di Monica Montella e Franco Mostacci, ricercatori Istatwww.economiaepolitica.it
I Conti nazionali annuali dell’Istat costringono a tracciare uno scenario macroeconomico e di finanza pubblica tutt’altro che ottimistico.
Alla fine del 2013, rispetto al 2008, il Pil
al netto delle imposte indirette (il cosiddetto valore aggiunto ai
prezzi base) è diminuito del 6,9%. La caduta ha tra le sue cause il
crollo degli investimenti fissi lordi, che in cinque anni si sono
ridotti di 74 miliardi e la diminuzione dei consumi delle famiglie,
che si sono ridotti di quasi 60 miliardi di euro. L’effetto di tutto
ciò è stato un peggioramento delle condizioni di vita di gran parte
della popolazione italiana: in cinque anni si è avuta una contrazione
delle unità di lavoro del 6,6%, mentre i redditi dei lavoratori
dipendenti sono cresciuti soltanto dell’1,2% in termini nominali,
riducendosi in termini reali*.
Se diamo uno sguardo ai dati di finanza pubblica
il quadro è ancora più deludente. La spesa per prestazioni sociali in
denaro cresce in 5 anni di 42 miliardi di euro, ma nel frattempo
rinunciamo a 8 miliardi di euro di investimenti pubblici e ad
altrettanti di contributi agli investimenti privati. Nel contempo le
entrate sono cresciute di 19 miliardi di euro con un incremento di 10
miliardi delle imposte indirette. Tra il 2009 e il 2013 sono stati
pagati 389 miliardi di euro di interessi passivi, ed il debito pubblico è aumentato di altrettanto, raggiungendo la cifra record di 2.069 miliardi di euro a fine 2013.
È chiaro che, dato questo quadro macroeconomico complessivo, se l’Italia volesse effettivamente ricondurre il rapporto debito-Pil verso valori vicini a quelli richiesti dal Fiscal Compact,
potrebbe riuscire a farlo solo crescendo a tassi elevati – a differenza
che negli ultimi anni. E tra gli elementi che potrebbero concorrere a
ciò non potrebbe non esservi una grande ripresa degli investimenti
pubblici – in particolare in settori strategici, che rappresentano il
volano della crescita.
Così, tra le priorità per l’Italia (in linea con l’Agenda Digitale europea) c’è lo sviluppo dei servizi digitali, la cui realizzazione richiede investimenti sulle infrastrutture a banda larga e ultra larga.
Lo sviluppo tecnologico è un aspetto prioritario che il nostro Paese
non può più rimandare, per raggiungere l’obiettivo strategico di
garantire la connessione veloce a internet per tutti attraverso le reti
di nuova generazione (anche a quel 10% di popolazione che oggi non è
raggiunta) e consentire di sviluppare una cultura informatica diffusa.
Lo sviluppo della banda larga permette di accelerare sui servizi
digitali (e-government) e sul piano di digitalizzazione dei processi, garantendo anche alle imprese la riduzione del digital divide,
per porle in una condizione di sana ed efficiente competizione nei
processi produttivi, anche in un’ottica di una maggiore produttività.
Fondamentale per l’Italia è favorire quindi la riqualificazione dei
settori tradizionali attraverso l’impiego di tecnologie innovative.
Anche gli investimenti nella green economy, oltre ad avere un valore etico, potrebbero offrire un pay back superiore alle spese effettuate. Secondo lo studio Smart Energy Project di Confindustria,
se l’Italia desse avvio a politiche nazionali più incisive
sull’efficienza energetica da qui al 2020 si potrebbe avere una crescita
annuale della produzione industriale italiana di oltre 65 miliardi di
euro (circa mezzo punto di Pil), creando 500mila posti di lavoro.
Un’altra priorità è la tutela e valorizzazione del patrimonio naturale
(ad esempio attraverso la riduzione del rischio idrogeologico e messa
in sicurezza del territorio) e culturale (una ricchezza unica al mondo
mal sfruttata), con il vantaggio dell’effetto trainante del turismo
sugli altri settori ad esso collegati come il commercio, i trasporti, i
servizi di alloggio e ristorazione e tutto l’indotto legato alle
attività artistiche, di intrattenimento e divertimento (che nel 2013
rappresentano solo il 3% del valore aggiunto).
Un contributo agli investimenti in questi settori potrebbe venire dai fondi europei 2014-2020,
il cui cofinanziamento italiano potrebbe generare quelle risorse
aggiuntive che, se colte senza indugio, ed usate in modo efficiente
investendo nei settori ad alto valore aggiunto, potrebbero contribuire
alla ripresa dell’occupazione nel nostro Paese. Tali
risorse potrebbero essere utilizzate anche per innovare la nostra rete
di trasporti, il che potrebbe rappresentare un ulteriore supporto al
settore del turismo.
Le politiche di austerity
fin qui attuate non hanno raggiunto l’obiettivo di risanare e mettere
in sicurezza i conti pubblici, e al tempo stesso hanno pesantemente
eroso la competitività delle imprese italiane e depresso la domanda
interna (per gli effetti negativi sui redditi delle famiglie). Le
proposte sopra dette per un piano di rilancio degli investimenti, mirato
allo sviluppo di infrastrutture tecnologiche e in settori strategici ad
alto valore aggiunto, potrebbero modificare questo quadro ma sarebbe quanto meno necessario lo scorporo degli investimenti pubblici dalla contabilità dei disavanzi e del debito. C’è da chiedersi, però, se l’attuale classe politica sia pronta e capace a promuovere un rilancio di questo tipo.
*Per approfondimenti si rinvia alla versione completa dell’articolo apparsa su www.economiaepolitica.it
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