A poche settimane dalla sua morte, pubblichiamo il manifesto scritto nel 2013 da STUART HALL insieme a DOREEN MASSEY e MICHAEL RUSTIN
Con
la crisi bancaria e creditizia del 2007-2008 e le sue ripercussioni in
tutto il globo, è imploso il sistema neoliberale o del capitalismo del
libero mercato, che a partire dal 1980 ha dominato il mondo per tre
decenni. Quando la dimensione del debito tossico è diventata evidente,
il credito e i prestiti interbancari si sono prosciugati, la spesa ha
rallentato, le uscite sono diminuite e la disoccupazione si è
impennata. I settori finanziari altamente inflazionati, che hanno
speculato in attività in gran parte estranee all’economia reale di beni
e servizi, hanno fatto precipitare una crisi le cui conseguenze
catastrofiche si stanno ancora dispiegando.
Crediamo che il dibattito politico mainstream semplicemente non
riconosca la profondità di questa crisi, né il conseguente bisogno di un
ripensamento radicale. Il modello economico che ha sostenuto il regime
sociale e politico degli ultimi tre decenni si sta disfacendo, ma
apparentemente resta al suo posto il più ampio consenso politico e
sociale. Proponiamo dunque questa analisi come un contributo al
dibattito, nella speranza che aiuti le persone di sinistra a pensare
maggiormente a come spostare i parametri del dibattito, passando dai
piccoli palliativi e dalle misure restaurative all’apertura di una
strada verso una nuova era politica e a una nuova interpretazione di ciò
che costituisce la buona società[1].
Per tre decenni il sistema neoliberale ha generato grandi profitti per
le multinazionali, le istituzioni di investimento e i capitalisti di
ventura, notevoli accumulazioni di ricchezza per i nuovi super-ricchi
globali, mentre ha vistosamente accresciuto il divario tra ricchi e
poveri e ha approfondito le ineguaglianze di reddito, salute e
possibilità di vita all’interno e tra i paesi, in un modo che non si
vedeva da prima della seconda guerra mondiale.
In Nord America e nell’Europa occidentale – finora motori del sistema
economico globale – i tassi di crescita sono adesso più bassi che
durante i primi decenni del dopoguerra, quando c’era perfino un
maggiore bilanciamento di potere tra le classi sociali. C’è stato un
forte calo nella produzione e una notevole espansione dei servizi
finanziari e dell’economia dei servizi, con un massiccio spostamento di
risorse dal pubblico al privato, dallo Stato al mercato. “Il mercato” è
diventato il modello delle relazioni sociali, il valore di scambio
l’unico valore. I governi occidentali si sono mostrati deboli e
indecisi nel rispondere alla crisi ambientale, al cambiamento del clima
e alla minaccia alla sostenibilità del pianeta, e si sono rifiutati di
affrontare tali questioni in termini diversi da quelli del mercato.
Allo stesso modo, la crisi finanziaria è stata utilizzata da molti
governi occidentali come uno strumento per rafforzare ulteriormente il
modello neoliberale. Hanno adottato drastiche “misure di austerity” che,
affermano, sono il solo modo per ridurre i deficit generati durante il
prospero periodo degli anni ’80 e ’90. Hanno lanciato un assalto ai
redditi, ai livelli e alle condizioni di vita dei settori più disagiati
della società. Nel Regno Unito, i tagli programmati hanno congelato i
redditi, imposto un tetto ai benefici, sbranato l’occupazione nel
settore pubblico e minato il governo locale. Il capitale privato è stato
incoraggiato a erodere il welfare state e smantellare le strutture
sanitarie, il welfare e i servizi formativi. L’onere di “risolvere” la
crisi è stato pesantemente scaricato sui lavoratori, bersagliando i
gruppi vulnerabili e marginalizzati. Questi includono le persone a basso
reddito e le famiglie con un solo genitore, i bambini in povertà, le
donne che si destreggiano tra impieghi part-time e molteplici
responsabilità domestiche, i pensionati, i disabili e i malati di mente,
coloro che dipendono dal welfare pubblico e dalle case popolari, i
giovani disoccupati (specialmente neri), gli studenti. Le strutture per i
giovani sono state chiuse e i cittadini che dipendono dalle strutture
pubbliche per il benessere sociale si trovano deprivati. A parte gli
effetti sociali punitivi e regressivi, si tratta di una strategia
destinata a fallire anche nei suoi termini, perché la sua principale
conseguenza sarà una pesante caduta della domanda e un collasso delle
entrate fiscali, approfondendo la spirale economica verso il basso, con
poca ricaduta sul deficit.
