martedì 25 marzo 2014

Dopo il neoliberalismo: analizzare il presente* Stuart Hall, Doreen Massey and Michael Rustin

A poche settimane dalla sua morte, pubblichiamo il manifesto scritto nel 2013 da STUART HALL insieme a DOREEN MASSEY e MICHAEL RUSTIN
Con la crisi bancaria e creditizia del 2007-2008 e le sue ripercussioni in tutto il globo, è imploso il sistema neoliberale o del capitalismo del libero mercato, che a partire dal 1980 ha dominato il mondo per tre decenni. Quando la dimensione del debito tossico è diventata evidente, il credito e i prestiti interbancari si sono prosciugati, la spesa ha rallentato, le uscite sono diminuite e la disoccupazione si è impennata. I settori finanziari altamente inflazionati, che hanno speculato in attività in gran parte estranee all’economia reale di beni e servizi, hanno fatto precipitare una crisi le cui conseguenze catastrofiche si stanno ancora dispiegando.
Crediamo che il dibattito politico mainstream semplicemente non riconosca la profondità di questa crisi, né il conseguente bisogno di un ripensamento radicale. Il modello economico che ha sostenuto il regime sociale e politico degli ultimi tre decenni si sta disfacendo, ma apparentemente resta al suo posto il più ampio consenso politico e sociale. Proponiamo dunque questa analisi come un contributo al dibattito, nella speranza che aiuti le persone di sinistra a pensare maggiormente a come spostare i parametri del dibattito, passando dai piccoli palliativi e dalle misure restaurative all’apertura di una strada verso una nuova era politica e a una nuova interpretazione di ciò che costituisce la buona società[1].
Per tre decenni il sistema neoliberale ha generato grandi profitti per le multinazionali, le istituzioni di investimento e i capitalisti di ventura, notevoli accumulazioni di ricchezza per i nuovi super-ricchi globali, mentre ha vistosamente accresciuto il divario tra ricchi e poveri e ha approfondito le ineguaglianze di reddito, salute e possibilità di vita all’interno e tra i paesi, in un modo che non si vedeva da prima della seconda guerra mondiale. In Nord America e nell’Europa occidentale – finora motori del sistema economico globale – i tassi di crescita sono adesso più bassi che durante i primi decenni del dopoguerra, quando c’era perfino un maggiore bilanciamento di potere tra le classi sociali. C’è stato un forte calo nella produzione e una notevole espansione dei servizi finanziari e dell’economia dei servizi, con un massiccio spostamento di risorse dal pubblico al privato, dallo Stato al mercato. “Il mercato” è diventato il modello delle relazioni sociali, il valore di scambio l’unico valore. I governi occidentali si sono mostrati deboli e indecisi nel rispondere alla crisi ambientale, al cambiamento del clima e alla minaccia alla sostenibilità del pianeta, e si sono rifiutati di affrontare tali questioni in termini diversi da quelli del mercato.
Allo stesso modo, la crisi finanziaria è stata utilizzata da molti governi occidentali come uno strumento per rafforzare ulteriormente il modello neoliberale. Hanno adottato drastiche “misure di austerity” che, affermano, sono il solo modo per ridurre i deficit generati durante il prospero periodo degli anni ’80 e ’90. Hanno lanciato un assalto ai redditi, ai livelli e alle condizioni di vita dei settori più disagiati della società. Nel Regno Unito, i tagli programmati hanno congelato i redditi, imposto un tetto ai benefici, sbranato l’occupazione nel settore pubblico e minato il governo locale. Il capitale privato è stato incoraggiato a erodere il welfare state e smantellare le strutture sanitarie, il welfare e i servizi formativi. L’onere di “risolvere” la crisi è stato pesantemente scaricato sui lavoratori, bersagliando i gruppi vulnerabili e marginalizzati. Questi includono le persone a basso reddito e le famiglie con un solo genitore, i bambini in povertà, le donne che si destreggiano tra impieghi part-time e molteplici responsabilità domestiche, i pensionati, i disabili e i malati di mente, coloro che dipendono dal welfare pubblico e dalle case popolari, i giovani disoccupati (specialmente neri), gli studenti. Le strutture per i giovani sono state chiuse e i cittadini che dipendono dalle strutture pubbliche per il benessere sociale si trovano deprivati. A parte gli effetti sociali punitivi e regressivi, si tratta di una strategia destinata a fallire anche nei suoi termini, perché la sua principale conseguenza sarà una pesante caduta della domanda e un collasso delle entrate fiscali, approfondendo la spirale economica verso il basso, con poca ricaduta sul deficit.
