Domenica 16 marzo, in occasione della riunione del Comitato Centrale,
ho rassegnato le dimissioni dalla segreteria nazionale del PdCI: con
altri cinque compagni ho votato contro la mozione relativa alle elezioni
europee, poi approvata.
Bene avevano visto fin dal titolo, per certi versi profetico – «Per non morire di tattica», i quattro dirigenti della FGCI che già lo scorso settembre prefiguravano lo scenario in cui si dibatte oggi il PdCI: non sono mancate infatti le «alchimie politiciste», è mancato il «progetto politico». Eppure la massima espressione della vita democratica di un Partito – il Congresso – aveva definito alcuni elementi di fondo dello stesso. Vi erano certamente delle ambiguità in quel documento congressuale, ragione per le quali unitamente ad altri compagni avevamo presentato degli emendamenti, ma non vi è dubbio che oltre quel seminato vi era solo avventurismo e spontaneismo.
Recita il documento congressuale approvato: «Il nostro orientamento deve dunque concentrarsi sulla costruzione di uno schieramento unitario a sinistra, con un programma avanzato, che poi valuterà autonomamente come rapportarsi alle contraddizioni interne e all’evoluzione di altre forze. Rispetto all’orientamento del congresso precedente, emerge dunque la centralità dell’impegno sui temi dell’autonomia comunista e dell’unità della sinistra». Ancora: «Non ci nascondiamo le difficoltà che si frappongono alla costruzione di un Frente amplio di queste forze, ma non vediamo altra alternativa che non sia quella di una ulteriore deriva, marginalizzazione o subalternità della sinistra italiana. Vanno tenute insieme in questo fronte, su un programma minimo condiviso, sia le componenti anti-liberiste che quelle più marcatamente anti-capitalistiche, senza che nessuno (e tanto meno i comunisti) rinunci alla sua autonomia e identità. Ponendo l’accento, nelle lotte, su ciò che unisce piuttosto che su ciò che distingue: questo ci chiedono i lavoratori e i gruppi sociali che cerchiamo di rappresentare». E poi ancora e soprattutto: «la ricostruzione comunista non può ridursi allo sterile arroccamento autoreferenziale e gruppuscolare, alla sola proclamazione di principi, ma deve sapersi tradurre in azione politica quotidiana tra le masse, sulla base di un programma e di un progetto unitario a sinistra». Ed infine: «Sappiamo che non esistono scorciatoie, e che la via maestra è quella del recupero lento, paziente, di un radicamento sociale che in questi ultimi decenni è andato perduto, e che possiamo ricostruire solo nel quadro di un largo schieramento sociale e politico delle forze della sinistra, e con gruppi dirigenti nazionali e territoriali all’altezza dei compiti attuali».
Si tenga presente che chi scrive ha avuto molto da eccepire su questo documento ma ad esso, come dovrebbe essere per chiunque altro, è vincolato. Non si dica che siano mancate sollecitazioni a perseguire questa strada, a rendere esecutive le suddette direttive, ad adoperarsi fattivamente in questa direzione.
Bene avevano visto fin dal titolo, per certi versi profetico – «Per non morire di tattica», i quattro dirigenti della FGCI che già lo scorso settembre prefiguravano lo scenario in cui si dibatte oggi il PdCI: non sono mancate infatti le «alchimie politiciste», è mancato il «progetto politico». Eppure la massima espressione della vita democratica di un Partito – il Congresso – aveva definito alcuni elementi di fondo dello stesso. Vi erano certamente delle ambiguità in quel documento congressuale, ragione per le quali unitamente ad altri compagni avevamo presentato degli emendamenti, ma non vi è dubbio che oltre quel seminato vi era solo avventurismo e spontaneismo.
