanto vero e valido.
Per esempio. È vero che i partiti attuali sono un'orgia di
corrotti e che chi “entra in politica” - anche provenendo dalla “società
civile” come un Calearo o uno Scilipoti – lo fa per migliorare il
proprio status economico, non certo lo stato di salute del paese. Ma è
altrettanto vero che una “democrazia senza partiti” è un'immonda presa
per il culo, dove gli unici poteri che contano sono i potentati
economici, che possono legiferare direttamente senza dover mediare con
interessi diversi (se non quelli di altri potentati economici
“concorrenti” sulla stessa materia).
È vero che “far politica” costa. Una
organizzazione vive necessariamente di funzionari a tempo pieno (dal
segretario o presidente al “coordinamento esecutivo”, ai referenti
locali per territori sufficientemente popolati, ecc), sedi, segreterie,
telefoni, forniture varie (giornali, cancelleria, taxi, spedizioni,
ecc). Un'attività totalmente “improduttiva” dal punto di vista
economico, una “spesa” che va in qualche modo coperta.
Ma è altrettanto vero che soltanto chi ha
molto denaro può permettersi di mantenere un'organizzazione di certe
dimensioni, piegandola ovviamente ai propri interessi diretti.
Berlusconi è un esempio limite, ma De Benedetti con il “partito
Repubblica” o Montezemolo con la Fondazione “Italia Futura”, anche;
altri miliardari in molti paesi hanno messo in pratica spesso simili
“irruzioni in campo politico”.
In una democrazia reale, insomma, occorre
garantire una “base minima di parità” tra correnti politiche differenti
e concorrenti; nella consapevolezza che in ogni caso i “potentati
economici” interverranno comunque per rafforzare le proprie filiere di
canalizzazione del consenso.
Fin qui stiamo nell'ovvio. La soluzione
europea, come ricorda giustamente Michele Prospero su l'Unità, è stata
il finanziamento pubblico. Di entità variabile, con controlli
altrettanto variabili (dall'italiana inesistenza a ben più forzuti
esempi continentali), ma con soldi pubblici. L'esempio statunitense è
opposto, con un finanziamento privato - comunque obbligatoriamente
pubblicizzato – che consegna alle lobby il diritto di “scriversi le
leggi” attraverso i propri “eletti”. Con buona pace della democrazia,
ridotta a pura forma (le elezioni) senza più il contenuto (la
determinazione delle decisioni).
Se – come qui – l'etica politica pubblica
è ridotta a zero questo finanziamento con intenti virtuosi (stabilire
un minimo di concorrenzialità reale) si tramuta in un regalo immotivato.
E in effetti, scoprire di aver contribuito a pagare la benzina e la
macchina del Trota, il lavoro notturno della Minetti o gli appartamenti
di Lusi o Scajola dà veramente fastidio; specie quando non si sa come
arrivare alla fine del mese.
Michele Ainis, professore ed editorialista del Corriere della sera, dà la sua ricetta di apparente buon senso: “se
il cittadino paga, è il cittadino che decide. Quindi meglio la via dei
contributi volontari, alla stregua del 5 per mille. Anche perché in
passato il finanziamento pubblico ha premiato liste esoteriche come Ual,
Patt, Ppst, Fortza Paris. Dicono: ma in questo modo gli italiani ci
manderanno sul lastrico, dal momento che i partiti sono sommamente
impopolari. E allora datevi da fare per diventare più simpatici. C'è una
semplice ricetta per riuscirvi: restituendo quote di potere agli
elettori”.
Qui
il buon senso cattedratico si scontra frontalmente con la dura realtà.
Il suggerimento sarebbe valido se questi partiti – tutti - potessero
davvero “restituire quote di potere agli elettori” sul terreno politico
per eccellenza: le scelte fondamentali per il governo del paese. Ovvero
sulle politiche economiche, sociali, ambientali, ecc.