In altre parole, la stessa crisi è stata utilizzata per rafforzare la redistribuzione dai poveri ai ricchi. Ha inoltre fornito l’alibi per un’ulteriore ristrutturazione di vasta portata dello Stato e della società lungo linee di mercato, con una serie di “riforme” ideologicamente orientate tese a far avanzare la privatizzazione e la mercatizzazione. Sono state incoraggiate le soluzioni private e individualizzate ai problemi sociali. Ciò rende ancora più importante per la sinistra sostenere che è venuto il tempo di una nuova strutturazione morale ed economica.

Dimensioni globali del neoliberalismo
L’egemonia neoliberale, sia nei suoi fasti che nella sua crisi, ha avuto implicazioni globali. I sistemi capitalistici dinamici ed espansivi hanno i loro imperativi strategici e geopolitici. Il neoliberalismo ha creato un clima favorevole agli affari in tutto il globo. Richiede regimi fiscali leggeri, limitata interferenza statale, accesso senza ostacoli ai mercati e alle risorse vitali. Fa appello alla sicurezza interna, alla capacità di contenere i nemici esterni, a governanti forti nel controllare le loro popolazioni, attraverso cui colpire gli accordi ed esercitare influenza. Genera ostilità rispetto a esperimenti più democratici e alternativi. Questi principi hanno indirizzato le strategie e sostenuto la rete di alleanze, blocchi e basi costruite dall’Occidente, guidato dagli Stati Uniti. Il Medio Oriente dimostra chiaramente che mantenere condizioni generalmente favorevoli di operazione – fissando le sfere di influenza (alleanza tra Stati Uniti e Israele), gestendo le sfide militari (Iran, Pakistan), reprimendo l’instabilità politica (il Corno d’Africa) e sconfiggendo le minacce (talebani, Al-Qaeda, Afganistan) – è un tentativo di conquistare specifiche risorse, come il petrolio (Iraq, stati del Golfo).
Il particolare carattere globale del neoliberalismo è stato parte del suo iniziale armamentario – per esempio attraverso il Washington Consensus a partire dagli anni ’80 – e anche un elemento della sua specificità storica. È una globalizzazione in cui è cruciale una nuova forma di imperialismo finanziario (Londra è stata centrale nella sua invenzione e disseminazione), e in cui una dinamica chiave è stata una ricerca planetaria di nuove attività in cui speculare (per esempio attraverso l’esportazione dei programmi di privatizzazione, la spirale dei mercati dei future sulle materie prime, l’acquisto di vaste aree di terra).
Ma il neoliberalismo non ha mai conquistato tutto. Ha operato dentro, e creato, un mondo di grande diversità e disuguaglianza. Il suo primo e classico laboratorio è stato il Cile, ma l’ascesa delle tigri del sud-est asiatico è stato, in modo critico, uno sviluppo aiutato dallo Stato (per niente ricetta ufficiale neoliberale). Nonostante il trionfalismo occidentale del 1989, anche la Russia ha mantenuto le sue specificità, un ibrido di capitalismo oligarchico e statale combinato con l’autoritarismo. Anche la Cina lotta per definire un modello differente; attualmente combina un controllo centralizzato del partito con l’apertura all’investimento straniero, acute dislocazioni geografiche interne e un diffuso conflitto sociale con tassi di crescita vertiginosi e centinaia di milioni di poveri. Il conflitto ha quindi fatto irruzione in molte parti del mondo in cui l’ortodossia neoliberale è stata adottata. L’India, così frequentemente lodata per aver abbracciato il consenso di mercato, esibisce straordinarie rotture tra le nuove elite e gli impoveriti, così come molteplici e persistenti conflitti sulla sua attuale strategia economica. Altri ambiti maggiori di conflitto sono stati le guerre per l’acqua e il gas in Bolivia e le lotte dei poveri in Tailandia. Le emergenti articolazioni dei governi progressisti e dei movimenti sociali dal basso in America Latina sono, in vari modi e a diversi livelli, risposte all’impatto delle precedenti politiche neoliberali. Il movimento alter-globalista è stato chiaro. Non è stata una semplice vittoria.
In realtà, la sua diversità e il conflitto sono stati un elemento nell’attuale frattura del neoliberalismo. Lo sbilanciamento tra Cina e Stati Uniti è stato sia un meccanismo centrale di complementarietà, sia una crescente fonte di instabilità. Avendo fallito nel disegnare un’architettura finanziaria che potesse gestire l’irregolare sviluppo tra i paesi che la costituiscono, le potenze delle elite europee (soprattutto la troika) tentano ora di incolpare dell’inevitabile disastro gli stessi paesi che le costituiscono (o alcuni di essi). Mettono così i popoli contro i popoli, provocando pericolosi nazionalismi, mentre la colpevolezza dell’elite è efficacemente oscurata. È un gioco di prestigio geografico che converte la frontiera politica tra interessi economici e sociali in conflitto in una frontiera politica tra popoli nazionali, e modella le auto-identificazioni di quei popoli lungo linee nazionali.