In altre parole, la stessa crisi è stata utilizzata per rafforzare la
redistribuzione dai poveri ai ricchi. Ha inoltre fornito l’alibi per
un’ulteriore ristrutturazione di vasta portata dello Stato e della
società lungo linee di mercato, con una serie di “riforme”
ideologicamente orientate tese a far avanzare la privatizzazione e la
mercatizzazione. Sono state incoraggiate le soluzioni private e
individualizzate ai problemi sociali. Ciò rende ancora più importante
per la sinistra sostenere che è venuto il tempo di una nuova
strutturazione morale ed economica.
Dimensioni globali del neoliberalismo
L’egemonia neoliberale, sia nei suoi fasti che nella sua crisi, ha
avuto implicazioni globali. I sistemi capitalistici dinamici ed
espansivi hanno i loro imperativi strategici e geopolitici. Il
neoliberalismo ha creato un clima favorevole agli affari in tutto il
globo. Richiede regimi fiscali leggeri, limitata interferenza statale,
accesso senza ostacoli ai mercati e alle risorse vitali. Fa appello alla
sicurezza interna, alla capacità di contenere i nemici esterni, a
governanti forti nel controllare le loro popolazioni, attraverso cui
colpire gli accordi ed esercitare influenza. Genera ostilità rispetto a
esperimenti più democratici e alternativi. Questi principi hanno
indirizzato le strategie e sostenuto la rete di alleanze, blocchi e basi
costruite dall’Occidente, guidato dagli Stati Uniti. Il Medio Oriente
dimostra chiaramente che mantenere condizioni generalmente favorevoli
di operazione – fissando le sfere di influenza (alleanza tra Stati
Uniti e Israele), gestendo le sfide militari (Iran, Pakistan),
reprimendo l’instabilità politica (il Corno d’Africa) e sconfiggendo le
minacce (talebani, Al-Qaeda, Afganistan) – è un tentativo di
conquistare specifiche risorse, come il petrolio (Iraq, stati del
Golfo).
Il particolare carattere globale del neoliberalismo è stato parte del
suo iniziale armamentario – per esempio attraverso il Washington
Consensus a partire dagli anni ’80 – e anche un elemento della sua
specificità storica. È una globalizzazione in cui è cruciale una nuova
forma di imperialismo finanziario (Londra è stata centrale nella sua
invenzione e disseminazione), e in cui una dinamica chiave è stata una
ricerca planetaria di nuove attività in cui speculare (per esempio
attraverso l’esportazione dei programmi di privatizzazione, la spirale
dei mercati dei future sulle materie prime, l’acquisto di vaste aree di terra).
Ma il neoliberalismo non ha mai conquistato tutto. Ha operato dentro,
e creato, un mondo di grande diversità e disuguaglianza. Il suo primo e
classico laboratorio è stato il Cile, ma l’ascesa delle tigri del
sud-est asiatico è stato, in modo critico, uno sviluppo aiutato dallo
Stato (per niente ricetta ufficiale neoliberale). Nonostante il
trionfalismo occidentale del 1989, anche la Russia ha mantenuto le sue
specificità, un ibrido di capitalismo oligarchico e statale combinato
con l’autoritarismo. Anche la Cina lotta per definire un modello
differente; attualmente combina un controllo centralizzato del partito
con l’apertura all’investimento straniero, acute dislocazioni
geografiche interne e un diffuso conflitto sociale con tassi di crescita
vertiginosi e centinaia di milioni di poveri. Il conflitto ha quindi
fatto irruzione in molte parti del mondo in cui l’ortodossia neoliberale
è stata adottata. L’India, così frequentemente lodata per aver
abbracciato il consenso di mercato, esibisce straordinarie rotture tra
le nuove elite e gli impoveriti, così come molteplici e persistenti
conflitti sulla sua attuale strategia economica. Altri ambiti maggiori
di conflitto sono stati le guerre per l’acqua e il gas in Bolivia e le
lotte dei poveri in Tailandia. Le emergenti articolazioni dei governi
progressisti e dei movimenti sociali dal basso in America Latina sono,
in vari modi e a diversi livelli, risposte all’impatto delle precedenti
politiche neoliberali. Il movimento alter-globalista è stato chiaro.
Non è stata una semplice vittoria.
In realtà, la sua diversità e il conflitto sono stati un elemento
nell’attuale frattura del neoliberalismo. Lo sbilanciamento tra Cina e
Stati Uniti è stato sia un meccanismo centrale di complementarietà, sia
una crescente fonte di instabilità. Avendo fallito nel disegnare
un’architettura finanziaria che potesse gestire l’irregolare sviluppo
tra i paesi che la costituiscono, le potenze delle elite europee
(soprattutto la troika) tentano ora di incolpare dell’inevitabile
disastro gli stessi paesi che le costituiscono (o alcuni di essi).
Mettono così i popoli contro i popoli, provocando pericolosi
nazionalismi, mentre la colpevolezza dell’elite è efficacemente
oscurata. È un gioco di prestigio geografico che converte la frontiera
politica tra interessi economici e sociali in conflitto in una frontiera
politica tra popoli nazionali, e modella le auto-identificazioni di
quei popoli lungo linee nazionali.
