In mezzo a tante organizzazioni di sinistra in crisi di
identità e militanza, ce ne sono alcune che stanno affrontando una crisi
del tutto opposta: di crescita. Le contraddizioni interne alla Cgil,
esplose con la firma "clandestina" del "testo unico sulla rappresentanza
sindacale", che contiene alcune "regole" chiaramente incostituzionali,
ha accelerato la fuoriuscita di numerosi delegati e iscritti, persino di
qualche dirigente di lungo corso, in direzione dell'Usb.
Il congresso della Cgil, che si concluderà a maggio a Rimini, va
peraltro confermando che la segreteria confederale - Susanna Camusso in
testa - non intende riconoscere alcuna "opposizione internea". Anzi,
neppure i distinguo rappresentati da alcuni emendamenti formulati da
Landini e Rinaldini. Probabile, insomma, che il "dopo congresso"
allarghi il flusso delle uscite dal sindacato di Corso Italia.
Ma dai territori arriva la conferma che il processo è anche più
complesso, visto cge i "passaggi di campo" si vanno verificando anche in
organizzazioni diverse da quella padroneggiata da Camusso & co.
Nell'insieme, dunque, si può parlare di "occasione storica" perché il
sindacalismo di base possa finalmente evolvere a "sindacato generale",
di classe, rappresentativo di larghi strati del mondo del lavoro (e non
solo); insomma, ad alternativa credibile rispetto alla "triplice".
L'intervista a Paolo Leonardi tocca tutti questi temi e getta un po' di luce sul prossimo futuro.
*****
Quanto
è cambiato l’orizzonte sindacale dopo l’accordo del 10 gennaio?
Sappiamo che ci sono sofferenze nella Cgil; ci sono anche forse dentro
qualche altro sindacato. Dal vostro punto di osservazione, come arrivano
queste preoccupazioni, tensioni, divisioni... se ci sono?
Io credo che il 10 gennaio abbia squarciato il velo della effettiva
situazione del sindacalismo italiano. C’è una esigenza di tutto il
sindacato “complice”, come lo definì Sacconi, di accreditarsi
definitivamente per la funzione che svolge: contenimento delle lotte. E
quindi di ottenere in cambio dei vantaggi. È quello che emerge,
apertamente, anche dall’indagine dei servizi segreti, che attribuisce al
sindacato confederale e agli ammortizzatori sociali una “funzione
fondamentale di contenimento del conflitto”.
L’accordo del 10 gennaio, ha come obbiettivo quello di provare a
scrivere la parola fine sul conflitto affermando che possono esistere
solo le organizzazioni confederali e Confindustria, che sono i due
pilastri della “nuova concertazione”, attorno alla quale tutto quanto va
dimensionato. Chiunque non stia dentro quella dimensione, chiunque
pensi di poter continuare ad avere una funzione autonoma, di conflitto,
di organizzazione dei lavoratori, non avrà più quegli spazi di
democrazia che fino ad oggi in Italia - non per gentile concessione, ma
perché ce li siamo conquistati - hanno consentito anche di costruire
anche alcuni strumenti antagonisti, alternativi a quelli di
Cgil-Cisl-Uil.
Credo che il passaggio del 10 gennaio sia un passaggio importante,
che liquida o prova a liquidare la conflittualità; ma determina anche un
confronto molto più aspro che in passato persino all’interno delle
singole organizzazioni sindacali “complici”. Tutto ciò che è
opposizione, non solo esterna alle organizzazioni Cgil-Cisl-Uil, ma
anche all’interno - in particolar modo della Cgil - diventa un “nemico
da espellere”. La percezione che emerge anche dal dibattito apertosi
dopo la firma del 10 gennaio è che non ci sia nessuna intenzione di
“fare prigionieri”; che la Camusso, in particolar modo, per dare
credibilità alla firma che ha messo, debba dimostrare di essere in grado
anche di smantellare l’opposizione interna.
C’è
un elemento di complicazione nel fatto che Renzi ha sostituito Letta?
Perché la domanda è questa: lui è partito dicendo “non mi interessa
parlare con le parti sociali, mi interessano le famiglie”. Salta
direttamente i “corpi intermedi” della rappresentanza, quelli che
tenevano insieme società e mondo politico.