Ma
proprio su questi temi i partiti – tutti – non hanno più alcun potere
decisionale. L'eventuale “mandato condiviso” che riceverebbero dagli
elettori sarebbe praticamente inapplicabile. Il governo Monti
rappresenta esattamente l'atto di nascita di un altro modo di governare i
singoli paesi d'Europa, secondo la sintetica ricetta esplicitata nella
“lettera della Bce” dell'agosto 2011.
Risulta
dunque impossibile che questi partiti, ridotti a gusci vuoti, a puri
canalizzatori di consenso acefalo verso decisioni su cui non devono
mettere bocca, possano “diventare più simpatici” o “restituire quote di
potere”. Nessuna “alleanza elettorale”, comunque configurata, può
rovesciare questa lungamente costruita impotenza della “politica
politicante”.
Anche
questa considerazione, alla fin fine, ci ha portato alla conclusione
che abbiamo esplicitato da tempo: una politica alternativa è possibile
solo sviluppando dinamiche sociali conflittuali completamente
indipendenti dall'”arco parlamentare”.
L'editoriale di Michele Ainis sul Corriere:
Il finanziamento pubblico ai partiti
Gesti seri, non scorciatoie
Michele Ainis
Il finanziamento pubblico ai
partiti fu brevettato da una legge del 1974, dopo lo scandalo dei
contributi in nero versati alle forze di governo dall'Unione
petrolifera. Quarant'anni dopo, è diventato esso stesso uno scandalo.
Per due ragioni: la quantità di denaro che l'erario succhia dalle nostre
tasche per risputarlo nelle casse di ciascun partito; le modalità
allegre della spesa, all'infuori da regole e controlli. Oltre che in
spregio al comune senso del pudore, come mostra la simmetrica vicenda di
Lusi e Belsito, i due tesorieri della Margherita e della Lega. Adesso, a
quanto pare, un soprassalto di decenza sta inducendo i partiti a
metterci rimedio. Bene, anzi male: potevano anche farlo prima. Ma
affinché il rimedio non si risolva in un inganno, è necessario tamponare
entrambe le falle del sistema.
Primo: gli importi. Li ha misurati la Corte dei Conti: 2 miliardi e 253 milioni di euro, dal 1994 a oggi. Se avessimo da mantenere l'harem d'un sultano, lo pagheremmo meno caro. Anche perché di questo fiume di quattrini soltanto un quarto (579 milioni) ha coperto le spese elettorali, come viceversa prometteva il marchingegno inventato da un'altra legge nel 1999. Dunque usate le forbici, please. E risparmiateci il trucchetto di postergare in un futuro imprecisato la riforma. I politici fanno sempre così, quando c'è da prendere una decisione scomoda: per esempio il taglio ai benefit di cui godono gli ex presidenti della Camera, ma solo dal 2023. O la riforma del Senato, che i senatori accettano purché riguardi i loro nipotini (quella approvata - e bocciata poi da un referendum - nel 2005 sarebbe entrata in vigore nel 2016). No, la nuova legge deve avere efficacia retroattiva. Deve applicarsi alle forze politiche che ci sono adesso, non a quelle che verranno. Deve perciò azzerare la rata di 100 milioni che i partiti incasseranno a luglio. Azzerarla, non rinviarla. Dopotutto, qualche mese di digiuno servirà a smaltire le troppe abbuffate precedenti.
Secondo: le regole. Possono condensarsi in una sola: se il cittadino paga, è il cittadino che decide. Quindi meglio la via dei contributi volontari, alla stregua del 5 per mille. Anche perché in passato il finanziamento pubblico ha premiato liste esoteriche come Ual, Patt, Ppst, Fortza Paris. Dicono: ma in questo modo gli italiani ci manderanno sul lastrico, dal momento che i partiti sono sommamente impopolari. E allora datevi da fare per diventare più simpatici. C'è una semplice ricetta per riuscirvi: restituendo quote di potere agli elettori.