Nel frattempo, e sul lungo termine, sta avvenendo uno spostamento tettonico di potere economico verso la Cina e gli altri paesi dei Bric, portando a una crescente fiducia e sempre più richieste di prendere parola su scala mondiale. Il commercio, e più in generale le conversazioni e i contatti, sempre più ignorano la regione nordatlantica. Allo stesso tempo, mentre il numero di milionari aumenta anche nei posti più poveri, in molti paesi – soprattutto nell’Africa sub-sahariana – c’è un impoverimento crescente, la malnutrizione si diffonde (in parte come risultato della speculazione sui prezzi del cibo), crescono la devastazione ecologica e l’instabilità politica. Ci sono battaglie sul controllo dell’energia e delle risorse minerarie. A fronte delle schiaccianti pressioni esterne e dei vincoli imposti, i governi non possono gestire la scarsa scolarizzazione, la fame, la malnutrizione, la malattia e le pandemie o resistere al consumismo occidentale, ai commercianti di armi e ai mercenari.
La “spremitura” ha innescato una crescita della violenza settaria locale, tribale, interetnica e religiosa, delle guerre civili, dei colpi militari, delle milizie armate, dei bambini soldato, della “pulizia etnica” e dei genocidi; e ciò ha fatto precipitare la migrazione transfrontaliera e internazionale, così come la fuga di civili dalle zone di guerra, che si uniscono ai campi profughi o chiedono asilo politico. Gli “stati falliti (o in via di fallimento)”, che gli strateghi occidentali proclamano essere la maggiore minaccia alla sicurezza, sono spesso la conseguenza perversa del neoliberalismo e dell’intervento occidentale. E proprio il concetto di Stato fallito è stato utilizzato come un’arma ideologica.
Più di recente, la risposta alla crisi da parte delle elite nordatlantiche ha fatto cose peggiori, per esempio attraverso i suoi effetti sui prezzi e i livelli di cambio. Il dato di fatto dell’instabilità globale e della crisi incombente non ha per nulla modificato l’offensiva neoliberale. Se il Cile è stato il laboratorio della prima fase, la Grecia è diventato il laboratorio per un’ancora più feroce implementazione, mentre la primavera araba può ancora essere recuperata per aprire nuovi campi per le forze di mercato. E in America Latina i recenti colpi di stato sanciti dagli Stati Uniti in Honduras e Paraguay sono stati rapidamente seguiti da radicali concessioni al capitale straniero.

Ideologie e conflitti
L’attuale crisi economica costituisce una fase di potenziale rottura. L’assetto del welfare state che ha preceduto l’era neoliberale nel mondo nordatlantico si è sbriciolato negli anni ’70 e, con la fine della guerra fredda, il neoliberalismo thatcheriano e reaganiano ha vinto la contesa sulla direzione da intraprendere. Questo risultato non era inevitabile. I conflitti tra gli insediamenti sociali e la costruzione di egemonie sono il prodotto di forze sociali in contrapposizione. Durante l’era del welfare state, la classe operaia ha conquistato vantaggi economici: la ricchezza è stata modestamente redistribuita, l’eguaglianza e i diritti sociali sono diventati più radicati. Le quote di surplus del capitale sono state significativamente erose. Ma si è trattato di uno spostamento che non poteva essere tollerato. L’espansione della globalizzazione nelle sue operazioni è stata in parte (tra le sue molte determinanti, e insieme a privatizzazione e finanziarizzazione) un mezzo per restaurare la declinante quota di surplus del capitale. La resistenza alla “guerra sociale” thatcherista, i conflitti sul governo democratico a Londra e in altre città, le lotte nel Sud globale, l’ascesa di nuovi movimenti sociali, l’opposizione alla poll tax, i conflitti sui diritti del lavoro organizzato ovunque, tutte queste cose hanno costituito fasi critiche nella lotta per determinare cosa ne sarebbe seguito. Sono sempre state in gioco le forze sociali impegnate nel conflitto in differenti aree della vita sociale.
L’attuale assetto neoliberale ha anche realizzato il ripensamento degli assunti di senso comune del precedente assetto socialdemocratico. Per istituirsi, ogni assetto sociale si fonda sull’imposizione come senso comune di un’intera serie di credenze, idee fuori discussione, presupposti così profondi che solo raramente viene a galla il fatto che sono appunto presupposti. Nel caso del neoliberalismo questo insieme di idee si rivolge alla supposta naturalezza del “mercato”, la primazia dell’individuo competitivo, la superiorità del privato sul pubblico. Come risultato dell’egemonia di questo insieme di idee, il loro essere senso comune dominante, l’assetto complessivo è comunemente chiamato “neoliberale”. Ma mentre l’impegno della teoria economica neoliberale è una parte decisiva del consenso globale, si dà anche il caso che la stessa teoria giochi un ruolo cruciale nel legittimare la restaurazione e il rinvigorimento di un regime di potere, profitto e privilegio.