Mi sembra evidente che ci sia un combinato disposto: da una parte c’è
il sindacato “complice” e le organizzazioni padronali più importanti,
che determinano insieme una nuova modalità di riconoscimento reciproco
ed esclusivo della “rappresentanza”; dall’altra la fine della
concertazione, ma da destra. L'avevamo compreso e detto, ma ora viene
certificata dall’atteggiamento di Renzi. C’è anche una buona dose di
ingratitudine - da parte del governo - nei confronti del lavoro svolto
da quei “corpi sociali intermedi”, fondamentale dagli anni ’70 ad oggi,
per accompagnare l’affermazione piena del capitale. Il quale ritiene ora
di poter fare a meno dei corpi intermedi, e di poter quindi affondare
il coltello dentro il “blocco sociale” delle organizzazioni sindacali.
Renzi oggi prende atto che si è conclusa con successo questa operazione.
Va avanti, non sembra intenzionato a fare concessioni. O almeno così mi
sembra, a parte le chiacchiere...
Renzi avrebbe tutto questo potere?
Renzi o chi per lui… Non mi sembra che finora abbia fatto cose
particolarmente efferate nei loro confronti, però ha dichiarato la fine
del modello... Di fatto prelude a un attacco fondamentale alla rendita
di posizione delle organizzazioni sindacali “complici”…
Dichiara insomma la fine del loro “ruolo politico”?
Anche la ventilata chiusura del Cnel, e quindi la protesta contro la
chiusura della “camera di compensazione fra le parti sociali”, è una
presa d’atto della fine di una funzione. Il Cnel era nato in una fase in
cui il conflitto tra il blocco sociale del mondo del lavoro e quello
dei padroni era un conflitto serio, vero, centrale nelle relazioni
sociali e politiche. Quel conflitto non c’è più perché attraverso la
concertazione, la complicità, ecc, ne sono stati superati i presupposti.
Il conflitto oggi viene esercitato da chi sta fuori da quei luoghi;
quindi diventa inutile avere una “camera di compensazione” per attori di
un conflitto che non è più agito dai sindacati tradizionali o che non
controllano più. Mi sembra insomma che Renzi prenda atto di una
situazione sul campo. Non è lui che porta in profondità l’attacco;
l’attacco c’è già stato, è stato condiviso, è stato concertato, e oggi
se ne prende atto. Fine.
Questo
pone proprio un problema di ruolo anche per quel tipo di sindacato, no?
Perché se gli levi il “ruolo politico” resta ben poco da esercitare, se
non il ruolo di “patronato”, la consulenza su pensioni, fiscalità e
cose del genere. Dal punto di vista della massa degli organizzati e
anche dei delegati, quali segnali state ricevendo?
La vicenda del 10 gennaio affonda nel terreno della democrazia, che
dentro le organizzazioni sindacali e fra i lavoratori è un terreno
abbastanza sentito. Forse non tanto fra i lavoratori genericamente
intesi, quanto tra i delegati, fra chi sviluppa una relazione anche
contraddittoria con le controparti; e quindi l'avere o no tutele,
l'avere o no possibilità di agire, il poter essere o no sottoposto a
“sanzioni” nel caso in cui si vada “oltre il consentito”, sta diventando
un problema. Credo che il 10 gennaio, da solo, probabilmente non
avrebbe prodotto grandi reazioni. Le ha prodotte soprattutto nell’ambito
della fase congressuale della Cgil. Mentre questo è ancora in corso,
l’accordo del 10 gennaio ha riaperto la discussione interna; soprattutto
in quel settore che aveva tranquillamente accettato l'accordo
precedente, quello del 31 maggio, che era praticamente identico, se si
escludono le sanzioni e la parte regolamentare…
Per la Fiom c'è stata anche la perdita dell’autonomia contrattuale come categoria...
Sì, certo. Ma di fatto c’era già molto, in questo senso, nell’accordo
del 31 maggio, che però era stato digerito con abbastanza nonchalance
dalla Fiom. Ora si è riaperta questa ferita e si è aperta una
discussione interna al congresso. Questo sta producendo una
politicizzazione dello scontro interno alla Cgil del tutto imprevista;
nella prima fase della discussione congressuale non c’era stata. E
questo sta ora producendo anche una uscita allo scoperto di un settore
più consapevole, soprattutto sul piano “politico”, che esce dalla Cgil
non tanto e non solo perché c’è stata una “resa dei conti” tra settori
diversi (qualcuno che ha perso il posto da funzionario, ecc), ma perché
ha capito che nella nuova condizione non era più possibile rimanere. E
questo nonostante ancora sia ancora in campo l’ipotesi del secondo
documento di Cremaschi ed anche un'opposizione interna alla maggioranza
rappresentata dalla Fiom di Landini.
