Joseph Halevi non è soltanto un ottimo
docente di economia, ma un profondo analista del capitalismo
contemporaneo. In questa intervista, malauguratamente chiestagli da
sprovveduti sostenitori della Modern Monetary Theory (Mmt, quella che ha
come profeta italiano il giornalista Paolo Barnard, demolisce con
grande semplicità il suo interlocutore e numerosi “luoghi comuni” che
anche “a sinistra” vengono condivisi senza alcuna riflessione.
Nell'ordine:
a) non è vero che viviamo in un'epoca di “riduzione dell'intervento
dello Stato nell'economia”; anzi, mai come ora lo Stato – o “organismi statuali insindacabili (come quelli dell’UE) hanno aumentato la
loro azione ed ingerenza negli affari economici” - interviene
attivamente per rovesciare i rapporti a favore delle imprese e del
capitale finanziario;
b) è vero semmai che i poteri statuali hanno smesso di funzionare
secondo i princìpi della democrazia rappresentativa, eliminando ogni
finzione di “compromesso sociale”;
c) non è la “stagnazione salariale” - quindi la riduzione dei consumi
– ad aver “causato” la crisi globale e l'indebitamento, ma quest'ultimo
ad essere usato come “sostegno alla crescita globale”;
d) neanche l'euro, pertanto, è una “causa” della crisi dei paesi più
deboli del continente, ma è solo lo strumento attraverso cui è stata
imposta – e viene ora accresciuta la compressione dei salari;
e) l'analisi economica è impotente se ignora – come fa sempre – la
struttura legale-istituzionale dei sistemi analizzati; questo vale
soprattutto per quei “sinistri radicali” che vorrebbero tenersi stretta
questa Unione Europea (confusa sistematicamente con l'”Europa”, come se
l'Italia fosse lo “Stato italiano”), ma senza le politiche che sono
inscritte nei trattati “costituenti” la stessa Ue;
f) l'unico keynesismo davvero esistito è quello militare;
g) la Mmt è aria fritta;
h) lasciata a se stessa, la proprietà capitalistica dei mezzi di
produzione tenderebbe alla schiavitù, per questo dunque sono necessari i
sindacati; purtroppo, quelli esistenti o sono corrotti, oppure sono
ancora troppo deboli, quindi insufficienti a rappresentare un ostacolo
serio. Possiamo discutere soltanto sul se un cambiamento di questa
situazione sia “impossibile”, come dice Joseph, oppure “semplicemente”
difficilissimo. Qui c'è la cruna dell'ago: ci passerà il cammello?
*****
1) Prof. Halevi, in un suo lavoro scritto con Riccardo
Bellofiore dal titolo “La Grande Recessione e la Terza Crisi della
Teoria Economica”, sostenete che, con la grande crisi capitalistica del
2007-2008, siamo dinanzi alla terza crisi della teoria economica. Può
spiegarci, brevemente, cosa intendete? Quali sono state, invece, le
prime due crisi?
La crisi del 2007 è, ovviamente, anche una crisi di tutti quegli
approcci teorici che celebravano l’efficienza dei mercati finanziari
come trasmettitori di informazioni affidabili per non dire perfette. Ma
questo non sarebbe un granchè. La fase apertasi col 2007 mette in crisi
anche le visioni secondo cui, dal 1980 in poi, cioè con Ronald Reagan e
Margaret Thatcher, il sistema economico sarebbe stato gestito da
politiche neoliberiste volte a ridurre il ruolo dello Stato a favore del
mercato.