Recita il documento congressuale approvato: «Il nostro orientamento deve dunque concentrarsi sulla costruzione di uno schieramento unitario a sinistra, con un programma avanzato, che poi valuterà autonomamente come rapportarsi alle contraddizioni interne e all’evoluzione di altre forze. Rispetto all’orientamento del congresso precedente, emerge dunque la centralità dell’impegno sui temi dell’autonomia comunista e dell’unità della sinistra». Ancora: «Non ci nascondiamo le difficoltà che si frappongono alla costruzione di un Frente amplio di queste forze, ma non vediamo altra alternativa che non sia quella di una ulteriore deriva, marginalizzazione o subalternità della sinistra italiana. Vanno tenute insieme in questo fronte, su un programma minimo condiviso, sia le componenti anti-liberiste che quelle più marcatamente anti-capitalistiche, senza che nessuno (e tanto meno i comunisti) rinunci alla sua autonomia e identità. Ponendo l’accento, nelle lotte, su ciò che unisce piuttosto che su ciò che distingue: questo ci chiedono i lavoratori e i gruppi sociali che cerchiamo di rappresentare». E poi ancora e soprattutto: «la ricostruzione comunista non può ridursi allo sterile arroccamento autoreferenziale e gruppuscolare, alla sola proclamazione di principi, ma deve sapersi tradurre in azione politica quotidiana tra le masse, sulla base di un programma e di un progetto unitario a sinistra». Ed infine: «Sappiamo che non esistono scorciatoie, e che la via maestra è quella del recupero lento, paziente, di un radicamento sociale che in questi ultimi decenni è andato perduto, e che possiamo ricostruire solo nel quadro di un largo schieramento sociale e politico delle forze della sinistra, e con gruppi dirigenti nazionali e territoriali all’altezza dei compiti attuali».
Si tenga presente che chi scrive ha avuto molto da eccepire su questo documento ma ad esso, come dovrebbe essere per chiunque altro, è vincolato. Non si dica che siano mancate sollecitazioni a perseguire questa strada, a rendere esecutive le suddette direttive, ad adoperarsi fattivamente in questa direzione.
La nostra condotta di questi mesi è sintetizzabile invece nella
parola attesa. Nei primi mesi dopo l’estate di fronte alla proposta del
PRC di candidare Tsipras presidente della Commissione Europea si avevano
davanti due strade: o aprire ad un percorso che speditamente andasse in
quella direzione o aprire un percorso alternativo. Si è riusciti a non
percorrere né l’una né l’altra strada. Complice il Congresso del PRC che
ha paralizzato anche quel partito, il PdCI è rimasto fermo non
lesinando critiche al moderatismo di Tsipras – reo di essere un
socialdemocratico, oh che bella scoperta! Concluso il congresso del PRC,
il PdCI ha aperto un cantiere con l’area di Essere Comunisti, Patta e
Salvi per costruire l’associazione «Sinistra per il lavoro».
Un’associazione, di cui si può probabilmente parlare al passato, le cui
finalità erano variamente interpretate dai singoli promotori.
Semplificando: per Patta era la gamba sinistra del centrosinistra, per
Grassi il nucleo della Linke italiana, per il PdCI il Fronte della
sinistra e l’unità dei comunisti. (L’intento degli emendamenti
presentati al congresso, nel nome della chiarezza
politico-programmatica, era proprio evitare di ritrovarsi in contesti di
questo genere). Di tale associazione, su cui ho esplicitamente espresso
perplessità circa natura e funzione, non si è sentito neanche il
vagito: ci saremmo trovati di fronte alle solite ambiguità sul Pd, sul
centro-sinistra e sull’unità dei comunisti, che nel documento fondativo
l’associazione non veniva nemmeno menzionata. Nell’attesa del congresso
di SEL, di cui si ricorda il giubilo di alcuni compagni alla notizia
della vittoria di Fratoianni, l’iniziativa è stata presa dagli ormai
famosi sei “garanti” che con dieci articoli ed un appello hanno sfilato
la lista al PRC e con esso a tutti coloro, come anche il PdCI, che
avevano il dovere di costruire un percorso credibile. La natura e le
caratteristiche della lista, che potenzialmente potevano rappresentare
la ripresa dell’iniziativa dei comunisti e della sinistra, ne sono
risultate stravolte.