Nel frattempo, e sul lungo termine, sta avvenendo uno spostamento
tettonico di potere economico verso la Cina e gli altri paesi dei Bric,
portando a una crescente fiducia e sempre più richieste di prendere
parola su scala mondiale. Il commercio, e più in generale le
conversazioni e i contatti, sempre più ignorano la regione
nordatlantica. Allo stesso tempo, mentre il numero di milionari aumenta
anche nei posti più poveri, in molti paesi – soprattutto nell’Africa
sub-sahariana – c’è un impoverimento crescente, la malnutrizione si
diffonde (in parte come risultato della speculazione sui prezzi del
cibo), crescono la devastazione ecologica e l’instabilità politica. Ci
sono battaglie sul controllo dell’energia e delle risorse minerarie. A
fronte delle schiaccianti pressioni esterne e dei vincoli imposti, i
governi non possono gestire la scarsa scolarizzazione, la fame, la
malnutrizione, la malattia e le pandemie o resistere al consumismo
occidentale, ai commercianti di armi e ai mercenari.
La “spremitura” ha innescato una crescita della violenza settaria
locale, tribale, interetnica e religiosa, delle guerre civili, dei colpi
militari, delle milizie armate, dei bambini soldato, della “pulizia
etnica” e dei genocidi; e ciò ha fatto precipitare la migrazione
transfrontaliera e internazionale, così come la fuga di civili dalle
zone di guerra, che si uniscono ai campi profughi o chiedono asilo
politico. Gli “stati falliti (o in via di fallimento)”, che gli
strateghi occidentali proclamano essere la maggiore minaccia alla
sicurezza, sono spesso la conseguenza perversa del neoliberalismo e
dell’intervento occidentale. E proprio il concetto di Stato fallito è
stato utilizzato come un’arma ideologica.
Più di recente, la risposta alla crisi da parte delle elite
nordatlantiche ha fatto cose peggiori, per esempio attraverso i suoi
effetti sui prezzi e i livelli di cambio. Il dato di fatto
dell’instabilità globale e della crisi incombente non ha per nulla
modificato l’offensiva neoliberale. Se il Cile è stato il laboratorio
della prima fase, la Grecia è diventato il laboratorio per un’ancora più
feroce implementazione, mentre la primavera araba può ancora essere
recuperata per aprire nuovi campi per le forze di mercato. E in America
Latina i recenti colpi di stato sanciti dagli Stati Uniti in Honduras e
Paraguay sono stati rapidamente seguiti da radicali concessioni al
capitale straniero.
Ideologie e conflitti
L’attuale crisi economica costituisce una fase di potenziale rottura.
L’assetto del welfare state che ha preceduto l’era neoliberale nel
mondo nordatlantico si è sbriciolato negli anni ’70 e, con la fine della
guerra fredda, il neoliberalismo thatcheriano e reaganiano ha vinto la
contesa sulla direzione da intraprendere. Questo risultato non era
inevitabile. I conflitti tra gli insediamenti sociali e la costruzione
di egemonie sono il prodotto di forze sociali in contrapposizione.
Durante l’era del welfare state, la classe operaia ha conquistato
vantaggi economici: la ricchezza è stata modestamente redistribuita,
l’eguaglianza e i diritti sociali sono diventati più radicati. Le quote
di surplus del capitale sono state significativamente erose. Ma si è
trattato di uno spostamento che non poteva essere tollerato.
L’espansione della globalizzazione nelle sue operazioni è stata in parte
(tra le sue molte determinanti, e insieme a privatizzazione e
finanziarizzazione) un mezzo per restaurare la declinante quota di
surplus del capitale. La resistenza alla “guerra sociale” thatcherista, i
conflitti sul governo democratico a Londra e in altre città, le lotte
nel Sud globale, l’ascesa di nuovi movimenti sociali, l’opposizione
alla poll tax, i conflitti sui diritti del lavoro organizzato ovunque,
tutte queste cose hanno costituito fasi critiche nella lotta per
determinare cosa ne sarebbe seguito. Sono sempre state in gioco le
forze sociali impegnate nel conflitto in differenti aree della vita
sociale.
L’attuale assetto neoliberale ha anche realizzato il ripensamento
degli assunti di senso comune del precedente assetto socialdemocratico.
Per istituirsi, ogni assetto sociale si fonda sull’imposizione come
senso comune di un’intera serie di credenze, idee fuori discussione,
presupposti così profondi che solo raramente viene a galla il fatto che sono
appunto presupposti. Nel caso del neoliberalismo questo insieme di
idee si rivolge alla supposta naturalezza del “mercato”, la primazia
dell’individuo competitivo, la superiorità del privato sul pubblico.