Invece no, per molti versi lo Stato o organismi statuali insindacabili (come quelli dell’UE) hanno aumentato
la loro azione ed ingerenza negli affari economici intervenendo
attivamente nello spostamento dei rapporti economici e sociali a favore
non solo del capitale in generale ma dei gruppi capitalistici prescelti
(Bellofiore ha scritto delle cose fondamentali sulla falsa
rappresentazione del neoliberismo da parte della sinistra). Infine si è
dimostrata errata l’idea che la crisi sia il prodotto della moderazione e
stagnazione dei salari (negli Usa prima e progressivamente anche in
Europa) che ha spinto le famiglie ad indebitarsi. Credo che la dinamica
sia stata differente. La stagnazione salariale e le trasformazioni
finanziarie, sempre appoggiate dallo Stato fin nei minimi particolari,
hanno permesso di acchiappare due piccioni con una fava. Da un lato la
stagnazione salariale riduceva la pressione sul costo del lavoro e –
cosa ben più importante del costo del lavoro – riduceva soprattutto la
possibilità di resistenza organizzata alle decisioni manageriali.
Negli Stati Uniti, le delocalizzazioni industriali, prima verso il
Messico poi, massicciamente, verso la Cina sono andate pari passo con
l’indebolimento salariale e sindacale che sono stati gli strumenti
sociali usati per effettuare tali delocalizzazioni. In parole povere:
non avrebbero potuto traslocare con questa facilità se i dipendenti non
fossero stati già in crisi profonda tale da non poter offrire grande
resistenza. Dall’altro lato le trasformazioni finanziarie, l’invenzione
di nuove forme di moltiplicazione dei titoli, sempre rese possibili
dalle politiche degli organismi statali, hanno creato ciò che Riccardo
Bellofiore ha chiamato keynesismo finanziario privatizzato. In altri
termini l’indebitamento non è stato soltanto l’elemento che ha
controbilanciato la stagnazione salariale. E’ andato molto più in
avanti. Il sistema giuridico statale ha dato facoltà alle società
finanziarie di cercare e creare i soggetti da indebitare anche nelle
classi di reddito più basse che altrimenti non avrebbero potuto accedere
ad una tale massa di prestiti. In questo modo dagli USA è stata
sostenuta la domanda effettiva MONDIALE: tramite le delocalizzazioni e
con le conseguenti le importazioni dal resto del mondo. A ben guardare i
paesi che negli anni 1985-2007 hanno avuto un tasso di crescita degno
di questo nome sono Cina, India, USA e pochi altri. Negli USA il tasso
di crescita pro capite è stato moderato ma quello aggregato, che include
l’aumento di popolazione è stato maggiore che in Europa o Giappone.
Pertanto il processo che è sfociato nella crisi del 2007 evidenzia
come sia erronea la contrapposizione di capitalismo finanziario ad
economia reale. La fase iniziata con le politiche reaganiane si basa
sull’integrazione dei due aspetti al punto che è impossibile fare delle
distinzioni. Le altre due crisi sono quella della fine di Bretton Wooods
nel 1971 connessa alla guerra del Vietnam che fece deragliare propio la
forza del capitalismo post-1945 su cui poggiava l’intervento USA in
Vietnam, cioè il keynesismo militare. Per questo nel 1972 la grandissima
Joan Robinson nel suo famoso discorso al convegno dell’American
Economic Association a New Orleans individuò nella fine del sistema post
bellico detto di Bretton Woods una seconda crisi della politica e
teoria economica: cioè del keynesismo pratico – quello militare – e di
quello insegnato nella manualistica universitaria che presenta la
disoccupazione keynesiana come un problema di breve periodo. Infine, la
prima crisi fu quella degli anni 30 che portò alla cosiddetta
rivoluzione keynesiana sebbene fin dal 1929 esistessero i lavori del
marxista polacco Michal Kalecki. che sui problemi sollevati poi da
Keynes aveva svolto considerazioni più pregnanti.
2) Il capitalismo, dagli ultimi tre decenni, si è mosso sui
binari della precarizzazione del lavoro, della finanziarizzazione e di
quella che lei, Francesco Garibaldo e Riccardo Bellofiore chiamate
“centralizzazione senza concentrazione”. Secondo lei, l’Euro (e i
vincoli che esso comporta) può essere letto come totalmente organico a
questo processo capitalistico globale, visto che si stanno imponendo,
con le mani legate, proprio quei processi di flessibilità del mercato
del lavoro e di distruzione dei diritti sociali? Insomma, l’Euro come
strumento è un qualcosa di ben più ampio rispetto alla crisi
dell’Eurozona?