Come abbiamo visto, le agende del neoliberalismo, incastonate in un senso comune che materialmente e nell’immaginario ha arruolato intere popolazioni in una visione del mondo finanziarizzata e mercatizzata, sono implementate quando servono quegli interessi e sono tranquillamente ignorate quando non lo fanno (il salvataggio delle banche è solo il più recente e illustre esempio). Similmente, i suoi attacchi allo Stato e alle nozioni del pubblico sono alimentate non solo dalla credenza in una teoria economica, ma dalla speranza che condurranno alla riapertura di aree per fare profitti attraverso la mercificazione. Questa direzione verso l’espansione della sfera di accumulazione è stata cruciale nel restaurare i vecchi poteri.

Origini e spiegazioni
Il neoliberalismo ha le sue origini nella teoria politica e nell’economia politica liberale del XVIII secolo, da cui deriva le sue pietre di paragone. È stato rinnovato e rimodellato per essere adatto a questi tempi e a queste geografie, ed è molteplice nella forma rispetto a queste geografie estese. Ma le sue proposizioni chiave, quelle del libero individuo proprietario che si confronta con gli altri attraverso le transazioni di mercato, rimangono la pietra angolare. Fin dall’inizio queste proposizioni sono state il prodotto di interessi di classe, nel Regno Unito del XVIII secolo quelli dell’ascesa delle borghesie agrarie, commerciali e successivamente industriali. Il tentativo è sempre stato di presentarsi come verità eterne, i concetti dei mercati e degli individui sono meramente descrittivi di un ideale stato di natura. Che non fosse così è stato dimostrato nel corso dei secoli, così come il “libero mercato” e il libero individuo hanno dovuto essere prodotti e imposti. Attraverso le leggi della recinzione, le imposizioni degli “aggiustamenti strutturali”, gli interventi militari o gli attacchi alla spesa pubblica, le società di mercato sono i prodotti dell’intervento (e spesso degli stati).
Che le forze di mercato siano imposte su alcuni ma non su altri è stato vero fin da quando i regimi del “lavoro libero” delle metropoli coloniali sono stati forgiati dal sistema imperiale con il “lavoro forzato” della schiavitù nelle piantagioni. Questa contraddizione divenne più evidente quando tali regimi si scontrarono con le rivolte degli schiavi e le lotte sull’Abolizione. Le forze di mercato non sono mai universalmente imposte. Non c’è nessun sistema completamente mercatizzato. Il capitalismo si basa sui monopoli e sui rischi “socializzati”, e sulle sfere che esistono al di fuori delle sue operazioni, inclusa quelle della riproduzione delle persone e del mondo naturale. Il libero lavoro salariato è sempre stato accresciuto dalle forme non libere di sfruttamento come la servitù, la schiavitù, la servitù a contratto, l’asservimento personale. Questi elementi segnano i limiti della generalizzabilità del “mercato”.
Infatti, molto di ciò che è passato attraverso la globalizzazione negli ultimi trent’anni risuona con eventi del tardo XVIII e del XIX secoli in Inghilterra, quando il capitalismo industriale e urbanizzato stava trovando le sue forme. L’espulsione dalla terra di milioni di persone nel Sud globale richiama le recinzioni dei commons. Le grandi migrazioni nelle città in continua espansione sono come le migrazioni all’inizio dell’industrializzazione (quelle migrazioni, all’interno della nazione, sono state socialmente distruttive e potenzialmente esplosive come le migrazioni tra le nazioni). In ballo è la creazione di una nuova e vasta forza di “lavoratori liberi” con tutte le distorsioni sociali e personali (così come le nuove libertà) che possono comportare, e l’ulteriore mercificazione della terra e del lavoro. La stessa migrazione internazionale (in parte come risultato di tutti questi sviluppi e le impreviste ramificazioni geografiche che li accompagnano) rappresenta la creazione di una libera forza lavoro globale – proprio come l’età degli swing riot e di Peterloo vide la creazione di un mercato del lavoro nazionale in Gran Bretagna.
Nel frattempo, guardando come se fosse nella direzione opposta, dal Regno Uniti verso l’esterno, mentre i successivi governi erano pateticamente appesi agli Stati Uniti, la cui egemonia economica era essa stessa sfidata dalla Cina e dagli altri Bric, la City di Londra – ancora una volta poggiando sulla sua lunga presunzione di supremazia, ma adesso completamente internazionalizzata e che ha origine nel neoliberalismo – ha essa stessa trovato, almeno per un momento, un nuovo ruolo imperiale.