Come risultato dell’egemonia di questo insieme di idee, il loro essere
senso comune dominante, l’assetto complessivo è comunemente chiamato
“neoliberale”. Ma mentre l’impegno della teoria economica neoliberale è
una parte decisiva del consenso globale, si dà anche il caso che la
stessa teoria giochi un ruolo cruciale nel legittimare la restaurazione e
il rinvigorimento di un regime di potere, profitto e privilegio.
Come abbiamo visto, le agende del neoliberalismo, incastonate in un
senso comune che materialmente e nell’immaginario ha arruolato intere
popolazioni in una visione del mondo finanziarizzata e mercatizzata,
sono implementate quando servono quegli interessi e sono tranquillamente
ignorate quando non lo fanno (il salvataggio delle banche è solo il
più recente e illustre esempio). Similmente, i suoi attacchi allo Stato
e alle nozioni del pubblico sono alimentate non solo dalla credenza in
una teoria economica, ma dalla speranza che condurranno alla
riapertura di aree per fare profitti attraverso la mercificazione.
Questa direzione verso l’espansione della sfera di accumulazione è
stata cruciale nel restaurare i vecchi poteri.
Origini e spiegazioni
Il neoliberalismo ha le sue origini nella teoria politica e
nell’economia politica liberale del XVIII secolo, da cui deriva le sue
pietre di paragone. È stato rinnovato e rimodellato per essere adatto a
questi tempi e a queste geografie, ed è molteplice nella forma rispetto
a queste geografie estese. Ma le sue proposizioni chiave, quelle del
libero individuo proprietario che si confronta con gli altri attraverso
le transazioni di mercato, rimangono la pietra angolare. Fin
dall’inizio queste proposizioni sono state il prodotto di interessi di
classe, nel Regno Unito del XVIII secolo quelli dell’ascesa delle
borghesie agrarie, commerciali e successivamente industriali. Il
tentativo è sempre stato di presentarsi come verità eterne, i concetti
dei mercati e degli individui sono meramente descrittivi di un ideale
stato di natura. Che non fosse così è stato dimostrato nel corso dei
secoli, così come il “libero mercato” e il libero individuo hanno
dovuto essere prodotti e imposti. Attraverso le leggi della recinzione,
le imposizioni degli “aggiustamenti strutturali”, gli interventi
militari o gli attacchi alla spesa pubblica, le società di mercato sono
i prodotti dell’intervento (e spesso degli stati).
Che le forze di mercato siano imposte su alcuni ma non su altri è
stato vero fin da quando i regimi del “lavoro libero” delle metropoli
coloniali sono stati forgiati dal sistema imperiale con il “lavoro
forzato” della schiavitù nelle piantagioni. Questa contraddizione
divenne più evidente quando tali regimi si scontrarono con le rivolte
degli schiavi e le lotte sull’Abolizione. Le forze di mercato non sono
mai universalmente imposte. Non c’è nessun sistema completamente
mercatizzato. Il capitalismo si basa sui monopoli e sui rischi
“socializzati”, e sulle sfere che esistono al di fuori delle sue
operazioni, inclusa quelle della riproduzione delle persone e del mondo
naturale. Il libero lavoro salariato è sempre stato accresciuto dalle
forme non libere di sfruttamento come la servitù, la schiavitù, la
servitù a contratto, l’asservimento personale. Questi elementi segnano i
limiti della generalizzabilità del “mercato”.
Infatti, molto di ciò che è passato attraverso la globalizzazione
negli ultimi trent’anni risuona con eventi del tardo XVIII e del XIX
secoli in Inghilterra, quando il capitalismo industriale e urbanizzato
stava trovando le sue forme. L’espulsione dalla terra di milioni di
persone nel Sud globale richiama le recinzioni dei commons. Le
grandi migrazioni nelle città in continua espansione sono come le
migrazioni all’inizio dell’industrializzazione (quelle migrazioni,
all’interno della nazione, sono state socialmente distruttive e
potenzialmente esplosive come le migrazioni tra le nazioni). In ballo è
la creazione di una nuova e vasta forza di “lavoratori liberi” con
tutte le distorsioni sociali e personali (così come le nuove libertà)
che possono comportare, e l’ulteriore mercificazione della terra e del
lavoro. La stessa migrazione internazionale (in parte come risultato di
tutti questi sviluppi e le impreviste ramificazioni geografiche che li
accompagnano) rappresenta la creazione di una libera forza lavoro
globale – proprio come l’età degli swing riot e di Peterloo vide la
creazione di un mercato del lavoro nazionale in Gran Bretagna.