Non penso assolutamente che l’euro sia un progetto con orizzonti
mondiali. Nasce in Europa e nemmeno tanto in Europa. Nasce in Francia,
la Germania non lo voleva. E morirà tra la Francia e la Germania… L’euro
ha creato un consenso politico ed economico, non solo da parte dei
gruppi capitalistici con più voce in capitolo, per una gara tra chi
riesce ad imporre con maggior successo la deflazione salariale. E’
questo l’elemento che cementa le diverse componenti del capitale
europeo. Se non fosse per quest’aspetto l’euro sarebbe già saltato per
reazione del resto dei paesi dell’eurozona alle azioni unilaterali della
Francia e della Germania, come ad esempio, l’annuncio di Parigi e
Berlino sul finire del 2002 di non voler rispettare i parametri di
Maastricht. Ed infatti Olanda e Austria protestarono ma Francia e
Germania non li presero nemmeno in considerazione. Italia zitta
ovviamente.
3) Continuando sul tema dell’Euro, oggi se ne dibatte
sicuramente molto di più rispetto a qualche anno fa. Molti continuano in
un suo tenace “oltranzismo”, come ha detto Emiliano Brancaccio; altri
invece ritengono che bisogna uscirne, senza però chiarire se
continueranno o meno con il filone di pensiero economico dominante o
ritorneranno ad un keynesismo di matrice classica, cioè proponendo
generiche politiche fiscali espansive volte al sostegno della domanda
aggregata. Nello specifico, come pensa dovrebbe agire una nazione come
l’Italia, immeritatamente inclusa tra i PIIGS (pur essendo un paese con
un elevato risparmio privato), per trovare una soluzione ai problemi
derivanti dall’Euro? E’ sufficiente tornare a Keynes oppure bisogna
andare oltre? Qualora l’opzione fosse proprio l’uscita dall’UME, come
dovrebbe essere gestita tale situazione?
Purtroppo gli economisti non danno alcuna importanza alla struttura
giuridico statuale dei sistemi economici che dovrebbero studiare. Non si
può uscire dall’UME se non si esce anche dall’UE. Per poter permettere
l’uscita soltanto dall’UME sarebbe stato necessario includere nei
Trattati una separazione tra Eurozona e UE cosa che non c’è, come non
c’è alcuna clausola di uscita nei testi che legalizzano l’Unione
Monetaria. Bisognerebbe studiarsi l’economia politica dell’UE e
dell’UME. Invece si procede per modellini aprioristici infarciti di
ipotesi normative (così andrà bene o male, ecc…) senza conoscenza della
storia e dei rapporti politici, statuali ed economici dell’intera
costruzione dell’UME, quest’ultima voluta non tanto dal capitale europeo
quanto dallo Stato francese. Detto questo la vostra domanda contiene
delle affermazioni che a mio avviso richiedono delle precisazioni
critiche. Non capisco che importanza abbia il risparmio privato che
nell’insieme è sempre determinato dal volume degli investimenti.
In Italia il risparmio delle famiglie – al 3,6% del reddito
disponibile secondo l’ultimo Economic Outlook dell’OCSE – è crollato per
via della crisi aggravata dalle politiche di austerità e, quindi, per
via del connesso calo degli investimenti. Inoltre vorrei sottolineare
che non si può tornare a Keynes perchè a Keynes non ci si è mai arrivati
se non attraverso il “KEYNESISMO MILITARE” del periodo 1947-71 o forse
47-74. Infine con o senza riferimento a Keynes, anche dopo la fine di
Bretton Woods gli Usa non hanno mai abbandonato una politica fiscale
attiva finalizzata agli obiettivi dei gruppi capitalistici che, di volta
in volta, controllano il governo. Durante Bush il Piccolo, la
presidenza USA non ha mai posto un veto alle proposte di espansione
della spesa federale inoltrate dai repubblicani. Tutte queste spese
hanno avuto sì degli effetti “keynesiani”, soprattutto l’ulteriore
militarizzazione lanciata da Reagan, ma non vennero effettuate con
obiettivi keynesiani di piena occupazione. Servono però a dimostrare che
le idee secondo cui il neoliberismo ha implicato meno Stato, meno spesa
pubblica, e più mercato sono sbagliate.