Nel dibattito, prodottosi contestualmente, il PdCI ha assunto una posizione molto morbida sulle caratteristiche programmatiche e politiche della lista Tsipras così come sulla collocazione degli eletti nel GUE, evidenziando quindi una subalternità a SeL in modo particolare. A chi come me, o come altri compagni, poneva le suddette questioni si replicava che eravamo affetti da «minoritarismo», che inserire troppi paletti politici rischiava di produrre uno scenario politico con due o tre liste a sinistra del Pd: un suicidio per tutti, ci veniva detto. Un anatema grottesco col senno di poi. Pur di far “parte della partita” ci si è dunque schiacciati sulle posizioni più moderate della lista.
Nel dibattito, prodottosi contestualmente, il PdCI ha assunto una posizione molto morbida sulle caratteristiche programmatiche e politiche della lista Tsipras così come sulla collocazione degli eletti nel GUE, evidenziando quindi una subalternità a SeL in modo particolare. A chi come me, o come altri compagni, poneva le suddette questioni si replicava che eravamo affetti da «minoritarismo», che inserire troppi paletti politici rischiava di produrre uno scenario politico con due o tre liste a sinistra del Pd: un suicidio per tutti, ci veniva detto. Un anatema grottesco col senno di poi. Pur di far “parte della partita” ci si è dunque schiacciati sulle posizioni più moderate della lista.
La conduzione, diciamo, superficiale delle trattative ha determinato
l’esclusione dei compagni indicati dal PdCI, ad eccezione di Alleva,
dalla lista. Per essere quindi più precisi si può dire che alla volontà
dei cosiddetti “garanti” di emarginare il PdCI, come in generale tutte
le forze politiche, è corrisposta l’assoluta assenza di iniziativa da
parte nostra.
La levata di scudi identitaria suscitata ad arte con roboanti dichiarazioni di guerra ai garanti – i cui curricula erano noti anche ai sassi – a Ferrero e a Grassi, ha contraddistinto il dibattito politico interno al PdCI delle ultime settimane. I toni da propaganda, sopito il clamore ed esaminato lucidamente il quadro, non rimuovono né occultano le suddette responsabilità. In sette mesi, infatti, si è cambiata per tre volte linea: dal no a Tsipras, si è passati al sì per poi nuovamente rinculare sul no. Il profilo ed i limiti politici della lista Tsipras sono rimasti invece immutati. Sarebbe dunque lecito domandarsi le ragioni per le quali non abbiamo posto, al momento opportuno, a Tsipras, ai garanti e ai soggetti coi quali si andava costruendo questo percorso, i rilievi che oggi avanziamo, con grandissima determinazione, circa il programma, la collocazione, il simbolo ed il grado di democrazia interna della lista Tsipras per le europee.
Fa riflettere, da ultimo, la mozione approvata all’ultimo Comitato Centrale. Giuridicamente, infatti, come ho provato a spiegare nel mio intervento, presentare una lista per le elezioni europee attraverso un qualche escamotage tecnico è quasi impossibile. Il punto politico, a mio avviso, è tuttavia un altro: cosa si vuole dimostrare presentando una siffatta lista? Una scelta del genere o veniva fatta a monte, a settembre per intenderci, in ragione di una valutazione politica d’insieme e all’interno di un quadro tattico definito, evitando dunque i balletti politici di cui sopra, o non ha alcun senso. Ciò che si poteva fare, giunti a questo punto, era utilizzare la campagna elettorale per provare, sulla base del proprio punto di vista sull’Europa, ad uscire dall’isolamento, discutendo e scegliendo la strada da percorrere. Non si è scelto nulla di tutto ciò. Tra qualche giorno si rischia quindi di dover cambiare nuovamente orientamento in ragione delle difficoltà giuridiche a presentare una lista senza raccogliere le firme. Si rischia cioè di tornare nuovamente sui propri passi.
