lunedì 5 dicembre 2011

Analisi della manovra 2: addio alle pensioni di Redazione Contropiano

Le pensioni sono il campo dove il governo ha fatto le scorrerie più sanguinose.
Confermate le peggiori previsioni della vigilia:
  • il sistema di calcolo col “contributivo” viene esteso a tutti, anche a chi aveva più di 18 anni di servizio prima del 1995 (al tempo della “riforma Dini”); è da ricordare che il “retributivo” era stato introdotto nel 1976 proprio per sostituire il “contributivo” (l'ammontare dell'assegno viene calcolato ai contributi effettivamente versati), che aveva prodotto una marea di “pensionati poveri”; ora si torna a quello scenario sociale;
  • viene cancellata “l'anzianità” - ovvero la possibilità di lasciare il lavoro dopo 40 anni, anche se non è è ancora raggiunta l'età minima pensionabile; il minimo diventano infatti 42 anni di contributi, con “disincentivi” (un assegno pensionistico più magro) per coloro che intendono avvalersi di questa possibilità prima del raggiungimento dell'età pensionabile: il 3% dell'assegno per ogni anno prima dei 62;
  • contemporaneamente viene cancellata la “rivalutazione” dell'assegno in base all'aumento dell'inflazione;
  • età pensionabile che viene a sua volta innalzata, in modo da accorciare il più possibile il periodo della vita in cui si percepisce l'assegno pensionistico (l'ideale capitalistico è un'età pensionabile che coincide con le aspettative di vita); le donne che lavorano nel settore privato andranno in pensione a 62 anni, a partire da gennaio, qualsisai sia la loro “anzianità”, e gradualmente si arriverà ai 66 anni nel 2018;
  • per gli uomini la “vecchiaia” si raggiunge a 66 anni da subito;
Si dice che l'”anzianità” sia un'”anomalia italiana”. In Germania l'età pensionabile “teorica” è a 65 anni, quella “effettiva” a 61,8. Magari non si chiama anziantià, ma c'è sicuramente un meccanismo analogo che consente – a determinate condizioni – di lasciare il lavoro prima senza penalizzazioni.
E' falso che siano “i giovani” a “pagare” la pensione ai padri. La pensione è “salario differito”, ovvero una quota del salario “trattenuta” ogni mese e accantonata (nell'Inps o in altri istituti previdenziali), che viene “restituita” al momento del ritiro. Quindi chi va in pensione se l'è già pagata.
Sul piano linguistico, infine, non si riesce proprio a capire perché elevare l'età pensionabile sarebbe una “scelta coraggiosa”. A noi sembra soltanto “prepotente”, un atto d'imperio crudele e senza senso economico-produttivo: quale azienda si tiene al lavoro un ultra-60enne, se non nei ruoli di dirigente o comunque “concettuali”?
Chiarissimo invece cosa la borghesia italiana intenda per "equità": quella "attuariale": ossia "quando a tutte le storie contributive e pensionistiche individuali è garantito lo stesso tasso di rendimento interno". Che c'entrano le classi e le persone...

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La scheda de Il Sole chiarisce come il sistema di "incentivi" e "disincentivi" obblighi di fatto i lavoratori a "scegliere" l'età pensionabile più alta, pur di mantenere un assegno pensionistico non troppo penalizzato.

Strada stretta per l'uscita anticipata

Nella previdenza «a due vie», ordinaria o anticipata, disegnata dalla nuova riforma, il dato chiave per capire se si potrà salire sul primo binario o bisognerà attendere l'assegno di vecchiaia è la data di ingresso al lavoro. A regime, il discrimine dovrebbe attestarsi in genere attorno ai 25 anni: chi ha iniziato prima, e ha versato i contributi con regolarità, potrà utilizzare la prima via, che permette di lasciare il lavoro dopo 42 anni di contributi (42 anni e 3 mesi dal 2014), gli altri dovranno attendere l'età minima per l'uscita di vecchiaia: età che dal 2012 si alza a 66 anni, ed a 66 anni e mezzo nel caso dei lavoratori autonomi.La nuova architettura previdenziale, che entra in vigore da gennaio (con possibilità, per chi matura i requisiti prima, di farselo certificare), elimina i bizantinismi che fino a oggi hanno complicato il calcolo, comprese le finestre «mobili» che ritardano di un anno l'uscita dei dipendenti e di 18 mesi quella degli autonomi.
Per preventivare il proprio futuro previdenziale, occorre ora tenere conto solo di due fattori: i requisiti (42 anni e 3 mesi di contributi per l'anticipata, 66 anni di età per la vecchiaia dei dipendenti, 66 e 6 mesi per gli autonomi), e l'impatto degli incrementi automatici legati alla speranza di vita, che la riforma non abroga. Secondo le previsioni della Ragioneria generale, gli incrementi periodici chiederanno un anno in più dal 2022, due anni in più dal 2031 e imporranno ulteriori passaggi d'anno nel 2040 e 2052. Il tutto vale dal 2012 per gli uomini e le donne del pubblico impiego, e dal 2018 (con avvicinamento graduale) anche per le lavoratrici del settore privato.
Qualche esempio aiuta per iniziare a districarsi nelle nuove regole (con l'avvertenza che la tabella a fianco, come quella pubblicata nella pagina precedente e riferita alle donne del settore privato, ipotizza per uniformità che l'ingresso al lavoro sia avvenuto sempre al 1° gennaio): un lavoratore nato nel 1955, se ha iniziato a lavorare a 18 anni, matura i requisiti nel 2015, dopo aver accumulato 42 anni e tre mesi di contributi. Attenzione, però: se deciderà di andare in pensione, subirà un taglio del 9% (3% per ogni anno inferiore a 63), che potrà essere evitato aspettando fino al 2018. La penalizzazione diventa ancora più pesante per chi ha iniziato prima: entrando al lavoro a 14 anni, si matura il diritto ad uscirne a 56, ma la sforbiciata sarà del 21 per cento.
Le dinamiche del sistema, però, porteranno la tagliola a scattare sempre meno nel tempo. Fra un ventennio, a meno di impreviste inversioni nell'aspettativa di vita, occorreranno più di 44 anni di contributi per il pensionamento «anticipato», per cui la penalizzazione potrebbe scattare solo nei confronti di sceglie questa strada avendo iniziato a lavorare prima della maggiore età.

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