Il progetto del neoliberalismo, dunque, è una riaffermazione dello storico imperativo capitalistico del profitto, attraverso la finanziarizzazione, la globalizzazione e l’ulteriore mercificazione.

Cause e complessità
Non è mai semplice definire cosa è una causa e cosa un effetto in congiunture di questo tipo. Esistono legittime differenze di vedute rispetto all’enfasi causale che dovrebbe essere attribuita a fattori ideologici, politici e materiali, oppure il peso da assegnare all’azione consapevole delle classi sociali rispetto agli attributi dinamici delle strutture. Il quadro non è mai semplice. È certamente vero che gli interessi di classe hanno giocato un ruolo attivo nell’imposizione al mondo del neoliberalismo, e che oggi quegli interessi si rifiutano di concedere i vantaggi relativi che hanno caratterizzato gli ultimi trent’anni. È anche vero che le classi hanno condiviso interessi economici, sia rispetto a specifici settori, sia a questioni generali, per esempio il mantenimento della stabilità e di un clima favorevole agli “affari”.
Tuttavia, lo slittamento del potere economico e sociale avvenuto a partire dagli anni ’70 non ha conosciuto un’unica forza motrice. L’ambito economico è cruciale, ma non può determinare ogni cosa – neppure “in ultima istanza”, come suggerito da Althusser. Piuttosto, ogni data congiuntura rappresenta la fusione “in un’unità di rottura” di un insieme di fattori economici, sociali, politici e ideologici; questo insieme fonde “correnti diverse… interessi di classe eterogenei… lotte politiche e sociali contraddittorie”[2]. Ciò che si è coagulato nell’attuale congiuntura neoliberale include interessi di classe – o più generalmente sociali – nuovi quadri istituzionali, l’esercizio di una pressione eccessiva sui processi democratici da parte delle compagnie private, sviluppi politici quali l’ingresso del New Labour nel neoliberal consensus, gli effetti di ideologie legittimanti e di una credenza quasi-religiosa nella “mano invisibile”, nonché le virtù auto-propulsive del “mercato”.
Le classi sono anche formazioni contraddistinte da composizioni interne complesse, che cambiano nel corso del tempo. Quelle tra le quali il neoliberalismo è diventata la tendenza dominante costituiscono oggi una classe globale che include – accanto a strati tradizionali – gli uomini d’affari e gli industriali di tutto il mondo, gli amministratori delegati delle grandi multinazionali, gli operatori finanziari, i venture capitalists, ed anche i quadri operativi che gestiscono il sistema e ripongono enormi interessi nel suo successo. Dobbiamo anche aggiungere il fondamentale – benché subalterno – arcipelago di consulenti, esperti di marketing, PR, avvocati, contabili creativi e operatori fiscali le cui fortune dipendono dalla resilienza del sistema. Non c’è dubbio che gli immensi privilegi e immunità guadagnati da questa formazione spieghino la sua moralità denudata, impermeabile ad ogni senso più ampio di comunità o di responsabilità: questi individui sembrano non capire per nulla come vive la gente comune. La loro resistenza alle riforme è stata strenua, la loro avidità cieca. Essi si figurano in modo stravagante, sostenendo che “si è tutti sulla stessa barca”, che il loro scopo primario è “servire i clienti” e rispettare la “responsabilità sociale d’impresa”, non proteggere i loro interessi.
Naturalmente, il termine interessi di classe non implica che le classi siano entità monolitiche, che esse appaiano sul palcoscenico politico come attori unitari, o che siano pienamente consapevoli di questi interessi e li perseguano razionalmente. Esistono importanti conflitti d’interesse (nel Regno Unito, per esempio, tra il capitale finanziario e piccole imprese, tra industriali del nord e piccoli agricoltori). Queste reali contraddizioni possono presentare delle particolari opportunità politiche. Inoltre, gli interessi sono sempre oggetti di conflitti ideologico-interpretativi, ed è chiaro che una loro ridefinizione può avere effetti politici.
Va poi sottolineato che la classe economica non è l’unica divisione sociale importante. Tanto il genere quanto le divisioni razziali, etniche e sessuali risalgono a epoche precapitalistiche e continuano a strutturare le relazioni sociali in modi distintivi. Esse posseggono le loro proprie categorie binarie (maschio/femmina, maschile/femminile, etero/omo, religioso/secolare, coloniale/metropolitano, civile/barbarico) e figurano diversamente dalla classe nella distribuzione dei beni sociali e simbolici (sebbene non manchi mai una loro articolazione con la classe). Esse “gestiscono” i loro propri sistemi di abbondanza e scarsità (pagato/non pagato, legittimo/illegittimo, normale/anormale, salvato/dannato). Esse posizionano diversamente i corpi dei loro soggetti lungo il continuum Natura/Cultura. Esse “governano” differenti momenti del ciclo di vita e a attribuiscono agli individui diverse capacità soggettive (paterno/materno, emotivo/cognitivo, dovere/piacere).