Alcuni dei quali, in altre categorie, vengono buttati fuori lo stesso …
Appunto... La cosa che emerge è che la Camusso non arretra. L’ha
dimostrato anche sulla vicenda del referendum. Averlo chiesto, secondo
noi, è stata una stronzata clamorosa. Perché su una contraddizione di
quel tipo – che investe la Costituzione e la natura del sindacato – tu
non vai al referendum. La contesti, la neghi, non l'accetti; punto e
basta. Ma non ti esponi al fatto…
...che poi te la devi subire.
Al fatto che poi una maggioranza dice “va bene così” e tu la subisci a
prescindere. Quando una cosa ha quelle caratteristiche antidemocratiche
e anticostituzionali, ecc, non c’è referendum che tenga. Tu devi fare
opposizione e opposizione durissima…
…come a Pomigliano col “modello Marchionne”...
Certo… Non è possibile pensare che sia un “problema interno” a una
particolare organizzazione. E’ un problema di tutti i lavoratori, tocca
diritti universali indisponibili a qualsiasi accordo tra organizzazioni.
Però è chiaro questa contraddizione violenta ha posto un problema serio
a un pezzo più cosciente della Cgil. Si sta producendo una fuoriuscita
di quadri e di militanti, di pezzi operai che, crediamo, sia destinato
non solo a mantenersi costante, ma anche a crescere via via che la fase
congressuale procede e - come dire - rende evidente la chiusura
definitiva degli spazi di democrazia anche all’interno di quel
sindacato. Noi stiamo raccogliendo molto, in molte parti d’Italia, in
molte categorie, in molti settori. Arrivano anche dirigenti “di
spessore”, non solo delegati, compagni, rsu, quadri ecc. ecc, ma anche
dirigenti sindacali. E quando questi dirigenti sindacali arrivano
all’Usb, ci costringono, in qualche misura, a indagare sulla percezione
esterna esistente nei nostri confronti.
Quanto pesa la vicenda dell’Ilva in questo esodo?
L’Ilva ha pesato molto, perché lì abbiamo fatto un investimento
importante anche sul piano politico e delle risorse organizzative. Il
tutto dentro un quadro solidaristico di organizzazione, che si è
costruito anche sul piano della struttura organizzativa e della
struttura economica in maniera tale che fosse possibile indirizzare le
risorse là dove questo era necessario. Tant'è che all’Ilva abbiamo
sviluppato una forte capacità di intervento, sia pure con una difficoltà
enorme, perché l’azienda ha certe caratteristiche, il territorio
devastato…
Si è sempre parlato, all'Ilva, di “sindacalizzazione clientelare”…
Appunto. Insomma, una storia sindacale non cristallina, diciamo così;
però abbiamo ottenuto un risultato che è sotto gli occhi di tutti e ha
indicato la possibilità di un’alternativa. Quello che ci ha colpito, e
su cui stiamo lavorando, è che vediamo convergere su di noi un'attesa
che sentiamo molto grande. E noi sappiamo di essere, a tutt'oggi,
un’organizzazione ancora inadeguata rispetto a una sfida talmente
grande. D'altro canto non esiste un'altra organizzazione oggi adeguata a
reggere quel piano. Nonostante questo – o forse proprio per l'onestà
con cui riconosciamo sia le grandi potenzialità che anche i limiti
obiettivi - veniamo vissuti oggi come una alternativa effettiva. Il
sindacalismo di base non è mai stato considerato dalle altre
organizzazioni sindacali come una credibile alternativa, anche per le
caratteristiche con cui si è dato vita al sindacalismo di base: una
sorta di franchising, in cui si costruiva l’autorganizzazione posto di
lavoro per posto di lavoro, non venivano forniti strumenti organizzati,
una visione complessiva e strategica dell'organizzazione... Noi,
costruendo l'Usb, abbiamo cercato di fare una operazione diversa.
