L'esito del referendum ripropone il puzzle ucraino nella sua
complessità. E, mentre scriviamo, ecco le ombre di un confronto che
rischia di essere armato, tra annunci di Kiev all’«uso della forza» per
rispondere a gravi incidenti bellici alla frontiera.
È un puzzle con due piste, e ambedue portano al tempo che fu. La
prima, tanto a cuore ai mass media occidentali, è il ritorno alla
guerra fredda. La responsabilità è di Putin, il quale vuole
ricostituire l’impero sovietico e annettersi popoli e terre, persi
per colpa di Gorbachev e di Yeltsin. Usando il rubinetto del gas
dapprima e poi chissà persino le armi. In Georgia lo ha fatto con
successo. E altrettanto nel Caucaso. E perché no in Ucraina,
cominciando dalla Crimea? È difficile capire sino a che punto
credano a una tale lettura i politici che contano – Obama, Merkel,
Xi –. Il vecchio Kissinger no: per lui Putin è uno statista
politico con una strategia che ha il consenso del paese. Il leader
russo vuole uno stato-nazione, riconosciuto come la nuova potente
Russia. Per lui non deve più accadere come nel primo decennio dalla
fine dell’Urss, quando l’America e l’Europa si presero con l’avversario
sconfitto, mille soddisfazioni in politica interna e in politica
estera.
Dopo 74 anni di paure si erano convinte che la Russia era un paese
«finito», con la sua economia in macerie, con un governo e uno stato,
irrimediabilmente corrotti. Un paese che dipendeva
finanziariamente dalle organizzazioni internazionali
e politicamente e culturalmente accettava lezioni da chi l’aveva
vinto.
Putin ha rotto questo schema con politiche e comportamenti
pubblici e privati, universalmente criticati all’estero. Che la
Russia, l’ex impero zarista, l’ex Unione delle repubbliche
socialiste sovietiche, torni a contare sulla scena
internazionale è un imprevisto calato sugli equilibri post 1989,
per colpa di una ex spia sovietica che si crede un novello
Metternich. Politici e grandi opinionisti Usa chiedono a Obama di
punirlo (to punish), mentre al presente Merkel sta
verificando le difficoltà di tener in piedi le due politiche
parallele della Germania unificata. Da un lato l’intesa
commerciale con Putin e dall’altro l’egemonia sulle economie dei
paesi dell’ex Patto di Varsavia. E dunque a braccetto
contemporaneamente con la Polonia e con la Russia. La sfida di
Putin sulla Crimea è un sasso su tale status quo.
Innanzitutto sono più chiari i giochi che da tempo si fanno sulla
pelle degli ucraini. Il loro paese in crisi non fa gola all’Unione
Europea. Bruxelles e il Fondo Monetario tremano all’ipotesi di
doversene fare carico e infatti sino a ieri si sono spesi in lusinghe
solo verbali. Oggi il confronto politico li obbliga a promettere
soldi, nella stessa quantità offerta da Putin, ma legati alle solite
ristrutturazioni radicali.
Come è successo agli altri paesi est europei: messi in salvo dalla
gestione sovietica e subito calati in quella neoliberista.
L’effetto è lacrime e sangue per buona parte degli abitanti e grandi
fortune per le élite finanziare transnazionali. Se il braccio di
ferro con la Russia si risolverà con Putin nell’angolo, allora per
l’Ucraina finirà il limbo. È un limbo che dura dal distacco da Mosca, da
quando un paese di 46 milioni di abitanti, superindustrializzato,
con una ricca agricoltura e soprattutto un retaggio culturale
e religioso, non è riuscita a farsi stato.
È rimasto un territorio di conquista degli ex direttori dei
grandi kombinat sovietici, gli oligarchi che lo governano. Il più
noto è una donna, Yulia Abramovic Timoshenko, la zarina del gas, così
brava che processata per un suo ambiguo business con Putin, in
prigione si è dichiarata vittima della lotta per l’indipendenza dalla
Russia. In tal senso è ormai un’icona universale, con la treccia
bionda delle contadine ucraine anni trenta: un vero colpo di genio
della comunicazione da parte sua che è un ingegnere di etnia
ebraica, di cultura urbana, esperta di mille traffici politici ed
economici. E che ha imparato l’ucraino giusto al tramonto
dell’Urss.
L’altra pista del puzzle ucraino è capire appunto da dove vengono
storie simili. Io ho imparato il russo da Valia, un’ucraina della
Galizia che a casa parlava polacco, e non conosceva la lingua
ucraina «tanto non serve impararla». Le vicende allora apprese non da
libri ma nel modo più domestico, mi aiutano a capire quelle di oggi.
Valia raccontava del collaborazionismo degli ucraini, che per
essi era una vendetta nei riguardi dei bolscevichi ebrei del
Cremlino, come Lazar Kaganovic, un ex ciabattino ebreo, massimo
responsabile della guerra ai contadini e della carestia.
Raccontava di quanto venerato fosse l’ultra nazionalista Stepan
Bandera, che appoggiava i tedeschi, e di quello che era successo ai
tatari, deportati nel dopo guerra perché erano per i turchi. E infine
vi era la Crimea, più bella di Capri, piena di ebrei, i quali avevano
addirittura sperato di farne la loro repubblica, «un focolare
ebraico». Anche per questo Kruschev l’aveva regalata agli ucraini,
antisemiti come lui che era un minatore ucraino e ucraino era anche
Brezhnev, un operaio che aveva industrializzato la sua terra,
strappandola al destino di granaio della Russia. Da trenta anni
l’Urss era governata da dirigenti ucraini e Valia che parlava
nell’ultimissimo periodo di Brezhev, non sapeva che un altro ucraino,
Chernenko stava per diventare segretario del Pcus.
Valia raccontava della sua terra, di Kiev dove viveva, degli
ucraini tenacemente anticomunisti e degli ebrei ucraini che vi
vivevano da secoli, con una lucidità che sorprendeva in un
intellettuale sovietica dell’epoca.
È la medesima lucidità delle analisi di Haaretz, il solo
giornale (israeliano) che descrive il puzzle ucraino senza le
ipocrisie degli altri. Certo lo fa perché preoccupato dalle
aggressioni agli ebrei da parte di membri di partiti ultra
nazionalisti, ora al governo e ricevuti alla Casa Bianca.
L’avversione per la Russia di Putin è tale da sostenere i suoi
avversari comunque siano. E invece la mossa utile per tutti
i contendenti è quella di ridiscutere gli anni successivi alla
fine dell’Unione sovietica e riconoscere gli errori commessi allora
da tutti i contendenti.
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