Arriva l’Imu, ma c’è poca chiarezza sulla sua disciplina. Se vuole
essere un’imposta patrimoniale, allora bisogna chiarirne la portata, con
un’analisi dettagliata dei suoi effetti redistributivi. Se è un’imposta
locale, è necessario indicare quali siano i benefici locali che
garantisce. Oltretutto, è anche un’imposta nazionale. Il suo peccato
originale è la mancanza di cifre certe. E quella che è stata
inizialmente definita come stima di gettito di 21 miliardi di euro, è in
realtà un obiettivo minimo. Chiariti invece altri punti di contenzioso.
di Paolo Baduzzi, www.lavoce.info
Che succede all’Imu? Il governo dei tecnici ha dovuto agire con molta fretta e inevitabili sono state le mancanze e le imprecisioni nei suoi primi provvedimenti. La gestione della disciplina dell’Imu è forse solo la punta di un iceberg che comprende, per esempio, anche la gestione di cosiddetti “esodati” e la riforma del mercato del lavoro.
Su queste pagine l’Imu è già stata esaminata e discussa ormai abbondantemente. Qui, dunque, riaffrontiamo in maniera critica solo alcuni aspetti della sua disciplina, così come aggiornata dai provvedimenti di questi giorni.
Imu: cosa è, cosa non è e cosa dovrebbe essere.
L’Imu è figlia dell’Ici, a sua volta figlia dell’Isi, imposta straordinaria introdotta nel 1992 dal governo Amato in una fase storico-economica simile per molti versi a quella attuale. Nel 1993 l’Isi divenne Imposta (ordinaria) comunale sugli immobili (Dlgs 504/1992), all’interno però di un coerente processo di responsabilizzazione e di accresciuta autonomia finanziaria degli enti locali. Soppressa sulle prima case nel 2008 (legge 126/2008), l’Ici sparisce definitivamente lo scorso anno, quando il Dlgs 23/2011 ne prevede la sua sostituzione con l’Imup a partire dal 2014. Infine, il decreto “salva Italia” dello scorso dicembre (convertito con legge 214/2011) anticipa e modifica l’introduzione dell’Imposta municipale, ora ribattezzata “unica”.
La sua storia chiarisce innanzitutto uno dei motivi della poca chiarezza della sua disciplina. Infatti, l’Imu fa riferimento a tre fonti legislative diverse e non sempre conciliabili: serve dunque innanzitutto una disciplina unica del tributo, anche tenendo conto della volontà del governo (contenuta nella nuova delega fiscale) di rivedere la normativa sulle rendita catastali.
L’Imu sembra essere a metà tra un’imposta patrimoniale tout court, con valenza redistributiva e dunque basata sulla capacità contributiva individuale, e un’imposta comunale, il cui fine dovrebbe essere invece quello di assicurare un gettito certo agli enti locali in cambio di beni e servizi locali ma senza velleità redistributive.
Se l’Imu vuole essere un’imposta patrimoniale, allora bisognerebbe chiarirne la portata, fornendo un’analisi dettagliata dei suoi effetti redistributivi. L’impressione è che, introdotta in aggiunta ad altre imposte esistenti e senza la previsione (sparita nella delega fiscale) di una riforma della tassazione dei redditi, non faccia altro che colpire ulteriormente la fascia media della popolazione, già pesantemente colpita dalla tassazione Irpef (i dati di questi giorni mostrano come il 10 per cento dei contribuenti, con redditi compresi tra i 35mila e i 70mila euro, contribuiscono per il 25 per cento del gettito Irpef totale). Quanta varrà l’Imu per questi contribuenti? Quindi quanto è equa l’imposta?
Se invece l’Imu vuole essere un’imposta locale, allora perché non chiarire e stabilire quali siano i benefici locali che sono garantiti dal suo pagamento? Per esempio, la council tax in Gran Bretagna è un’imposta comunale basata sull’abitazione, ma che comprende, tra l’altro, anche il servizio di pulizia delle strade e la raccolta rifiuti. Ciò, evidentemente, non è vero con l’Imu.