Ognuna di queste divisioni sociali conosce luoghi di operazione privilegiati (per esempio, casa/luogo di lavoro, privato/pubblico) e particolari regimi disciplinari (potere patriarcale, eredità proprietarie, lavoro domestico non pagato, controllo della sessualità, differenze salariali basate su genere e razza). Esse dispiegano diversi modi di oppressione (persecuzione religiosa, discriminazione sociale e sessuale, razzializzazione). Esse costruiscono loro proprie gerarchie di alterità e appartenenza attraverso la discriminazione, lo stereotipo, l’insulto verbale, l’inferiorizzazione, la marginalizzazione, l’abiezione, la feticizzazione. Quando queste divisioni sociali operano all’interno di un sistema capitalistico, esse vengono – naturalmente – messe in forma da esso, articolate capitalisticamente. Esse tuttavia mantengono la loro “autonomia relativa”. Ciò ci impone di pensare le relazioni sociali da un diverso angolo visuale (per esempio, riconcettualizzando lo sfruttamento del lavoro nella produzione dalla prospettiva della riproduzione del lavoro sociale, che mostra chiaramente il segno dell’oppressione di genere). Queste divisioni sono state rielaborate dalla congiuntura attuale, talvolta rinforzandosi, talaltra modificandosi ambiguamente.
Ne consegue che l’eterogeneità sociale e politica sia evidente nei movimenti di protesta contro l’austerity e i suoi tagli. I nuovi movimenti sociali come UK Uncut, Feminist Fightback e Occupy sono caratterizzati da composizioni di classe, etniche e di genere complesse. Il Green Party fornisce un ponte tra i movimenti ambientalisti e la politica tradizionale. Produrre resistenza richiede perciò delle alleanze che solo una strategia politica multifocale può sperare di costruire.

Senso comune, identità e cultura
L’ideologia gioca un ruolo centrale nel disseminare, legittimare e rinvigorire i regimi di potere, di profitto e di privilegio. Le idee neoliberali sembrano aver sedimentato nell’immaginario occidentale, sembrano essere state incorporate nel “senso comune”. Esse hanno stabilito i parametri – fornito cioè gli elementi “dati per scontati” – della discussione pubblica, dei dibattiti mediatici e dei calcoli della vita di tutti i giorni.
Non tutto questo, però, è specifico dell’orizzonte neoliberale che ha segnato le ultime decadi. Nemmeno nel periodo del welfare state redistributivo gli elementi di fondo del capitalismo di mercato erano stati messi in discussione. La redistribuzione trasformò la vita di milioni di persone, ma ciò non toglie che essa sia rimasta un progetto migliorativo, non rivoluzionario. Lo stesso linguaggio della politica lo dimostra: si “dovette intervenire” (cioè si presero decisioni consapevoli) sui “mercati” (cioè su di un contesto naturalmente predeterminato).
Una fondamentale arma ideologica del neoliberalismo è la sua stessa teoria economica. Le sue ricette sono state talmente “naturalizzate” che le varie politiche vengono implementate a furor di popolo nonostante la loro evidente dimensione parziale, quando non limitata. Aprire spazi pubblici alla logica del profitto viene accettato proprio perché appare come un “semplice senso comune economico”. L’ethos del libero mercato ha finito per autorizzare una crescente indifferenza nei confronti degli standard morali, e talvolta perfino nei confronti della legge stessa. La commercializzazione ha largamente diffuso corruzione ed evasione. Le banche, un tempo supposte riserve di probità, piazzano oggi titoli tossici, riciclano denaro sporco, violano embarghi internazionali, proteggono capitali di oscura provenienza nei paradisi fiscali. Esse “compensano” i propri misfatti con cifre enormi che non intaccano minimamente i bilanci. Similmente, nel momento in cui aziende private titolari di contratti pubblici falliscono gli obiettivi, a esse viene comunque concesso di continuare l’attività. E ancora: ai laureati impiegati precariamente nei supermercati viene detto di non preoccuparsi dello stipendio mentre si sta facendo “esperienza lavorativa”. La commercializzazione è penetrata ovunque, e ovunque ha portato indifferenza morale. Ma una volta che gli imperativi della “cultura di mercato” hanno messo radici, tutto diviene lecito: è questo il potere del senso comune egemonico.
