giovedì 29 dicembre 2011

Il saper fare italiano non serve, se non si investe in ricerca e sviluppo

Ristrutturare il sistema produttivo e dei servizi per superare la crisi. E sconfiggere i vizi dell’economia nazionale
La crisi economica internazionale non si ferma. Tutte le previsioni di crescita dell’area euro per il 2012 hanno il segno meno, mentre per l’Italia, tecnicamente già in recessione, le proiezioni di crescita del pil per il 2012 variano tra un meno 1,5% e un meno 2,5%. Lo spettro di un’ulteriore caduta del pil (double dip) non è più un caso di scuola. Sembra di rivivere il dibattito degli anni ’30. Riprendendo Minsky: «Nel tormentato periodo che va dal 1929 al 1936 gli economisti accademici (…) non avevano saputo offrire pressoché nessun suggerimento politicamente accettabile circa un piano d’azione governativo, in quanto essi erano fermamente convinti della capacità d’autoregolamentazione del meccanismo di mercato (…) l’economia prima o poi si sarebbe ripresa da sola, a patto che la situazione non venisse aggravata ulteriormente dall’adozione di un’errata politica economica, inclusa la manovra fiscale».
Inoltre, la politica economica europea finalizzata alla stabilizzazione dei conti pubblici non aiuta a sostenere la domanda. Per molti versi aggrava la malattia, come se l’esperienza degli anni trenta sia ormai un lontano ricordo di cui è meglio cancellare ogni traccia. Ma l’aspetto più grave è l’assenza di un dibattito pubblico e politico europeo adeguato alla più grave crisi economica del sistema capitalistico in tempo di pace.
Se il quadro internazionale ed europeo condiziona le politiche pubbliche italiane, occorre puntualizzare la peculiarità del sistema economico italiano e, per questa via, individuare le misure più efficaci per la cosiddetta fase 2 del governo Monti. Infatti, le misure d’adottare dovrebbero ri-strutturare (Riccardo Lombardi) il sistema produttivo e dei servizi, almeno per agganciare il target medio europeo.
L’Italia, più di altri paesi europei, ha un problema di crescita. Tra il 1996 e il 2010 ha maturato un gap di minore crescita di quasi 11 punti di pil rispetto la media europea, mettendo in crisi la sostenibilità del debito pubblico. Infatti, se diminuisce il denominatore è difficile contenere il rapporto debito-pil, ormai prossimo al 120%. Ma pochi si sono occupati delle ragioni tecniche che hanno impedito la crescita economica. Indiscutibilmente la distribuzione del reddito italiana, ormai pari a quella dei paesi anglosassoni, condiziona i consumi delle famiglie, ma sono gli investimenti e la spesa in ricerca e sviluppo a determinare la minore crescita del paese.
Rispetto alla spesa in ricerca e sviluppo è nota la minore spesa complessiva dell’Italia rispetto alla media europea. Da troppi anni è ferma all’1,3% del pil, contro una media europea vicina al 2%. Ma è la sua composizione che dovrebbe interrogarci. Perché a livello europeo la spesa in ricerca e sviluppo è per lo più privata (60% del totale), mentre in Italia è pari al 40%? Forse uno dei nodi di struttura da affrontare nella fase 2 del governo Monti è proprio la necessità di far crescere la spesa privata in ricerca e sviluppo almeno a livello europeo. Ma gli stimoli fiscali servono a poco. Infatti, la spesa in ricerca e sviluppo è direttamente proporzionale alla specializzazione produttiva, e ben poco possono fare gli incentivi fiscali. Si pensi agli incentivi fiscali per l’installazione dei pannelli solari: su cento pannelli installati, 98 sono importati, 1 è prodotto da una impresa estera sul territorio nazionale, 1 è fatto da una impresa italiana.
Sostanzialmente gli incentivi per la green economy nazionali stimolano il lavoro di altri paesi europei, persino cinesi.
L’altro nodo-vincolo del paese è legato agli investimenti. Non perché sono pochi, ma perché hanno un moltiplicatore pari alla metà di quello medio europeo. Infatti, gli investimenti delle imprese private nazionali non sono inferiori a quelli delle imprese tedesche, francesi o danesi, ma la produttività degli stessi investimenti è pari alla metà di questi paesi. L’esito non è strano, piuttosto il frutto della specializzazione produttiva, che poco attiene alle liberalizzazioni. Infatti, mentre in tutti paesi europei di riferimento la produzione industriale e dei servizi si è rafforzata nei beni strumentali ad alto valore di conoscenza, l’Italia ha consolidato la produzione dei beni di consumo, che necessitano di un “sapere” più contenuto. Non a caso il valore aggiunto di questi beni è significativamente più basso dei beni strumentali, con il difetto che incorporano la tecnologia prodotta in altri paesi. Indiscutibilmente il made in Italy è conosciuto in tutto il mondo, ma il valore aggiunto del made in Italy non è paragonabile a quello dei beni ad alto valore di conoscenza.
A questo vincolo di struttura, si affianca un altro vincolo tutto italiano. Indiscutibilmente i distretti industriali italiani sono stati un modello di organizzazione del lavoro. Questo modello ha retto la competizione internazionale fin tanto che il contenuto di alta tecnologia del commercio internazionale era non superiore al 15% dell’insieme dello stesso. Il saper fare italiano era ineguagliabile, ma oggi è del tutto inadeguato per affrontare la sfida della conoscenza e delle economie di scala adeguate per misurarsi a livello internazionale.
La fase due del governo Monti dovrebbe almeno delineare i percorsi di ri-specializzazione del tessuto produttivo nazionale. Diversamente, le politiche di liberalizzazione o farmacie, persino delle public utility, serviranno a ben poco perché consolideranno gli stessi vizi della produzione italiana.
Si potrebbe fare come in Germania che utilizza la propria Cassa Depositi e Prestiti per rafforzare il proprio sistema produttivo. In questo caso si potrebbe immaginare l’industrializzazione della ricerca pubblica italiana, che al momento rimane l’unica ricerca di peso e di livello europeo.
La fase 2 non è una occasione da perdere. Facciamo in modo tale che non si ripetano gli errori del passato.
Nerio Nesi e Roberto Romano - il manifesto

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