Infine, l’Imu sta a metà tra l’essere imposta comunale e imposta nazionale, tant’è vero che il Comune deve devolvere allo Stato il 50 per cento del gettito calcolato ad aliquota di base. È evidente che la previsione di questo trasferimento “fisso” – unita al taglio di trasferimenti e alla stretta del Patto di stabilità – limita moltissimo la libertà dei comuni di variare le aliquote verso il basso. Non solo. L’Ici prevedeva un’aliquota unica differenziabile tra ordinaria e speciale (per le prime case); la legge nazionale per l’Imu prevede di fatto due aliquote di base: una per l’abitazione principale e una per le altre tipologie ed entrambe le aliquote di base sono variabili. Anche questa scelta sembra suggerire che l’effetto comportamentale dei comuni sarà molto diverso da quello utilizzato con l’Ici (minimizzazione dell’Ici su abitazione principale e massimizzazione dell’Ici ordinaria). Infine, a differenza del decennio precedente, lo strumento dell’addizionale Irpef ora è più maturo, cioè molto più utilizzato, nonostante i ripetuti blocchi: questo significa che sarà in futuro una leva molto meno utilizzabile che in passato e, dunque, ci sarà meno possibilità di sostituire uno strumento con l’altro. In altre parole, se un comune non potrà più agire sull’addizionale Irpef, agirà gioco forza al rialzo sull’Imu.
Imu: la lepre e la tartaruga
Il governo, sollecitato da sindaci, associazioni edilizie, costruttori, e recentemente anche dai Caf, sta piano piano mettendo una toppa alle lacune della disciplina Imu. Pur rincorrendo i propri errori e le proprie mancanze, tuttavia, sembra non riuscire mai a raggiungerle e colmarle del tutto.
Il peccato originale dell’operazione Imu è la mancanza di cifre certe. L’incapacità di fornire previsioni di gettito sembra confermare l’impressione che ciò che è stata inizialmente definita come “stima” di gettito di 21 miliardidi euro circa è in realtà un “obiettivo minimo”. Fatto salvo quel gettito, le aliquote dovranno adattarsi. E, si badi bene, non solo le aliquote comunali. Con una modifica inaspettata il governo si è riservato la possibilità di rivedere aliquote di base e detrazioni già quest’anno, entro il 31 luglio (con ulteriore appendice a dicembre, probabilmente però limitata a casi particolari). In altri termini: l’acconto del 18 giugno verrà utilizzato come stima del gettito potenziale e sulla base di quei numeri aliquote e detrazioni verranno modificate.
E a proposito dell’acconto, è stato finalmente chiarito che questo sarà calcolato applicando le aliquote di base, con in più la detrazione totale base stabilita dalla normativa nazionale. Con la scadenza di dicembre verrà calcolato dunque il corretto debito d’imposta netto. Una soluzione che, nella sua transitorietà, appare ovviamente saggia. Talmente saggia, però, che ci si chiede perché la previsione abbia dovuto attendere così a lungo per essere approvata. E la correzione tardiva porta a un’altra distorsione: come dovranno comportarsi i comuni – pochi, a dire il vero – che hanno già deliberato le aliquote? Perché anche chi le ha già stabilite dovrà far pagare l’acconto ad aliquota base? E cosa succederà alle deliberazioni comunali se, come previsto, interverrà una modifica delle aliquote e detrazioni nazionali? Peraltro, modalità e modulo per il pagamento dell’imposta non sono ancora stati approvati.