Nel frattempo, guardando come se fosse nella direzione opposta, dal
Regno Uniti verso l’esterno, mentre i successivi governi erano
pateticamente appesi agli Stati Uniti, la cui egemonia economica era
essa stessa sfidata dalla Cina e dagli altri Bric, la City di Londra –
ancora una volta poggiando sulla sua lunga presunzione di supremazia, ma
adesso completamente internazionalizzata e che ha origine nel
neoliberalismo – ha essa stessa trovato, almeno per un momento, un nuovo
ruolo imperiale.
Il progetto del neoliberalismo, dunque, è una riaffermazione dello
storico imperativo capitalistico del profitto, attraverso la
finanziarizzazione, la globalizzazione e l’ulteriore mercificazione.
Cause e complessità
Non è mai semplice definire cosa è una causa e cosa un effetto in
congiunture di questo tipo. Esistono legittime differenze di vedute
rispetto all’enfasi causale che dovrebbe essere attribuita a fattori
ideologici, politici e materiali, oppure il peso da assegnare all’azione
consapevole delle classi sociali rispetto agli attributi dinamici
delle strutture. Il quadro non è mai semplice. È certamente vero che
gli interessi di classe hanno giocato un ruolo attivo nell’imposizione
al mondo del neoliberalismo, e che oggi quegli interessi si rifiutano
di concedere i vantaggi relativi che hanno caratterizzato gli ultimi
trent’anni. È anche vero che le classi hanno condiviso interessi
economici, sia rispetto a specifici settori, sia a questioni generali,
per esempio il mantenimento della stabilità e di un clima favorevole
agli “affari”.
Tuttavia, lo slittamento del potere economico e sociale avvenuto a
partire dagli anni ’70 non ha conosciuto un’unica forza motrice.
L’ambito economico è cruciale, ma non può determinare ogni cosa –
neppure “in ultima istanza”, come suggerito da Althusser. Piuttosto,
ogni data congiuntura rappresenta la fusione “in un’unità di rottura” di
un insieme di fattori economici, sociali, politici e ideologici;
questo insieme fonde “correnti diverse… interessi di classe eterogenei…
lotte politiche e sociali contraddittorie”[2]. Ciò
che si è coagulato nell’attuale congiuntura neoliberale include
interessi di classe – o più generalmente sociali – nuovi quadri
istituzionali, l’esercizio di una pressione eccessiva sui processi
democratici da parte delle compagnie private, sviluppi politici quali
l’ingresso del New Labour nel neoliberal consensus, gli effetti
di ideologie legittimanti e di una credenza quasi-religiosa nella
“mano invisibile”, nonché le virtù auto-propulsive del “mercato”.
Le classi sono anche formazioni contraddistinte da composizioni
interne complesse, che cambiano nel corso del tempo. Quelle tra le quali
il neoliberalismo è diventata la tendenza dominante costituiscono oggi
una classe globale che include – accanto a strati tradizionali – gli
uomini d’affari e gli industriali di tutto il mondo, gli amministratori
delegati delle grandi multinazionali, gli operatori finanziari, i venture capitalists,
ed anche i quadri operativi che gestiscono il sistema e ripongono
enormi interessi nel suo successo. Dobbiamo anche aggiungere il
fondamentale – benché subalterno – arcipelago di consulenti, esperti di
marketing, PR, avvocati, contabili creativi e operatori fiscali le cui
fortune dipendono dalla resilienza del sistema. Non c’è dubbio che gli
immensi privilegi e immunità guadagnati da questa formazione spieghino
la sua moralità denudata, impermeabile ad ogni senso più ampio di
comunità o di responsabilità: questi individui sembrano non capire per
nulla come vive la gente comune. La loro resistenza alle riforme è stata
strenua, la loro avidità cieca. Essi si figurano in modo stravagante,
sostenendo che “si è tutti sulla stessa barca”, che il loro scopo
primario è “servire i clienti” e rispettare la “responsabilità sociale
d’impresa”, non proteggere i loro interessi.
Naturalmente, il termine interessi di classe non implica che
le classi siano entità monolitiche, che esse appaiano sul palcoscenico
politico come attori unitari, o che siano pienamente consapevoli di
questi interessi e li perseguano razionalmente. Esistono importanti
conflitti d’interesse (nel Regno Unito, per esempio, tra il capitale
finanziario e piccole imprese, tra industriali del nord e piccoli
agricoltori). Queste reali contraddizioni possono presentare delle
particolari opportunità politiche. Inoltre, gli interessi sono sempre
oggetti di conflitti ideologico-interpretativi, ed è chiaro che una loro
ridefinizione può avere effetti politici.