Si tratta tuttavia di un senso comune che va prodotto e mantenuto. La cattura dell’influenza politica operata dalla ricchezza e dal potere delle imprese serve a mantenere salda la presa sul processo politico e le istituzioni statali (come nel caso delle intercettazioni telefoniche nello scandalo del News International). La proprietà dei settori dominanti dei media garantisce al capitale la manipolazione dei mezzi e delle strategie di rappresentazione: gli amministratori delegati, i PR e i lobbisti che stazionano negli studi televisivi ci rassicurano che “sono state prese le misure necessarie affinché ciò non accada di nuovo”. Questi personaggi hanno funzionato da fondamentali agenti definitori della realtà. Le visioni contrastanti, infatti, difficilmente trovano spazio dentro i teleschermi. Certo alcuni intrepidi giornalisti fanno un grande lavoro di controinformazione, ma il mondo dei media in generale si trova a pensare lungo le linee guida approntate dalle ortodossie neoliberali. Anche laddove è garantito un certo “equilibrio”, ciò non mette in discussioni i termini del dibattito e si è dunque riluttanti a seguire rigorosamente la complessità delle questioni all’ordine del giorno.
L’ideologia dell’individualismo competitivo si è inoltre imposta attraverso la stigmatizzazione dei cosiddetti poveri “immeritevoli”. Si tratta dei “profittatori del welfare”, cioè di coloro che non possono provvedere a se stessi e sono perciò etichettati come minorati morali – “scansafatiche che rifuggono il lavoro”, “sussidi-dipendenti per scelta esistenziale”. Allo stesso modo, ci si attende che tutti quanti – genitori, studenti, clienti, pazienti, contribuenti, cittadini – si auto-percepiscano come consumatori di “prodotti” che gli procureranno vantaggi economici individuali, e non come esseri sociali pronti a soddisfare bisogni umani, produttori di oggetti utili, partecipanti ad una comune esperienza di apprendimento dalla quale se stessi e altri possano beneficiare. È così che il neoliberalismo ha creato nuove identità imprenditoriali e ha ricombinato il soggetto borghese.
Guardando poi al più ampio quadro culturale, riscontriamo tendenze simili: nelle culture del consumo e della celebrità, infatti, spopolano la pulsione di gratificazione istantanea, la fantasia del successo, la feticizzazione della tecnologia, il trionfo dello “stile di vita” sulla sostanza, nonché le utopie di auto-sufficienza. Queste forme di potere “soft” sono tanto efficaci quanto le forme “hard”, per esempio la legislazione anti-sciopero.
La riaffermazione del potere del capitale ha prodotto il mondo neoliberale che oggi conosciamo, e i suoi agenti hanno preso il controllo dei nuovi circuiti del capitale globale. L’aumento dell’ineguaglianza è il terreno cruciale di questa restaurazione. E tutto ciò ha messo in discussione la promessa – a lungo attesa – di trasferimento di reddito, potere e responsabilità dai ricchi ai poveri, dagli uomini alle donne, dal centro ai margini. I valori contrari a tale reazione – uguaglianza, democrazia e cittadinanza – sono stati disinnescati, così come le forze sociali del dissenso sono state frammentate e disperse. Dall’altro lato, un settore finanziario rinvigorito è stato articolato con un nuovo imperialismo. Queste “vittorie” vengono ostentate con sfarzosa rozzezza – con ogni ondata si leva un dito medio.

Il futuro della crisi
La presente fase del capitalismo basato sul libero mercato è ormai entrata in una seria crisi economica dalla quale non è semplice uscire. Tuttavia la forma della crisi rimane “economica”. Al momento non si registrano fratture politiche decisive, incrinature nell’egemonia ideologica o rotture nel discorso popolare. Sebbene gli effetti disastrosi della crisi siano evidenti, la connessione tra i problemi quotidiani e le sottostanti strutture rimane oscura. Non c’è una seria crisi di idee. Anzi: la crisi è stata sfruttata come ulteriore opportunità per rinforzare quella stessa narrazione neoliberale che ha condotto all’implosione del sistema, e per spingere il progetto ancora più in là. Gli ideologi neoliberali insistono che sono state le “restrizioni” alla libertà di mercato – e non certo i suoi eccessi – a produrre il patente fallimento. Grandi sforzi e grandi risorse sono stati profusi per produrre consenso attorno a questa versione dei fatti. Si prendano ad esempio le denunce contro gli attivisti di Occupy London: l’assenza di pretese delle loro tende – piantate tra gli edifici monumentali della Ricchezza e di Dio – li aveva dotati di potere simbolico. Dovevano essere sgomberati.
