Naturalmente i primi commenti di
Renzi e dei suoi al risultato delle amministrative sono improntati
alla iattanza. Abbiamo stravinto 5 a 2 e il resto è chiacchiera, ha
signorilmente glossato il Guerini, gentleman della politica 2.0.
Ma stavolta le spacconate non bastano. Negare l’evidenza
è possibile ma non cambia le carte in tavola. Che dicono senza
possibili smentite la bocciatura del governo e del suo capetto.
I fatti sono già stati analizzati dalla stampa, una volta tanto unanime. Non solo il Pd perde due milioni di voti in un anno (e un milione rispetto all’era Bersani) a vantaggio dell’astensionismo e della destra. Non solo torna così in prossimità della soglia del 25% che Renzi suole agitare contro la vecchia nomenklatura del partito.
I fatti sono già stati analizzati dalla stampa, una volta tanto unanime. Non solo il Pd perde due milioni di voti in un anno (e un milione rispetto all’era Bersani) a vantaggio dell’astensionismo e della destra. Non solo torna così in prossimità della soglia del 25% che Renzi suole agitare contro la vecchia nomenklatura del partito.
Oltre a ciò, le due figure
simbolicamente più vicine a Renzi (Moretti e Paita) escono
annichilite dalla prova elettorale. Non per il tradimento del
nemico interno né per la forza straripante della Lega, ma per la
qualità delle persone scelte.
Nella migliore delle ipotesi inconsistenti, più verosimilmente rifiutate per ciò che rappresentano.
E così torniamo al punto di partenza:
a uno stile di governo e a un intreccio di poteri e di interessi che
anche gli elettori del Pd cominciano finalmente a riconoscere nella
sua cifra antisociale, predatrice, distruttiva, ai limiti della
legalità o ben oltre il confine dell’illegalità, come in Liguria, con
le primarie al vaglio dell’autorità giudiziaria, o in Campania,
con un «impresentabile» eletto presidente nonostante i veti posti
dalla legge al suo insediamento. Per tacere di Roma. Renzi, insomma,
ha subito un duro colpo per quello che è e che rappresenta. E lo ha
subito dal suo elettorato che rifiuta di seguirlo nella sua avventura.
Se questo è vero, l’aspetto più
interessante di questa tornata elettorale è costituito dal
fenomeno più macroscopico verificatosi nell’arco di tempo (l’anno
solare intercorso tra le europee del 2014 e queste amministrative)
coincidente con l’esperienza governativa di Renzi. Alle europee il
Pd prese più del 40%, voti che in larga misura premiarono il profilo
di una nuova leadership vocata al cambiamento. Ora si attesta su
percentuali che in sostanza dimezzano quell’exploit.
Ne viene fuori il quadro di un
elettorato volatile e incoerente. E fortemente disorientato. Che
solo in parte rifluisce nell’astensionismo, mentre in una misura
significativa, che l’analisi dei flussi preciserà, si volge
addirittura alla destra estrema, quella forcaiola delle ruspe.
Se compiamo lo sforzo di guardare
i risultati di queste elezioni con distacco, emerge uno dei problemi
più seri di questa fase storica.
La parte migliore del paese si rivela
perlopiù priva di rappresentanza e di direzione politica. Ora
fideisticamente affidata ai nuovi orientamenti via via imposti
dai gruppi dirigenti della politica. Ora delusa, avvilita, rabbiosa
quando, alla prova dei fatti, si accorge di essere stata per l’ennesima
volta buggerata. Per cui si muove con un andamento sincopato
e desultorio, se non schizoide. Contraendo, per un verso,
gravissime responsabilità, perché il plebiscito dello scorso
anno è stato una delega in bianco, che è valsa l’introduzione di
«riforme» devastanti. Rivelando, per l’altro, l’esistenza di un
cospicuo patrimonio di potenziali consensi che la sinistra
potrebbe riconquistare se ritrovasse il bandolo di una matassa sin
qui enigmatica. Tutta la sinistra, dentro e fuori il Pd, se mai
miracolosamente accadesse che il ceto politico trovasse in sé la
capacità di disinteressarsi delle proprie sorti e dei propri
privilegi per investire in una cesura costituente di una forza
sociale decisa a rialzare le bandiere dell’uguaglianza, della
giustizia e della pace, dei diritti del lavoro e delle ragioni della
sfera pubblica.
In che direzione la situazione si
evolverà – se, cioè, all’elettorato di sinistra in sofferenza sarà
dato modo di farsi valere per riaprire una stagione di battaglie
civili e di conquiste sociali; oppure gli sarà ulteriormente
imposta questa frustrante condizione di clandestinità – lo
sapremo presto, alle prossime politiche, che molti osservatori
ritengono ormai prossime e che debbono essere considerate il punto
di caduta dei rivolgimenti emersi nella tornata elettorale di
domenica.
Si profila, molto semplificando, un’alternativa netta, in relazione alla quale azzardare qualche previsione.
Di qui alla fine della legislatura
Renzi potrebbe trarre insegnamento dal voto regionale, invertendo la
direzione di marcia e riconoscendo le ragioni dei settori sociali –
lavoro dipendente in primis – colpiti dalle sue «riforme». Fare
marcia indietro sulla scuola, ricredersi sulla liberalizzazione
dei licenziamenti, restituire ossigeno agli enti locali e rendere
meno iniqua la ripartizione del carico fiscale potrebbe fermare
l’emorragia e forse restituire al Pd una parte dell’elettorato che lo
ha abbandonato. Ma Renzi, come pare, potrebbe invece rilanciare,
puntare tutto sulla radicalità del «cambiamento», sulla mutazione
genetica del partito e sul consolidamento di un blocco storico
a dominante moderata nel quadro del processo di
americanizzazione del paese. Dando per persi quei voti
e scommettendo sulla conquista di nuovi consensi a destra, per
realizzare il mai tramontato progetto populistico-monocratico del
Partito della nazione.
Quale delle due ipotesi si
realizzerà? Se Renzi è quello che conosciamo, la domanda è retorica.
Una linea di compromesso, che implicherebbe una seria
autocritica, appare inverosimile, mentre il fascino dell’azzardo
seduce il personaggio, non meno di prima abbagliato dal proprio
preteso carisma.
Nemmeno la randellata di queste
elezioni basterà a farlo rinsavire. Con ogni probabilità ci
aspettano altri anni (forse solo qualche mese) di guerra di
movimento, con un governo freneticamente operoso contro chi ha il
grave torto di non avere altro da spendere – e da perdere – fuorché
il proprio lavoro e i propri sempre più fragili diritti.
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