La disgrazia dei partiti dipende da un sentimento di frustrazione e d'impotenza, quello che ti monta in gola quando l'onorevole Calearo si vanta di non mettere più piede in Parlamento. Quando Scilipoti viene eletto con i voti degli antiberlusconiani, per poi trasformarsi nella più fedele sentinella di Silvio Berlusconi. O quando Rosi Mauro rifiuta di dimettersi, e tu non puoi farci nulla. Potrà venire espulsa dalla Lega, non dal Senato, di cui è pure vicepresidente. Avessimo in circolo il recall - la revoca anticipata degli eletti - come negli Usa, sarebbe tutta un'altra musica. Perché allora sì, saremmo armati d'uno strumento di controllo; e peggio per noi se non lo usiamo.
Ecco, i controlli. Dopo Tangentopoli, una riforma battezzata dal ministro Cassese nel 1993 ridusse l'ambito del controllo preventivo di legittimità, sostituendovi un controllo successivo sull'efficienza delle amministrazioni pubbliche. Dunque sull'attività, anziché sui singoli atti. Motivo: le verifiche formali non avevano impedito che la corruzione troneggiasse sulla nostra vita pubblica. Ma sta di fatto che il nuovo tipo di controlli non ha impedito Partitopoli. Significa che c'è bisogno d'inaugurare una terza stagione, quella del controllo popolare. D'altronde, in tutto il mondo le esperienze sono innumerevoli. Per esempio il blogger russo più famoso, Alexej Navalny, ha acceso un faro sugli appalti, cucendo il lavoro d'esperti volontari con le denunce dei cittadini; e il governatore del Daghestan ha dovuto rinunziare a un'auto blu da 300 mila dollari. Fantapolitica? Se è così, il Jules Verne dei partiti fu Costantino Mortati. In Assemblea costituente, nella seduta del 29 luglio 1946, s'espresse in favore d'un sistema di azioni popolari, «dando ai cittadini la consapevolezza che da essi stessi dipende la buona amministrazione e quindi la tutela dei loro interessi». Forse per volgere lo sguardo sul futuro dobbiamo rovesciarlo sul passato.
Primo: gli importi. Li ha misurati la Corte dei Conti: 2 miliardi e 253 milioni di euro, dal 1994 a oggi. Se avessimo da mantenere l'harem d'un sultano, lo pagheremmo meno caro. Anche perché di questo fiume di quattrini soltanto un quarto (579 milioni) ha coperto le spese elettorali, come viceversa prometteva il marchingegno inventato da un'altra legge nel 1999. Dunque usate le forbici, please. E risparmiateci il trucchetto di postergare in un futuro imprecisato la riforma. I politici fanno sempre così, quando c'è da prendere una decisione scomoda: per esempio il taglio ai benefit di cui godono gli ex presidenti della Camera, ma solo dal 2023. O la riforma del Senato, che i senatori accettano purché riguardi i loro nipotini (quella approvata - e bocciata poi da un referendum - nel 2005 sarebbe entrata in vigore nel 2016). No, la nuova legge deve avere efficacia retroattiva. Deve applicarsi alle forze politiche che ci sono adesso, non a quelle che verranno. Deve perciò azzerare la rata di 100 milioni che i partiti incasseranno a luglio. Azzerarla, non rinviarla. Dopotutto, qualche mese di digiuno servirà a smaltire le troppe abbuffate precedenti.
Secondo: le regole. Possono condensarsi in una sola: se il cittadino paga, è il cittadino che decide. Quindi meglio la via dei contributi volontari, alla stregua del 5 per mille. Anche perché in passato il finanziamento pubblico ha premiato liste esoteriche come Ual, Patt, Ppst, Fortza Paris. Dicono: ma in questo modo gli italiani ci manderanno sul lastrico, dal momento che i partiti sono sommamente impopolari. E allora datevi da fare per diventare più simpatici. C'è una semplice ricetta per riuscirvi: restituendo quote di potere agli elettori.