Abbiamo costruito un embrione di sindacato di massa, un sindacato di
classe. Oggi questa cosa si sta sviluppando moltissimo e l’intuizione è
stata evidentemente giusta se oggi veniamo letti come organizzazione
sindacale in grado di fare la differenza ed essere credibile sia sul
piano della vertenzialità, sia sul piano della politica, sia sul piano
della struttura organizzata. Quindi i compiti che ci aspettano sono
compiti gravosi: dare continuità, dare una risposta adeguata a una crisi
in una fase difficilissima. Questo avviene in presenza di una tendenza -
da parte della “gente comune” - a leggere tutto nello stesso modo, cioè
sul piano della “casta”, chiunque si occupi di politica o di sindacato;
il che sicuramente non ci aiuta. C'è una nuova ventata di
“antisindacalismo” molto qualunquista che si fa largo senza troppi
problemi, senza ostacoli, visto il modo in cui Cgil-Cisl-Uil gestiscono
l’agire sindacale. E che rischia di coinvolgere tutti. Noi abbiamo
invece il compito di dimostrare che oggi è possibile operare nel
conflitto, costruire una organizzazione sindacale che riparta dal
conflitto, che riparta dagli interessi della classe, per contrapporli
direttamente alle imprese e ai loro governi. E quindi rompere questa
idea che “il sindacato è tutto da buttare come tutta la casta politica”,
ecc.
Ci
sono insomma tutte le caratteristiche di un’”occasione storica”, una
possibilità di saltare da un ruolo minoritario a una funzione
generale... Ma questo pone anche problemi infiniti; di cultura
politico-sindacale, organizzativi, di formazione dei quadri. Come li
affrontate?
Abbiamo lavorato molto intensamente, nel corso degli anni, alla
costruzione di una identità di organizzazione e di una lettura condivisa
delle fasi politiche, degli avvenimenti, di come il capitale si
riorganizzava e quali erano i punti di tenuta di una organizzazione
conflittuale. Non saremo mai un’altra Cgil, non saremo la Cgil “più di
sinistra”; noi siamo un’altra cosa. Siamo il portato di una lettura
della trasformazione sociale e produttiva che non alberga più nel
ragionamenti delle altre organizzazioni sindacali. Ci rendiamo conto
spesso che c’è una lettura solo sovrastrutturale, che produce il giorno
per giorno - la riduzione del danno - come unico piano di intervento.
Noi abbiamo invece sempre cercato – e continuiamo a farlo - di mettere i
nostri quadri, i nostri compagni, dentro una dimensione più
“strutturale”; devono essere consapevoli che la loro funzione si svolge
dentro un quadro complessivo che va modificandosi. Ciò significa
assumere i dati “strategici” come base di partenza. L’Usb è una ipotesi
di lavoro sicuramente perfettibile, sicuramente migliorabile, però che
oggi dà una chance al conflitto per organizzarsi e crescere. Una sfida
importante, dunque, perché oggi, forse per la prima volta dopo molti
anni, ci sono delle condizioni politiche perché un pezzo del nostro
blocco sociale smetta di vedersi come completamente sconfitto, grazie
anche a Cgil-Cisl-Uil e alle loro scelte. E’ chiaro che si tratta di una
scommessa molto complicata, che necessita di revisioni organizzative,
definizione di un piano della militanza (fondamentale in una
organizzazione con risorse limitate, con la necessità e anche la scelta
di lavorare sulla militanza e non sul funzionariato). Ovviamente un
minimo di struttura è sempre indispensabile, perché non esistono
“organizzazioni disorganizzate”... però il rilancio della militanza, il
rilancio della passione politica, è il nostro segno distintivo. La
passione si incarna in un soggetto sindacale con caratteristiche
conflittuali alternative; che individua il capitale, la contraddizione
imperialista, l’Europa, ecc, come piani non secondari rispetto al nostro
agire sindacale. Abbiamo accettato questa scommessa e vediamo se questa
cosa convincerà altri oltre noi. Ce lo auguriamo, e in parte sta già
avvenendo …
Che
tipo di problemi si creano con la massa di adesioni che arriva ora? Con
soggetti che escono da una situazione diversa per cultura sindacale,
interpretazione politica per pratiche conflittuali?
La vogliamo mettere in positivo. Non vogliamo immaginare che chi
viene da noi lo faccia perché non c’è altro, anche se in parte è vero.