Sembra chiarito anche il contenzioso con i comuni per quanto riguarda l’Imu dovuta dagli stessi allo Stato, vale a dire quella su immobili comunali non utilizzati per fini istituzionali e dunque soggetti all’imposta. Non si sarebbe trattato di una semplice partita di giro, in quanto il 50 per cento del gettito che il comune devolve al governo centrale avrebbe ricompreso anche l’ammontare di quell’imposta. Sembra che, limitatamente agli immobili non strumentali situati sul proprio territorio, l’Imu non sia dovuta. Con grande sollievo dei sindaci.
di Paolo Baduzzi, www.lavoce.info
Che succede all’Imu? Il governo dei tecnici ha dovuto agire con molta fretta e inevitabili sono state le mancanze e le imprecisioni nei suoi primi provvedimenti. La gestione della disciplina dell’Imu è forse solo la punta di un iceberg che comprende, per esempio, anche la gestione di cosiddetti “esodati” e la riforma del mercato del lavoro.
Su queste pagine l’Imu è già stata esaminata e discussa ormai abbondantemente. Qui, dunque, riaffrontiamo in maniera critica solo alcuni aspetti della sua disciplina, così come aggiornata dai provvedimenti di questi giorni.
Imu: cosa è, cosa non è e cosa dovrebbe essere.
L’Imu è figlia dell’Ici, a sua volta figlia dell’Isi, imposta straordinaria introdotta nel 1992 dal governo Amato in una fase storico-economica simile per molti versi a quella attuale. Nel 1993 l’Isi divenne Imposta (ordinaria) comunale sugli immobili (Dlgs 504/1992), all’interno però di un coerente processo di responsabilizzazione e di accresciuta autonomia finanziaria degli enti locali. Soppressa sulle prima case nel 2008 (legge 126/2008), l’Ici sparisce definitivamente lo scorso anno, quando il Dlgs 23/2011 ne prevede la sua sostituzione con l’Imup a partire dal 2014. Infine, il decreto “salva Italia” dello scorso dicembre (convertito con legge 214/2011) anticipa e modifica l’introduzione dell’Imposta municipale, ora ribattezzata “unica”.
La sua storia chiarisce innanzitutto uno dei motivi della poca chiarezza della sua disciplina. Infatti, l’Imu fa riferimento a tre fonti legislative diverse e non sempre conciliabili: serve dunque innanzitutto una disciplina unica del tributo, anche tenendo conto della volontà del governo (contenuta nella nuova delega fiscale) di rivedere la normativa sulle rendita catastali.
L’Imu sembra essere a metà tra un’imposta patrimoniale tout court, con valenza redistributiva e dunque basata sulla capacità contributiva individuale, e un’imposta comunale, il cui fine dovrebbe essere invece quello di assicurare un gettito certo agli enti locali in cambio di beni e servizi locali ma senza velleità redistributive.
Se l’Imu vuole essere un’imposta patrimoniale, allora bisognerebbe chiarirne la portata, fornendo un’analisi dettagliata dei suoi effetti redistributivi. L’impressione è che, introdotta in aggiunta ad altre imposte esistenti e senza la previsione (sparita nella delega fiscale) di una riforma della tassazione dei redditi, non faccia altro che colpire ulteriormente la fascia media della popolazione, già pesantemente colpita dalla tassazione Irpef (i dati di questi giorni mostrano come il 10 per cento dei contribuenti, con redditi compresi tra i 35mila e i 70mila euro, contribuiscono per il 25 per cento del gettito Irpef totale). Quanta varrà l’Imu per questi contribuenti? Quindi quanto è equa l’imposta?
Se invece l’Imu vuole essere un’imposta locale, allora perché non chiarire e stabilire quali siano i benefici locali che sono garantiti dal suo pagamento? Per esempio, la council tax in Gran Bretagna è un’imposta comunale basata sull’abitazione, ma che comprende, tra l’altro, anche il servizio di pulizia delle strade e la raccolta rifiuti. Ciò, evidentemente, non è vero con l’Imu.
