Propongo un luogo: Napoli.
E
soprattutto propongo un tema di confronto che abbia come protagonisti
gli amministratori, i movimenti, le associazioni, le cittadine ed i
cittadini: vediamoci e discutiamo insieme di come uscire dalla crisi
economica ma anche da quella politica.
Vediamoci e discutiamo insieme di
come elaborare un’alternativa economica alla ricetta liberista imposta
dall’Europa della Bce e della Commissione, che indica nel welfare e nei
diritti il forziere da depredare per far cassa.
Vediamoci e discutiamo
insieme di come rapportarci alla nuova stagione vissuta dal paese:
quella di un governo tecnico che nasce sulle ceneri della politica,
consegnatasi mani e piedi alla “tecnocrazia”, cioè agli interessi dei
cda della banche, dei mercati, delle istituzioni finanziarie, poiché
incapace di fornire una risposta come pure dovrebbe.
Vediamoci e
discutiamo insieme di come lanciare, dunque, un’alternativa economica e
politica che a mio avviso dovrebbe partire dalla difesa dei beni comuni
(acqua, internet, saperi, ambiente): un tema che si è dimostrato capace
di sintetizzare una nuova idea di politica ma anche di economia. A
difesa dei beni comuni si sono infatti mobilitati 27 milioni di
italiani, scrivendo una bella pagina di democrazia partecipativa dal
basso, a testimonianza di come sia vivo nel paese il desiderio di
politica, diretta e attiva.
Il perno di questa difesa dovrebbero essere
gli enti locali, primo livello della rappresentanza e del governo, primo
bersaglio del piano economico che fino ad oggi ha visto la riduzione
drastica dei trasferimenti nazionali, costringendoli – adesso e nel
futuro – ad una soppressione dei servizi e dunque ad una sospensione dei
diritti, minando dunque la stessa tenuta democratica. Penso alla
costituzione di una “rete dei comuni per i beni comuni” da cui partire
per formulare questa alternativa economia e politica.
Il quadro, nazionale e internazionale, rende a mio avviso importante questo appuntamento di confronto. Il governo Berlusconi è crollato sotto i colpi dei grandi poteri economico-finanziari internazionali, espressione di quel neoliberismo e di quella finanziarizzazione dell’economia che hanno portato alla crisi attuale. Berlusconi è caduto, inoltre, per volontà di quelle istituzioni europee, penso alla Bce, che sono figlie di un’Europa definita come entità monetaria ma non come comunità, quindi non ancora compiuta politicamente e non ancora capace di assicurare una vera partecipazione democratica. Il governo Berlusconi è caduto, inoltre, a causa del protagonismo di forze più propriamente nazionali: quei poteri forti – massonici, ecclesiastici e bancari – che per anni hanno sostenuto il “laboratorio Berlusconi” come garante dei propri interessi e che, registrata la sua impresentabilità internazionale, hanno scelto di liberarsene.
Il quadro, nazionale e internazionale, rende a mio avviso importante questo appuntamento di confronto. Il governo Berlusconi è crollato sotto i colpi dei grandi poteri economico-finanziari internazionali, espressione di quel neoliberismo e di quella finanziarizzazione dell’economia che hanno portato alla crisi attuale. Berlusconi è caduto, inoltre, per volontà di quelle istituzioni europee, penso alla Bce, che sono figlie di un’Europa definita come entità monetaria ma non come comunità, quindi non ancora compiuta politicamente e non ancora capace di assicurare una vera partecipazione democratica. Il governo Berlusconi è caduto, inoltre, a causa del protagonismo di forze più propriamente nazionali: quei poteri forti – massonici, ecclesiastici e bancari – che per anni hanno sostenuto il “laboratorio Berlusconi” come garante dei propri interessi e che, registrata la sua impresentabilità internazionale, hanno scelto di liberarsene.
Per far cosa? Per sponsorizzare un governo
di tecnici che potrebbe condurre un’operazione di continuità politica ed
economica sfruttando, appunto, i nomi “illustri” di noti accademici, di
ex membri di Cda bancari, di elevati giuristi ed economisti. Resta
invece ancora vivo il berlusconismo come involuzione (sub)culturale che,
per un ventennio, ha deformato il tessuto sociale del paese attraverso
un interrotto controllo mediatico garantito dal conflitto di interessi
permanente.
Stiamo dunque assistendo alla fine della politica e alla genesi della tecnocrazia: la prima non determina i cambiamenti né li governa perchè a farlo è la seconda. La prima risulta, inoltre, profondamente indebolita in conseguenza dello scollamento con la società e l’elettorato, in crisi di rappresentanza anche a causa di una legge elettorale che ha prodotto un parlamento di nominati da segreterie e correnti, non certo dunque di eletti dal popolo. E quello che resta della politica è riassunto in una maggioranza che assembla formazioni tra loro disomogenee per ideali e per storia, marcatamente gestita al centro e potenzialmente eterodiretta dai poteri forti prima citati.