C’è stato più Stato e più capitale privato. L’attuale opposizione
alla spesa da parte degli stessi repubblicani è volta solo a bloccare il
funzionamento della presidenza Obama. E’ semplice sabotaggio. A Keynes
non si può ritornare perchè non ci si è mai arrivati, nè ci si arriverà.
Lo predisse Keynes stesso in un articolo apparso sulla rivista
americana The New Republic nel 1940. Keynes sostenne che le
democrazie liberali non avrebbero mai accettato di aumentare la spesa
pubblica ad un livello tale da poter convalidare la sua concezione
dell’economia. Nei fatti questo livello venne però raggiunto e superato,
ma grazie al pilastro rappresentato dal Keynesismo miltare. Oggi non è
questione di andare oltre Keynes né di ritornarci dato che le
probabilità di un ampio consenso sociale interclassista intorno alle
politiche dette keynesiane si allontana sempre di più a meno che non
sorgano delle esigenze militari globali che coinvolgano sia gli USA che
l’Europa e l’Asia capitalistica. Allo stato attuale la crisi ha
allontanato ulteriormente la possibilità di un compromesso
interclassista keyensiano. Non ci credono gli imprenditori, non ci
credono i think tanks, non ci credono politici e banchieri centrali ecc;
mentre il lavoro dipendente, il precariato ed i disoccupati non hanno
espressioni politiche coerenti rilevanti nell’ambito degli schieramenti
parlamentari. Di fronte a ciò abbiamo la concreta prospettiva di un
massiccio voto operaio a formazioni di destra come nel caso del Front
National in Francia.
4) De facto per i Paesi che oggi condividono la moneta unica
essa rappresenta una sorta di “nuovo gold standard”, in quanto tra loro
ci sono dei tassi di cambio fissi. Alla luce di ciò Lei crede che
un’eventuale rottura dell’Euro, e quindi un ritorno ad un cambio
flessibile, possa garantire uno spazio fiscale di manovra maggiore
rispetto all’odierno assetto europeo? Quali sono i vantaggi di un cambio
flessibile rispetto ad uno fisso?
Non capisco questa fascinazione per le
supposte virtù curative dei cambi flessibili. L’horror story dell’euro
non risiede nell’impossibilità di svalutare o rivalutare. Nel 1953
Milton Friedman scrisse un lungo saggio apparso nel volume Essays on Positive Economics,
in cui egli elogiava i cambi flessibili in quanto avrebbero permesso di
raggiungere l’equilibrio esterno anche laddove i prezzi interni a
ciascun paese rimanevano rigidi. Su questa base teorica i cambi
flessibili vanno benissimo, essendo l’unico strumento per poter
sostenere degli shock provenienti dall’estero. Infatti le virtù
miracolose dei cambi flessibili consistono nel raggiungimento di
situazioni ottimali di equilibrio sul piano esterno malgrado le rigidità
dei prezzi interni. Aria assolutamente fritta! Così come è aria fritta
la concezione di zone monetarie ottimali all’interno delle quali
dovrebbero operare tutte le ottimalità paretiane.