La levata di scudi identitaria suscitata ad arte con roboanti dichiarazioni di guerra ai garanti – i cui curricula erano noti anche ai sassi – a Ferrero e a Grassi, ha contraddistinto il dibattito politico interno al PdCI delle ultime settimane. I toni da propaganda, sopito il clamore ed esaminato lucidamente il quadro, non rimuovono né occultano le suddette responsabilità. In sette mesi, infatti, si è cambiata per tre volte linea: dal no a Tsipras, si è passati al sì per poi nuovamente rinculare sul no. Il profilo ed i limiti politici della lista Tsipras sono rimasti invece immutati. Sarebbe dunque lecito domandarsi le ragioni per le quali non abbiamo posto, al momento opportuno, a Tsipras, ai garanti e ai soggetti coi quali si andava costruendo questo percorso, i rilievi che oggi avanziamo, con grandissima determinazione, circa il programma, la collocazione, il simbolo ed il grado di democrazia interna della lista Tsipras per le europee.
Fa riflettere, da ultimo, la mozione approvata all’ultimo Comitato Centrale. Giuridicamente, infatti, come ho provato a spiegare nel mio intervento, presentare una lista per le elezioni europee attraverso un qualche escamotage tecnico è quasi impossibile. Il punto politico, a mio avviso, è tuttavia un altro: cosa si vuole dimostrare presentando una siffatta lista? Una scelta del genere o veniva fatta a monte, a settembre per intenderci, in ragione di una valutazione politica d’insieme e all’interno di un quadro tattico definito, evitando dunque i balletti politici di cui sopra, o non ha alcun senso. Ciò che si poteva fare, giunti a questo punto, era utilizzare la campagna elettorale per provare, sulla base del proprio punto di vista sull’Europa, ad uscire dall’isolamento, discutendo e scegliendo la strada da percorrere. Non si è scelto nulla di tutto ciò. Tra qualche giorno si rischia quindi di dover cambiare nuovamente orientamento in ragione delle difficoltà giuridiche a presentare una lista senza raccogliere le firme. Si rischia cioè di tornare nuovamente sui propri passi.
In conclusione il dato politico complessivo è l’isolamento: l’unità
dei comunisti così come il Fronte della Sinistra – assi programmatiche
definite al Congresso – sono per il PdCI oggi sostanzialmente
irrealizzabili; tanto alla nostra destra quanto alla nostra sinistra
siamo politicamente isolati. «La ricostruzione comunista – ammoniva
profeticamente il nostro documento congressuale – non può ridursi allo
sterile arroccamento autoreferenziale e gruppuscolare, alla sola
proclamazione di principi, ma deve sapersi tradurre in azione politica
quotidiana tra le masse, sulla base di un programma e di un progetto
unitario a sinistra».
Per il rispetto dovuto ai generosi militanti di questo Partito e ai compagni che hanno visto sfumare la loro candidatura nelle liste è necessario che ognuno si assuma le proprie responsabilità. Per quanto mi riguarda, giunti a questo punto, il tentativo fatto dopo il congresso di ricostruire l’unità del gruppo dirigente sulla base di un confronto ed un’azione condivisa si conclude qui. Per totale dissenso nella condotta del Partito con la quale si è proceduto in questi mesi rassegno le mie dimissioni dalla segreteria nazionale.
Tutto si può accettare tranne di continuare a prendersi responsabilità non proprie. Questa lettera non vuole essere un atto di accusa al Segretario Procaccini di cui ho stima e considerazione politica, ma la presa d’atto complessiva di una situazione che per me è diventata intollerabile. Il mio impegno di comunista resterà ovviamente inalterato.
Per il rispetto dovuto ai generosi militanti di questo Partito e ai compagni che hanno visto sfumare la loro candidatura nelle liste è necessario che ognuno si assuma le proprie responsabilità. Per quanto mi riguarda, giunti a questo punto, il tentativo fatto dopo il congresso di ricostruire l’unità del gruppo dirigente sulla base di un confronto ed un’azione condivisa si conclude qui. Per totale dissenso nella condotta del Partito con la quale si è proceduto in questi mesi rassegno le mie dimissioni dalla segreteria nazionale.
Tutto si può accettare tranne di continuare a prendersi responsabilità non proprie. Questa lettera non vuole essere un atto di accusa al Segretario Procaccini di cui ho stima e considerazione politica, ma la presa d’atto complessiva di una situazione che per me è diventata intollerabile. Il mio impegno di comunista resterà ovviamente inalterato.
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