Vogliamo sperare che chi sceglie l’Usb lo faccia dopo aver ragionato se
ne condivide o meno l'ipotesi politica, il lavoro, gli strumenti
organizzativi. Per esempio, a differenza delle altre organizzazioni
sindacali - e non ci sembra un dettaglio da poco - abbiamo scelto di
essere una organizzazione orizzontale. Non abbiamo il segretario
generale, ma strutture orizzontali in cui i compagni lavorano e si
misurano proprio per cercare di evitare, per quanto possibile, quella
inevitabile prassi burocratica caratteristica di un’organizzazione. Ci
troviamo molto spesso a discutere con compagni che vengono da altre
esperienze: “ma chi è il segretario?”
Noi, su questo, non torniamo indietro di un millimetro. Pensiamo che
sia possibile, anche se molto faticoso, mantenere la democrazia delle
relazioni dentro l’organizzazione. Episodi come quello di Napoli, nella
Filt Cgil, o altri, in cui un singolo “capo” può avere potere di veto o
di scelta politica, a prescindere dalla collegialità degli strumenti di
discussione, da noi non si possono – e comunque non si debbono -
verificare. E’ chiaro che chi arriva da noi - e non solo dalla Cgil, ma
interi settori, gruppi di lavoratori, delegati, ecc, anche da altre
organizzazioni sindacali quindi - ha un approccio costruito in un'altra
storia, in altre organizzazioni; quindi per noi è molto importante fare
un confronto politico molto serrato sull’identità dell’organizzazione
Usb, sulla sua storia, su come ha formato e definito il suo quadro
dirigente, la modalità di stare sul territorio. Per esempio: spesso un
elemento difficile da comprendere è “il sindacalismo della confederlìalità
sociale”. Noi abbiamo scelto ormai da tempo - e stiamo ancora
sperimentando, non è che abbiamo trovato la soluzione definitiva - di
delineare un sindacato capace anche di uscire fuori dalle aziende; che
non abbandona insomma il terreno classico del lavoro sindacale (la
vertenzialità e la presenza nei luoghi di lavoro), ma che apre e
definisce un proprio terreno di intervento su tutta la scomposizione
sociale prodotta dalla globalizzazione; e quindi precarietà,
disoccupazione, i senza casa, i senza reddito, i migranti. Abbiamo
scelto di aprire il sindacato a soggetti che normalmente non possono
incontrarlo; e quindi di fare delle nostre strutture territoriali dei
luoghi della riaggregazione politica e sociale. Questo spesso trova
impreparati i compagni, i delegati e le delegate, i lavoratori che
arrivano da altre esperienze; dove molto spesso ci si limitava ad una
visione legata alla propria condizione materiale diretta …
Una visione aziendalistica…
Sì. Aziendalistica, contrattualistica, tra l’altro in una situazione
in cui la contrattazione non c’è quasi più. Noi pratichiamo anche la
contrattazione, ovviamente; ma non la “concertazione”.
Lavorate
sul terreno della precarietà, della disoccupazione, dei problemi
sociali, sulla “confederalità sociale”... Ma che risultati - perlomeno
sul piano della cultura politica - si possono illustrare in questo
momento? Cioè, aver fatto quelle esperienze, cosa ha insegnato?
Siamo ancora, come dire, all’abc... Stiamo sperimentando; con diverse
forme e diversi risultati. Per esempio: nel meridione la nostra
confederalità sociale si articola soprattutto sulla disoccupazione; in
Sicilia, in Calabria e in Campania il nostro lavoro da “confederazione
sociale” ha quelle caratteristiche. A Roma, e in parte del centro e nord
Italia, ha invece avuto come punto di riferimento principale la
questione del diritto all’abitare, ecc. A Torino, Genova, Napoli, in
Puglia, è molto legata alle vicende dei migranti e dei richiedenti
asilo. L’idea generale è dar forma e organizzazione al tessuto sociale
disgregato. Questo avviene poi con diverse forme e con diversi soggetti,
a seconda del contesto perché – ovviamente - la priorità è quella che
ti si presenta davanti sul territorio. Stiamo stringendo rapporti e
dotandoci di strumenti organizzativi; si sono aperte anche
collaborazioni con pezzi di movimento che già agiscono sul terreno
sociale, cui proponiamo anche una strumentazione di tipo sindacale che
aiuti ad andare oltre la singola questione. Per esempio tutta una serie
di servizi di cui il sindacato si è dotato e che sono fondamentali nella
relazione sociale. Cioè: non basta la battaglia politica, lo scontro
sulla singola questione. Il lavoratore, il migrante, il senza casa, ha
bisogno anche di un’organizzazione sindacale che gli fornisca strumenti
per la propria tutela: dall’ufficio legale alla struttura di lotta per
la casa o per i migranti, per il permesso di soggiorno, il patronato...