Stiamo dunque assistendo alla fine della politica e alla genesi della tecnocrazia: la prima non determina i cambiamenti né li governa perchè a farlo è la seconda. La prima risulta, inoltre, profondamente indebolita in conseguenza dello scollamento con la società e l’elettorato, in crisi di rappresentanza anche a causa di una legge elettorale che ha prodotto un parlamento di nominati da segreterie e correnti, non certo dunque di eletti dal popolo. E quello che resta della politica è riassunto in una maggioranza che assembla formazioni tra loro disomogenee per ideali e per storia, marcatamente gestita al centro e potenzialmente eterodiretta dai poteri forti prima citati.
Di
fronte a questo quadro, appare necessario ritornare alla politica nel
suo senso originario, ritornare dunque alla democrazia. Per superare il
berlusconismo, che ancora infiltra come modello culturale la società, ma
anche per superare quel governo Berlusconi che potrebbe rivivere, in
particolare dal punto di vista economico-sociale, sotto le mentite
spoglie, soltanto più presentabili, dell’esecutivo Monti.
Per evitare dunque l’imposizione di una ricetta economico-sociale fondata sui dettami della Bce e della Commissione europea, di una risposta liberista ad una crisi che nasce dal fallimento del liberismo, della reazione conservatrice. Il governo tecnico mi fa paura per le ragioni espresse, ma da amministratore mi corre l’obbligo di giudicarlo dalle misure che attuerà. L’esordio certo non dirada il mio timore, anzi lo conferma: non una parola critica verso i diktat della Bce e della Commissione oppure sullo sviluppo sostenibile, non una presa di distanza dalla manovra d’agosto, che con l’art 4. obbliga gli amministrazioni a cedere ai privati buona parte delle azioni delle municipalizzate, azione resa ancora più forte dalla legge di stabilita, la quale prevede il commissariamento di quei comuni disobbedienti. È la cancellazione dei beni comuni, legati ai diritti fondamentali, per consegnarli al mercato e alla privatizzazione; è la cancellazione del welfare, usato per fare cassa; è la spoliazione degli enti locali, su cui si scarica la crisi. Semplificando è la sospensione della democrazia, che in primo luogo scompare nei luoghi di lavoro, dunque sparisce anche nel paese. Fine del Ccln, licenziamento illimitato, esclusione di una “parte” della rappresentanza sindacale laddove non si conforma agli accordi imposti dall’azienda, ovviamente senza referendum: il “laboratorio Pomigliano” esportato ed imposto in tutto il mondo dell’occupazione.
In questo quadro la voce della politica è flebile, mentre tuona quella della finanza e del mercato di cui si fa portavoce la “tecnocrazia”, soffocando gli stati, i governi e i parlamenti. Soprattutto soffocando le cittadine e i cittadini. Vediamoci dunque e confrontiamoci.
Per evitare dunque l’imposizione di una ricetta economico-sociale fondata sui dettami della Bce e della Commissione europea, di una risposta liberista ad una crisi che nasce dal fallimento del liberismo, della reazione conservatrice. Il governo tecnico mi fa paura per le ragioni espresse, ma da amministratore mi corre l’obbligo di giudicarlo dalle misure che attuerà. L’esordio certo non dirada il mio timore, anzi lo conferma: non una parola critica verso i diktat della Bce e della Commissione oppure sullo sviluppo sostenibile, non una presa di distanza dalla manovra d’agosto, che con l’art 4. obbliga gli amministrazioni a cedere ai privati buona parte delle azioni delle municipalizzate, azione resa ancora più forte dalla legge di stabilita, la quale prevede il commissariamento di quei comuni disobbedienti. È la cancellazione dei beni comuni, legati ai diritti fondamentali, per consegnarli al mercato e alla privatizzazione; è la cancellazione del welfare, usato per fare cassa; è la spoliazione degli enti locali, su cui si scarica la crisi. Semplificando è la sospensione della democrazia, che in primo luogo scompare nei luoghi di lavoro, dunque sparisce anche nel paese. Fine del Ccln, licenziamento illimitato, esclusione di una “parte” della rappresentanza sindacale laddove non si conforma agli accordi imposti dall’azienda, ovviamente senza referendum: il “laboratorio Pomigliano” esportato ed imposto in tutto il mondo dell’occupazione.
In questo quadro la voce della politica è flebile, mentre tuona quella della finanza e del mercato di cui si fa portavoce la “tecnocrazia”, soffocando gli stati, i governi e i parlamenti. Soprattutto soffocando le cittadine e i cittadini. Vediamoci dunque e confrontiamoci.
Luigi De Magistris
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