Va poi sottolineato che la classe economica non è l’unica divisione
sociale importante. Tanto il genere quanto le divisioni razziali,
etniche e sessuali risalgono a epoche precapitalistiche e continuano a
strutturare le relazioni sociali in modi distintivi. Esse posseggono le
loro proprie categorie binarie (maschio/femmina, maschile/femminile,
etero/omo, religioso/secolare, coloniale/metropolitano,
civile/barbarico) e figurano diversamente dalla classe nella
distribuzione dei beni sociali e simbolici (sebbene non manchi mai una
loro articolazione con la classe). Esse “gestiscono” i loro propri
sistemi di abbondanza e scarsità (pagato/non pagato,
legittimo/illegittimo, normale/anormale, salvato/dannato). Esse
posizionano diversamente i corpi dei loro soggetti lungo il continuum
Natura/Cultura. Esse “governano” differenti momenti del ciclo di vita e
a attribuiscono agli individui diverse capacità soggettive
(paterno/materno, emotivo/cognitivo, dovere/piacere).
Ognuna di queste divisioni sociali conosce luoghi di operazione
privilegiati (per esempio, casa/luogo di lavoro, privato/pubblico) e
particolari regimi disciplinari (potere patriarcale, eredità
proprietarie, lavoro domestico non pagato, controllo della sessualità,
differenze salariali basate su genere e razza). Esse dispiegano diversi
modi di oppressione (persecuzione religiosa, discriminazione sociale e
sessuale, razzializzazione). Esse costruiscono loro proprie gerarchie
di alterità e appartenenza attraverso la discriminazione, lo
stereotipo, l’insulto verbale, l’inferiorizzazione, la
marginalizzazione, l’abiezione, la feticizzazione. Quando queste
divisioni sociali operano all’interno di un sistema capitalistico, esse
vengono – naturalmente – messe in forma da esso, articolate
capitalisticamente. Esse tuttavia mantengono la loro “autonomia
relativa”. Ciò ci impone di pensare le relazioni sociali da un diverso
angolo visuale (per esempio, riconcettualizzando lo sfruttamento del
lavoro nella produzione dalla prospettiva della riproduzione del lavoro
sociale, che mostra chiaramente il segno dell’oppressione di genere).
Queste divisioni sono state rielaborate dalla congiuntura attuale,
talvolta rinforzandosi, talaltra modificandosi ambiguamente.
Ne consegue che l’eterogeneità sociale e politica sia evidente nei
movimenti di protesta contro l’austerity e i suoi tagli. I nuovi
movimenti sociali come UK Uncut, Feminist Fightback e Occupy sono
caratterizzati da composizioni di classe, etniche e di genere complesse.
Il Green Party fornisce un ponte tra i movimenti ambientalisti e la
politica tradizionale. Produrre resistenza richiede perciò delle
alleanze che solo una strategia politica multifocale può sperare di
costruire.
Senso comune, identità e cultura
L’ideologia gioca un ruolo centrale nel disseminare, legittimare e
rinvigorire i regimi di potere, di profitto e di privilegio. Le idee
neoliberali sembrano aver sedimentato nell’immaginario occidentale,
sembrano essere state incorporate nel “senso comune”. Esse hanno
stabilito i parametri – fornito cioè gli elementi “dati per scontati” –
della discussione pubblica, dei dibattiti mediatici e dei calcoli della
vita di tutti i giorni.
Non tutto questo, però, è specifico dell’orizzonte neoliberale che ha
segnato le ultime decadi. Nemmeno nel periodo del welfare state
redistributivo gli elementi di fondo del capitalismo di mercato erano
stati messi in discussione. La redistribuzione trasformò la vita di
milioni di persone, ma ciò non toglie che essa sia rimasta un progetto
migliorativo, non rivoluzionario. Lo stesso linguaggio della politica lo
dimostra: si “dovette intervenire” (cioè si presero decisioni
consapevoli) sui “mercati” (cioè su di un contesto naturalmente
predeterminato).
Una fondamentale arma ideologica del neoliberalismo è la sua stessa
teoria economica. Le sue ricette sono state talmente “naturalizzate” che
le varie politiche vengono implementate a furor di popolo nonostante
la loro evidente dimensione parziale, quando non limitata. Aprire spazi
pubblici alla logica del profitto viene accettato proprio perché
appare come un “semplice senso comune economico”. L’ethos del
libero mercato ha finito per autorizzare una crescente indifferenza nei
confronti degli standard morali, e talvolta perfino nei confronti
della legge stessa. La commercializzazione ha largamente diffuso
corruzione ed evasione. Le banche, un tempo supposte riserve di
probità, piazzano oggi titoli tossici, riciclano denaro sporco, violano
embarghi internazionali, proteggono capitali di oscura provenienza nei
paradisi fiscali. Esse “compensano” i propri misfatti con cifre enormi
che non intaccano minimamente i bilanci. Similmente, nel momento in
cui aziende private titolari di contratti pubblici falliscono gli
obiettivi, a esse viene comunque concesso di continuare l’attività. E
ancora: ai laureati impiegati precariamente nei supermercati viene
detto di non preoccuparsi dello stipendio mentre si sta facendo
“esperienza lavorativa”. La commercializzazione è penetrata ovunque, e
ovunque ha portato indifferenza morale. Ma una volta che gli imperativi
della “cultura di mercato” hanno messo radici, tutto diviene lecito: è
questo il potere del senso comune egemonico.