Infine, l’Imu sta a metà tra l’essere imposta comunale e imposta nazionale, tant’è vero che il Comune deve devolvere allo Stato il 50 per cento del gettito calcolato ad aliquota di base. È evidente che la previsione di questo trasferimento “fisso” – unita al taglio di trasferimenti e alla stretta del Patto di stabilità – limita moltissimo la libertà dei comuni di variare le aliquote verso il basso. Non solo. L’Ici prevedeva un’aliquota unica differenziabile tra ordinaria e speciale (per le prime case); la legge nazionale per l’Imu prevede di fatto due aliquote di base: una per l’abitazione principale e una per le altre tipologie ed entrambe le aliquote di base sono variabili. Anche questa scelta sembra suggerire che l’effetto comportamentale dei comuni sarà molto diverso da quello utilizzato con l’Ici (minimizzazione dell’Ici su abitazione principale e massimizzazione dell’Ici ordinaria). Infine, a differenza del decennio precedente, lo strumento dell’addizionale Irpef ora è più maturo, cioè molto più utilizzato, nonostante i ripetuti blocchi: questo significa che sarà in futuro una leva molto meno utilizzabile che in passato e, dunque, ci sarà meno possibilità di sostituire uno strumento con l’altro. In altre parole, se un comune non potrà più agire sull’addizionale Irpef, agirà gioco forza al rialzo sull’Imu.
Imu: la lepre e la tartaruga
Il governo, sollecitato da sindaci, associazioni edilizie, costruttori, e recentemente anche dai Caf, sta piano piano mettendo una toppa alle lacune della disciplina Imu. Pur rincorrendo i propri errori e le proprie mancanze, tuttavia, sembra non riuscire mai a raggiungerle e colmarle del tutto.
Il peccato originale dell’operazione Imu è la mancanza di cifre certe. L’incapacità di fornire previsioni di gettito sembra confermare l’impressione che ciò che è stata inizialmente definita come “stima” di gettito di 21 miliardidi euro circa è in realtà un “obiettivo minimo”. Fatto salvo quel gettito, le aliquote dovranno adattarsi. E, si badi bene, non solo le aliquote comunali. Con una modifica inaspettata il governo si è riservato la possibilità di rivedere aliquote di base e detrazioni già quest’anno, entro il 31 luglio (con ulteriore appendice a dicembre, probabilmente però limitata a casi particolari). In altri termini: l’acconto del 18 giugno verrà utilizzato come stima del gettito potenziale e sulla base di quei numeri aliquote e detrazioni verranno modificate.
E a proposito dell’acconto, è stato finalmente chiarito che questo sarà calcolato applicando le aliquote di base, con in più la detrazione totale base stabilita dalla normativa nazionale. Con la scadenza di dicembre verrà calcolato dunque il corretto debito d’imposta netto. Una soluzione che, nella sua transitorietà, appare ovviamente saggia. Talmente saggia, però, che ci si chiede perché la previsione abbia dovuto attendere così a lungo per essere approvata. E la correzione tardiva porta a un’altra distorsione: come dovranno comportarsi i comuni – pochi, a dire il vero – che hanno già deliberato le aliquote? Perché anche chi le ha già stabilite dovrà far pagare l’acconto ad aliquota base? E cosa succederà alle deliberazioni comunali se, come previsto, interverrà una modifica delle aliquote e detrazioni nazionali? Peraltro, modalità e modulo per il pagamento dell’imposta non sono ancora stati approvati.
Sembra chiarito anche il contenzioso con i comuni per quanto riguarda l’Imu dovuta dagli stessi allo Stato, vale a dire quella su immobili comunali non utilizzati per fini istituzionali e dunque soggetti all’imposta. Non si sarebbe trattato di una semplice partita di giro, in quanto il 50 per cento del gettito che il comune devolve al governo centrale avrebbe ricompreso anche l’ammontare di quell’imposta. Sembra che, limitatamente agli immobili non strumentali situati sul proprio territorio, l’Imu non sia dovuta. Con grande sollievo dei sindaci.
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