Tuttavia, non esiste una chiusura egemonica – tutte le egemonie, compresa quella neoliberale, non sono vincenti una volta per tutte. Dal punto di vista materiale, i tagli fanno male – e non smetteranno a breve. Si registra un crescente disinteresse – condito da scontento, depoliticizzazione, scetticismo e sfiducia nelle idee politiche. L’esaurimento è palpabile. La gente è confusa, non sa che fare. I sondaggi sostengono che la voglia di privatizzare ha vinto: ma gli ideali di uguaglianza e collettivismo sociale sono proprio spacciati? C’è la sensazione che qualcosa sia profondamente sbagliato in un sistema che distribuisce la ricchezza seguendo lo schema 1% vs. 99%. Nella coscienza popolare, inoltre, si odono simili risonanze. Ma chi le diffonde?
In Europa è il dissenso popolare, l’opposizione alle strategie di austerity e chi supporta le alternative “growth-and-jobs”. Ci sono poi i risvegli democratici delle Primavere Arabe e, in America Latina, le sfide esplicite all’egemonia neoliberale. Le egemonie non sono mai progetti completi: sono sempre potenzialmente discutibili. Ci sono sempre crepe e contraddizioni, e quindi opportunità.
Tuttavia, nel Regno Unito, il Partito Laburista è in seria difficoltà: guida i sondaggi ma non ha ancora conquistato i cuori e le menti. Si perde nell’indecisione. Sembra impaurito dalla sua stessa ombra di sinistra, indebitato verso un certo blairismo (specialmente la credenza nel conservatorismo dell’elettorato), intrappolato nei rituali parlamentari e mesmerizzato dalla politica elettorale. È stato zittito dall’accusa di aver aperto le porte attraverso le quali la Coalizione sta trionfalmente marciando. Sembra incapace di tracciare una linea chiara sulla sabbia, cioè una frontiera politica. Non mancano efficaci interventi tattici, ma permane il silenzio nel momento in cui si richiede la chiara enunciazione di un set di principi alternativi, di un approccio politico strategico, di una visione altra.

Un “manifesto” a rate
Il nostro scopo è delineare un’agenda di idee per un progetto politico progressista che trascenda i limiti del pensiero convenzionale rispetto a ciò che è “ragionevole” fare o proporre. Cercheremo di aprire un dibattito che vada oltre le questioni elettorali o le “compatibilità” dei mercati. Certamente, il cambiamento elettorale è urgente e necessario: ma non cambierà molto se esso si riduce ad una continuazione degli attuali presupposti sotto mentite spoglie. Per quanto poi riguarda la praticabilità – “ciò che funziona condiziona le vite” – ovvio, è importante: ma ci deve essere una rottura fondamentale rispetto ai calcoli pragmatici che hanno sfigurato il pensiero politico contemporaneo. È la mappa, non i fatti, che si è disintegrata. Lo stesso ordine neoliberale necessita di essere messo in discussione, così come c’è bisogno che alternative radicali ai suoi assunti fondativi vengano predisposte e discusse. La nostra analisi suggerisce che questo è un momento cruciale per modificare i termini del dibattito, per riformulare le posizioni, pensare sul lungo periodo, spiccare il volo.
Per quanto ci riguarda, non si tratta di tornare ai rimedi messi in atto dalle istituzioni del welfare state postbellico. Naturalmente ciò non sarebbe un punto di partenza del tutto negativo. Ma quel compromesso, nonostante tutti i suoi sforzi per raggiungere un diverso equilibrio di valori e poteri rispetto a quello dettato dai mercati, ha tuttavia accettato che i settori di mercato fossero essenzialmente lasciati liberi di generare profitti, mentre al sistema pubblico gestito dai governi eletti non rimaneva che redistribuire qualche risorsa e provvedere a quei bisogni sociali cui il mercato non si sarebbe dedicato. (Come mostrato dalla sinistra stessa, a partire dagli anni ’70 alcuni difetti dell’asetto del welfare, per esempio il paternalismo di Stato e le inefficienze, hanno contribuito all’alienazione del consenso.) L’ascesa e la crisi del neoliberalismo ci avrebbero dovuto insegnare che la soluzione storica non è stata sufficientemente radicale. In ogni caso, le condizioni di esistenza politica del precedente patto socialdemocratico non sono più operative. Sarà certo opportuno dibattere del come e del perché le cose stanno così. Ma questo tipo di dibattito risulterà utile solo se le nuove rivendicazioni transazionali – centrate sull’analisi della realtà globale contemporanea – ci porteranno ancora più avanti.



[1] I lettori di Soundings sapranno che è ciò che stiamo tentando di fare da vario tempo. Per maggiori informazioni si veda il nostro libro online The neoliberal crisis: www.lwbooks.co.uk/ebooks/The_Neoliberal_ crisis.pdf 
[2] Louis Althusser, Per Marx, specialmente la parte terza: “Contraddizione e sovradeterminazione”. 

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