Si tratta tuttavia di un senso comune che va prodotto e mantenuto. La
cattura dell’influenza politica operata dalla ricchezza e dal potere
delle imprese serve a mantenere salda la presa sul processo politico e
le istituzioni statali (come nel caso delle intercettazioni telefoniche
nello scandalo del News International). La proprietà dei
settori dominanti dei media garantisce al capitale la manipolazione dei
mezzi e delle strategie di rappresentazione: gli amministratori
delegati, i PR e i lobbisti che stazionano negli studi televisivi ci
rassicurano che “sono state prese le misure necessarie affinché ciò non
accada di nuovo”. Questi personaggi hanno funzionato da fondamentali
agenti definitori della realtà. Le visioni contrastanti, infatti,
difficilmente trovano spazio dentro i teleschermi. Certo alcuni
intrepidi giornalisti fanno un grande lavoro di controinformazione, ma
il mondo dei media in generale si trova a pensare lungo le linee guida
approntate dalle ortodossie neoliberali. Anche laddove è garantito un
certo “equilibrio”, ciò non mette in discussioni i termini del dibattito
e si è dunque riluttanti a seguire rigorosamente la complessità delle
questioni all’ordine del giorno.
L’ideologia dell’individualismo competitivo si è inoltre imposta
attraverso la stigmatizzazione dei cosiddetti poveri “immeritevoli”. Si
tratta dei “profittatori del welfare”, cioè di coloro che non possono
provvedere a se stessi e sono perciò etichettati come minorati morali –
“scansafatiche che rifuggono il lavoro”, “sussidi-dipendenti per scelta
esistenziale”. Allo stesso modo, ci si attende che tutti quanti –
genitori, studenti, clienti, pazienti, contribuenti, cittadini – si
auto-percepiscano come consumatori di “prodotti” che gli procureranno
vantaggi economici individuali, e non come esseri sociali pronti a
soddisfare bisogni umani, produttori di oggetti utili, partecipanti ad
una comune esperienza di apprendimento dalla quale se stessi e altri
possano beneficiare. È così che il neoliberalismo ha creato nuove
identità imprenditoriali e ha ricombinato il soggetto borghese.
Guardando poi al più ampio quadro culturale, riscontriamo tendenze
simili: nelle culture del consumo e della celebrità, infatti, spopolano
la pulsione di gratificazione istantanea, la fantasia del successo, la
feticizzazione della tecnologia, il trionfo dello “stile di vita” sulla
sostanza, nonché le utopie di auto-sufficienza. Queste forme di potere
“soft” sono tanto efficaci quanto le forme “hard”, per esempio la
legislazione anti-sciopero.
La riaffermazione del potere del capitale ha prodotto il mondo
neoliberale che oggi conosciamo, e i suoi agenti hanno preso il
controllo dei nuovi circuiti del capitale globale. L’aumento
dell’ineguaglianza è il terreno cruciale di questa restaurazione. E
tutto ciò ha messo in discussione la promessa – a lungo attesa – di
trasferimento di reddito, potere e responsabilità dai ricchi ai poveri,
dagli uomini alle donne, dal centro ai margini. I valori contrari a
tale reazione – uguaglianza, democrazia e cittadinanza – sono stati
disinnescati, così come le forze sociali del dissenso sono state
frammentate e disperse. Dall’altro lato, un settore finanziario
rinvigorito è stato articolato con un nuovo imperialismo. Queste
“vittorie” vengono ostentate con sfarzosa rozzezza – con ogni ondata si
leva un dito medio.
Il futuro della crisi
La presente fase del capitalismo basato sul libero mercato è ormai
entrata in una seria crisi economica dalla quale non è semplice uscire.
Tuttavia la forma della crisi rimane “economica”. Al momento non si
registrano fratture politiche decisive, incrinature nell’egemonia
ideologica o rotture nel discorso popolare. Sebbene gli effetti
disastrosi della crisi siano evidenti, la connessione tra i problemi
quotidiani e le sottostanti strutture rimane oscura. Non c’è una seria
crisi di idee. Anzi: la crisi è stata sfruttata come ulteriore
opportunità per rinforzare quella stessa narrazione neoliberale che ha
condotto all’implosione del sistema, e per spingere il progetto ancora
più in là. Gli ideologi neoliberali insistono che sono state le
“restrizioni” alla libertà di mercato – e non certo i suoi eccessi – a
produrre il patente fallimento. Grandi sforzi e grandi risorse sono
stati profusi per produrre consenso attorno a questa versione dei fatti.
Si prendano ad esempio le denunce contro gli attivisti di Occupy
London: l’assenza di pretese delle loro tende – piantate tra gli edifici
monumentali della Ricchezza e di Dio – li aveva dotati di potere
simbolico. Dovevano essere sgomberati.