La disgrazia dei partiti dipende da un sentimento di frustrazione e d'impotenza, quello che ti monta in gola quando l'onorevole Calearo si vanta di non mettere più piede in Parlamento. Quando Scilipoti viene eletto con i voti degli antiberlusconiani, per poi trasformarsi nella più fedele sentinella di Silvio Berlusconi. O quando Rosi Mauro rifiuta di dimettersi, e tu non puoi farci nulla. Potrà venire espulsa dalla Lega, non dal Senato, di cui è pure vicepresidente. Avessimo in circolo il recall - la revoca anticipata degli eletti - come negli Usa, sarebbe tutta un'altra musica. Perché allora sì, saremmo armati d'uno strumento di controllo; e peggio per noi se non lo usiamo.
Ecco, i controlli. Dopo Tangentopoli, una riforma battezzata dal ministro Cassese nel 1993 ridusse l'ambito del controllo preventivo di legittimità, sostituendovi un controllo successivo sull'efficienza delle amministrazioni pubbliche. Dunque sull'attività, anziché sui singoli atti. Motivo: le verifiche formali non avevano impedito che la corruzione troneggiasse sulla nostra vita pubblica. Ma sta di fatto che il nuovo tipo di controlli non ha impedito Partitopoli. Significa che c'è bisogno d'inaugurare una terza stagione, quella del controllo popolare. D'altronde, in tutto il mondo le esperienze sono innumerevoli. Per esempio il blogger russo più famoso, Alexej Navalny, ha acceso un faro sugli appalti, cucendo il lavoro d'esperti volontari con le denunce dei cittadini; e il governatore del Daghestan ha dovuto rinunziare a un'auto blu da 300 mila dollari. Fantapolitica? Se è così, il Jules Verne dei partiti fu Costantino Mortati. In Assemblea costituente, nella seduta del 29 luglio 1946, s'espresse in favore d'un sistema di azioni popolari, «dando ai cittadini la consapevolezza che da essi stessi dipende la buona amministrazione e quindi la tutela dei loro interessi». Forse per volgere lo sguardo sul futuro dobbiamo rovesciarlo sul passato.
di Michele Prospero
L'obiettivo reale della furibonda
campagna contro i costi della politica lo ha esplicitato candidamente
Pierluigi Battista che, al Tg3, ha evocato una Repubblica senza partiti e
addirittura senza politica. Sono del resto molti i commentatori del
Corriere della Sera che cavalcano con spregiudicatezza la dolce ebbrezza
di una deriva populistica.
La rimozione dei partiti è invocata per
spianare la strada a una gestione del potere affidata a componenti
tecniche e imprenditoriali che operano oltre i partiti. Il sogno antico è
quello di una democrazia aziendalista capace di togliere il disturbo
dei partiti per lasciare alle forze economiche dominanti il pieno potere
di legiferare. In discussione oggi, con il finanziamento pubblico, non è
una spicciola questione monetaria, così urticante in tempi di risorse
scarse, ma il fondamento stesso della democrazia moderna, vista come una
forma storica di compromesso tra le immani potenze del mercato e le
istanze residuali di eguaglianza dei cittadini.