Se si applicasse rigorosamente la definizione di zona monetaria
ottimale si constaterebbe che la stragrande maggioranza delle monete
esistenti non appartiene ad alcuna zona ottimale. Il fatto che gran
parte degli economisti di sinistra accetti la visione Friedman-Mundell
(iper-neoclassica quindi) del ruolo dei cambi e delle zone monetarie
risiede nel fatto che anche questi economisti procedono da modellucci
normativi aprioristici senza economia politica. Consiglierei di
ritornare indietro di una settantina di anni e studiare le
argomentazioni CONTRO i cambi flessibili che vennero usate per costruire
il sistema di Bretton Woods. A mio avviso su questo terreno ha valore
l’affermazione di Lenin riguardo il secolare scontro tra libero scambio e
protezionismo. Nè l’uno nè l’altro sostenne Lenin, bensì monopolio
statale sul commercio estero. Mutatis mutandis il discorso vale anche
per il sistema monetario ed i relativi cambi esteri. Esattamente come il
ruolo della Banca Centrale non può essere indipendente, anche la
dinamica dei cambi deve essere subordinata alle priorità delle politiche
economiche.
In nessun modo ciò è attuabile nell’UE-UME. Qui però le cose
diventano molto più complicate perchè non si sa dove si andrà a finire;
esattamente come non si sa quale sarà l’effetto di un cambiamento dei
prezzi relativi sulla distribuzione del reddito, sulla scelta delle
tecniche ecc. Cose che la teorie economiche hanno, in negativo,
sceverato con successo. In altri termini, le complicazioni emergono dal
fatto che non ci sono teorie che ci dicano se il tasso cambio (o anche
il tasso di interesse, o i prezzi relativi) aumenta succederà questo e
quest’altro, se invece si abbassa succederà x,y,z. Non lo sappiamo;
pretendere altrimenti è millantare. Ogni situazione deve essere studiata
caso per caso senza partire da ipotesi comportamentali o da relazioni
tecniche aprioristiche.
5) In tema di occupazione una proposta degli economisti della
Modern Money Theory è rappresentata dalle politiche di “job guarantee”
(lavoro garantito), in cui lo Stato, come finanziatore diretto, diviene
datore di lavoro di ultima istanza (ELR). La trova auspicabile tale
proposta? Pensa possa essere suscettibile di ulteriori miglioramenti?
Non do molta importanza a quella proposta. Quando venne lanciata
circa 15 anni fa partecipai con Peter Krielser ad un dibattito sui suoi
eventuali meriti e demeriti. Studiando la forma concreta della proposta
avanzata da Randall Wray ci trovammo in sostanziale disaccordo con lui.
In primis, subordina il lavoro ad una specie di militarizzazione civile.
Facemmo l’esempio dell’Arbeiter Front (Fronte del Lavoro) del regime
nazista. Inoltre la proposta non si focalizza sull’investimento.
Sostenemmo che con la disoccupazione di massa sono gli investimenti a
dover essere programmati, non la regimentazione del lavoro (WP – 2001/02
“Political Aspects of Buffer Stock Employment”
- Peter Kriesler and Joseph Halevi). Data la precaria posizione dei
sindacati di oggi – sono pessimi organismi, spesso corrotti ed imboscati
nei meandri della politica, però sono necessari: senza di loro, come
argomentò un grande economista matematico metà neoclassico e metà
marxiano, Michio Morishima, la società capitalistica tenderebbe verso la
schiavitù – l’ELR può diventare un’arma a doppio taglio.
Comunque se oggi si vuole ascrivere allo Stato un ruolo di datore di
lavoro, dovrebbe essere quello di datore di lavoro di prima istanza. Le
società europee stanno tendendo verso la piena disoccupazione e
precarizzazione. Il toro lo si può affrontare solo prendendolo per le
corna: organizzare lotte con idee chiare in testa: cioè la
socializzazione pianificata degli investimenti (su questo c’è un bel
saggio di Bellofiore, purtroppo appena pubblicato sulla rivista di
Bertinotti, ossia di un politico non assolvibile che ha fatto danni
irreparabili alla sinistra) e, necessariamente, per delle politiche
monetarie e fiscali subordinate a quest’obiettivo. Tuttavia per queste
lotte non ci sono le condizioni. In Italia la formazione di tali
condizioni deve passare per una radicale trasformazione della CGIL e per
la dissoluzione del PD. I nuovi quadri dovranno inoltre essere
altamente preparati sui temi economici di cui abbiamo discusso.
Impossibile.
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