Tuttavia, non esiste una chiusura egemonica – tutte le egemonie,
compresa quella neoliberale, non sono vincenti una volta per tutte. Dal
punto di vista materiale, i tagli fanno male – e non smetteranno a
breve. Si registra un crescente disinteresse – condito da scontento,
depoliticizzazione, scetticismo e sfiducia nelle idee politiche.
L’esaurimento è palpabile. La gente è confusa, non sa che fare. I
sondaggi sostengono che la voglia di privatizzare ha vinto: ma gli
ideali di uguaglianza e collettivismo sociale sono proprio spacciati?
C’è la sensazione che qualcosa sia profondamente sbagliato in un sistema
che distribuisce la ricchezza seguendo lo schema 1% vs. 99%. Nella
coscienza popolare, inoltre, si odono simili risonanze. Ma chi le
diffonde?
In Europa è il dissenso popolare, l’opposizione alle strategie di
austerity e chi supporta le alternative “growth-and-jobs”. Ci sono poi i
risvegli democratici delle Primavere Arabe e, in America Latina, le
sfide esplicite all’egemonia neoliberale. Le egemonie non sono mai
progetti completi: sono sempre potenzialmente discutibili. Ci sono
sempre crepe e contraddizioni, e quindi opportunità.
Tuttavia, nel Regno Unito, il Partito Laburista è in seria
difficoltà: guida i sondaggi ma non ha ancora conquistato i cuori e le
menti. Si perde nell’indecisione. Sembra impaurito dalla sua stessa
ombra di sinistra, indebitato verso un certo blairismo (specialmente la
credenza nel conservatorismo dell’elettorato), intrappolato nei rituali
parlamentari e mesmerizzato dalla politica elettorale. È stato zittito
dall’accusa di aver aperto le porte attraverso le quali la Coalizione
sta trionfalmente marciando. Sembra incapace di tracciare una linea
chiara sulla sabbia, cioè una frontiera politica. Non mancano efficaci
interventi tattici, ma permane il silenzio nel momento in cui si
richiede la chiara enunciazione di un set di principi alternativi, di un
approccio politico strategico, di una visione altra.
Un “manifesto” a rate
Il nostro scopo è delineare un’agenda di idee per un progetto
politico progressista che trascenda i limiti del pensiero convenzionale
rispetto a ciò che è “ragionevole” fare o proporre. Cercheremo di
aprire un dibattito che vada oltre le questioni elettorali o le
“compatibilità” dei mercati. Certamente, il cambiamento elettorale è
urgente e necessario: ma non cambierà molto se esso si riduce ad una
continuazione degli attuali presupposti sotto mentite spoglie. Per
quanto poi riguarda la praticabilità – “ciò che funziona condiziona le
vite” – ovvio, è importante: ma ci deve essere una rottura fondamentale
rispetto ai calcoli pragmatici che hanno sfigurato il pensiero politico
contemporaneo. È la mappa, non i fatti, che si è disintegrata. Lo
stesso ordine neoliberale necessita di essere messo in discussione,
così come c’è bisogno che alternative radicali ai suoi assunti
fondativi vengano predisposte e discusse. La nostra analisi suggerisce
che questo è un momento cruciale per modificare i termini del
dibattito, per riformulare le posizioni, pensare sul lungo periodo,
spiccare il volo.
Per quanto ci riguarda, non si tratta di tornare ai rimedi messi in
atto dalle istituzioni del welfare state postbellico. Naturalmente ciò
non sarebbe un punto di partenza del tutto negativo. Ma quel
compromesso, nonostante tutti i suoi sforzi per raggiungere un diverso
equilibrio di valori e poteri rispetto a quello dettato dai mercati, ha
tuttavia accettato che i settori di mercato fossero essenzialmente
lasciati liberi di generare profitti, mentre al sistema pubblico gestito
dai governi eletti non rimaneva che redistribuire qualche risorsa e
provvedere a quei bisogni sociali cui il mercato non si sarebbe
dedicato. (Come mostrato dalla sinistra stessa, a partire dagli anni ’70
alcuni difetti dell’asetto del welfare, per esempio il paternalismo di
Stato e le inefficienze, hanno contribuito all’alienazione del
consenso.) L’ascesa e la crisi del neoliberalismo ci avrebbero dovuto
insegnare che la soluzione storica non è stata sufficientemente
radicale. In ogni caso, le condizioni di esistenza politica del
precedente patto socialdemocratico non sono più operative. Sarà certo
opportuno dibattere del come e del perché le cose stanno così. Ma questo
tipo di dibattito risulterà utile solo se le nuove rivendicazioni
transazionali – centrate sull’analisi della realtà globale contemporanea
– ci porteranno ancora più avanti.
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