Palese che la disparità eccessiva delle
risorse economiche e mediatiche rende in sé distorta la competizione tra
i partiti e affida al peso del denaro una sovranità reale rispetto alla
evanescenza della singola espressione di consenso. Non esiste un voto
eguale se non si garantiscono delle condizioni tendenzialmente
equilibrate (nella disponibilità di risorse) tra gli attori. Nel
ventennio berlusconiano, una gara elettorale regolare senza il
finanziamento pubblico sarebbe stata del tutto disperata. Anche in tempi
meno eccezionali, però, il nodo della castrazione dell'impatto che ha
il possesso diseguale di beni (mediatici, economici) rimane aperto. Per
questo bisogna guardare all'Europa, l'America è troppo lontana. Negli
Stati Uniti solo chi rinuncia ai finanziamenti pubblici (che sono
previsti anche lì, ma sono molto limitati e quindi poco appetibili) può
rifarsi con i generosi soldi messi a disposizione dai voraci gruppi
privati di pressione. Dopo la sentenza del 2010, la Corte suprema non
pone più limiti alle dorate elargizioni dei ricchi che esercitano la
loro splendida libertà di annegare nell'oro il candidato di più stretta
fiducia. La corruzione diventa così legge, nel senso che i gruppi, le
lobby, gli interessi più forti determinano come vogliono il contenuto
effettivo della legge. Il processo legislativo risponde terribilmente
alla parabola del denaro, i marginali non contano proprio. Il
condizionamento economico delle decisioni in America è organico a un
sistema edificato sul continuum molto scivoloso denaro-politica. Proprio
in questo abbraccio mortale tra gli interessi privati ristretti e la
legge risiede la fondazione teorica della necessità di un finanziamento
pubblico della politica.
Dove manca un sostegno pubblico, chi
foraggia i candidati decide anche la norma giuridica e la politica è in
gran parte l'autolegislazione degli interessi economici più aggressivi.
Il tragitto europeo è per fortuna diverso. L'autonomia della politica è
preservata anche grazie all'adozione del contributo pubblico. Persino
nell'Inghilterra dagli anni Trenta vige un peculiare finanziamento che
va però solo all'opposizione di sua Maestà, ritenuta svantaggiata
rispetto al partito di governo che controlla l'amministrazione pubblica e
opera quindi in condizioni di privilegio competitivo. In un'Italia,
dove i media agitano gli inquietanti spettri di una «partitopoli» per
solleticare gli umori più regressivi, il proposito di togliere il
finanziamento pubblico equivarrebbe di fatto a rendere strutturale il
conflitto di interessi. Si avrebbe cioè un panorama pubblico desolante
nel quale le fondazioni di imprenditori, tecnici, banchieri entrano
nell'agone politico per ampliare l'influenza dell'azienda privata che
ambisce a gestire direttamente gli affari generali. Al posto dei partiti
che mediano tra i diversi interessi, e danno voce ai ceti più deboli,
sorgerebbe un seguito personale-patrimoniale garantito da fedeltà
oblique che solo il denaro mantiene nel tempo. Quando al partito
subentra il denaro si determina una completa opacità di ogni orizzonte
statuale. Per bloccare l'onda antipolitica, i partiti oggi giustamente
scelgono la strada dell'autoriforma, non la delegano ai giudici (che
scottanti problemi con escort, corruzioni, rapporti opachi con il
denaro, inciampi con gli arbitrati, le consulenze, gli incarichi
extragiudiziali, li hanno eccome in casa loro) o ai media vocianti che
suonano il piffero per i grandi interessi economico-finanziari che
vorrebbero una politica ancor più debole e sempre obbediente. Una
filosofia della riforma del regime dei rimborsi elettorali dovrebbe
muovere dall'idea di partito quale sede della rappresentanza sociale e
costruttore di eguaglianza. I partiti hanno il diritto a un
finanziamento non in quanto gestiscono le pubbliche risorse e pertanto,
coprendo un servizio, meritano l'elargizione di sostegni in denaro.
Questa è la giustificazione debole dei costi della politica. I partiti
diventano delle agenzie di rango semiamministrativo cui, per una
prestazione fornita, è dovuto un compenso che viene monitorato. I
partiti però non sono delle strutture burocratiche che offrono un
servizio alla società, ma sono la società stessa che organizza la
propria differenza e impone confini, avanza pretese di identità. Bisogna
perciò rovesciare l'ottica corrente: siamo agenzie iperregolate e
quindi copriteci d'oro. E imporre l'altra veduta: siamo la società che
organizza la sua parzialità e quindi ci spettano i fondi pubblici, sulla
cui destinazione controllateci pure con la severità che credete.
da L'Unità, giovedì 12 Aprile 2012
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