Cioè tutte quelle strutture di cui un'organizzazione sindacale non può
fare a meno, e che spesso, soprattutto negli ambiti - diciamo così -
dell’”antagonismo” sono state lette come “pratiche burocratiche” che
scimmiottavano in qualche misura l’agire delle organizzazioni sindacali
“normali”. Strutture che oggi sono ricercate da tutti; anche da pezzi di
movimento che ci chiedono di metterle a disposizione per fare della
tutela di lavoratori, di chi non ha lavoro, di precari, disoccupati,
ecc, uno strumento completo che – su questo piano - non lasci nessuno in
difficoltà. Quindi mi sembra che sia, in prospettiva, un dato molto
importante, perché mette l’organizzazione sindacale dentro la realtà
complessivamente intesa, quella prodotta dalla crisi, dalla chiusura dei
siti produttivi, che lascia la gente da sola; e a cui proviamo a dare
qualche risposta. Un impianto abbastanza diverso dall’impianto
“lavoristico” classico delle organizzazioni sindacali storiche.
Quanto
pesa l’ingresso nella Federazione sindacale mondiale? Ossia il non
essere più soltanto il sindacato di base, nato in una nicchia
particolare del lavoro, ma il confrontarsi, a livello internazionale,
con problemi assolutamente simili, se non uguali?
Abbiamo fatto la scelta di aderire alla Federazione Sindacale
Mondiale dopo averla “annusata” per molti anni. È da molto tempo che
stiamo dentro un circuito di riflessione sul “che fare?” sul piano
internazionale. Abbiamo intessuto relazioni internazionali ormai da
molto tempo, ci siamo convinti della possibilità di avere non solo una
relazione con l'Fsm , ma di giocare anche un ruolo al suo interno, dopo
il XVI congresso di Atene; quello in cui quella storia - che è una
storia importante, di grande presenza del sindacato internazionalista e
di classe, a livello mondiale - si è proposto una “rifondazione” del
proprio essere, dello stare tra i lavoratori, dell'essere un punto di
riferimento che, con modalità nuove, che consentono di intravedere un
percorso solidale, un percorso internazionalista, anche nell’Europa
sviluppata e non più solo nel “terzo mondo”; insomma, non solo in
Africa, America Latina, Asia, dove pure è già fortissimo. Credo che
questo abbia avuto un effetto anche nella scelta di molti delegati della
Cgil; una spinta ad entrare in relazione tra noi. Quella della
Federazione Sindacale Mondiale è una storia di classe, che coinvolge
oggi 86 milioni di lavoratori organizzati in 135 paesi, senza alcun
riconoscimento da parte delle organizzazioni internazionali, anche se
formalmente esistono dei rappresentanti all’ ILO, all’Unesco, alla Fao
(qui la rappresentante dell’FSM è una nostra dirigente); ma nelle
relazioni internazionali istituzionali la fanno da padrone ancora i
sindacati concertativi, che fanno di tutto per escludere la Federazione
Sindacale Mondiale da ogni consesso. Eppure c’è una crescita molto
importante, uno scambio continuo di relazioni, su quanto accade a
livello internazionale. C’è un forte movimento solidaristico che
interviene laddove il movimento dei lavoratori viene messo sotto attacco
o comunque gli viene impedito di lavorare. A noi sembra un fatto
importantissimo che un sindacato non guardi solo alla propria struttura,
al proprio paese, la propria condizione, ma abbia un orizzonte - non
solo continentale - addirittura di livello mondiale. È decisivo per
capire alcune delle dinamiche che il capitale mette in campo e quale sia
la necessità vera della risposta da dare, e come si articola a livello
internazionale. Siamo molto soddisfatti di questa scelta. Sappiamo che
anche in Europa, in particolar modo nell’Europa occidentale, ci attende
un compito importante, di ricostruzione della partecipazione all’Fsm
anche di altri organismi sindacali conflittuali. Sappiamo che non
esistono organizzazioni simili alle nostre, nel resto d’Europa; altrove
il sindacato “ufficiale” assorbe anche le correnti antagoniste o di
minoranza. Però pensiamo che un lavoro su questo fronte sia
indispensabile anche in Europa occidentale, per costruire strumenti di
attacco alla Ces e all’Unione Europea.
Nessun commento:
Posta un commento