Alcuni anni fa – eravamo già in piena crisi – dopo una trasmissione in cui un noto economista di sinistra, nonché columnist
di un importante quotidiano, si era a lungo diffuso sulla
necessità rimettere in moto la crescita, gli avevo chiesto: ma
davvero pensi che l’economia italiana possa tornare a crescere
a breve? Mi aveva risposto in modo perentorio: in Italia non ci sarà
più crescita per almeno dieci anni. Da allora quell’economista–columnist
ha pubblicato articoli su articoli su come il paese può riprendere
a crescere; ora, subito, ovviamente; non fra dieci anni.
A un altro economista–columnist che aveva pubblicato,
insieme a un terzo collega — successivamente risucchiato nel buco
nero della lista “Fermiamo il declino” di Oscar Giannino — un
articolo molto citato dove sosteneva che per fermare lo spread
bisognava vendere subito tutte le imprese di Stato, avevo chiesto,
qualche mese dopo, se non avesse cambiato idea. Perché quello che si
può ricavare da una vendita simile è irrisorio rispetto alla
montagna del debito pubblico italiano. Mi aveva risposto di sì;
considerava quell’articolo un errore. Da allora ha continuato
a scrivere articoli su articoli per propugnare la vendita di tutti
gli asset di Stato. E per occuparsi meglio della cosa è diventato
anche un consigliere di Renzi.
Questi episodi, insieme ad altre riflessioni, mi hanno convinto che gli economisti mainstream,
o la grande maggioranza, non credono assolutamente in quello che
scrivono. Sanno benissimo, o sospettano fortemente, che con le loro
ricette, o soprattutto a causa di esse, le cose non possono che
andare sempre peggio. Ma allora, perché lo fanno? Perché non
raccontano quello che veramente pensano? Il fatto è che non
riescono a uscire dalla gabbia concettuale in cui li imprigiona la
loro disciplina, ormai assurta al rango di pensiero unico, senza più
distinzioni tra destra e sinistra.
Non sanno ragionare senza il puntello di categorie che rimandano
a un mondo che non esiste e non è mai esistito, dove tutto ruota
intorno a un mercato immaginario, eretto a supremo regolatore del
creato, e a cui istituzioni, politica, cultura, ambiente, e la vita
stessa di miliardi di esseri umani, non possono fare altro che
adattarsi (o cercare di farlo) adottando come unica regola di
condotta una lotta di tutti contro tutti. Che loro chiamano
concorrenza o competitività. Però, al termine mercato (al
singolare) con il quale designano per lo più un meccanismo
anonimo, impersonale, trasparente, agìto in modo
preterintenzionale da milioni o miliardi di individui, hanno da
tempo sostituito il termine “mercati” (al plurale), che allude
invece a un potere opaco – anonimo solo perché i suoi detentori
agiscono nell’ombra – concentrato in mano a pochissime entità che
dominano il mondo con la finanza. Ecco spiegata in modo semplice la
loro afasia su ciò che sta succedendo: una gigantesca
espropriazione di miliardi di esseri umani per concentrare la
ricchezza in un pugno sempre più ristretto di privilegiati. Molti
di loro, in realtà, lo sanno benissimo e dietro a tanta teoria non
c’è che la difesa dell’ordine esistente, per quante critiche,
peraltro assolutamente marginali, gli rivolgano.
Ci sono molti precedenti storici di un approccio concettuale
del genere, che Marx chiamava ideologia; ma uno è più chiaro di
tutti. E’ il conflitto che aveva spinto la Chiesa cattolica
e l’inquisizione a mandare al rogo Giordano Bruno e a imporre una
ritrattazione a Galileo Galilei per difendere una concezione
dell’universo consolidata in una dottrina da cui discendeva
l’immutabilità dell’ordine gerarchico della società del tempo. Anche
allora gli inquisitori di Galileo non credevano a quello che
sostenevano: per questo si rifiutavano di guardare nel
telescopio che mostrava due satelliti di Giove che “bucavano” la
sfera celeste, mettendo in forse la sua perfezione cristallina e,
con essa, quella dell’ordine sociale.
Ma oggi a bucare i cieli del pensiero unico non ci sono solo due
piccoli satelliti, ma diversi giganteschi buchi neri. Per restare in
Europa, il primo è la Grecia, il paese-cavia degli esperimenti
correttivi della Troika, che anche il nostro attuale ministro
dell’economia, solo tre anni fa, spacciava come un’amara medicina che
avrebbe risanato il paese. Il paese non è stato affatto risanato;
anzi, è stato condannato al rogo come Giordano Bruno. E il suo popolo
è ancora in vita solo perché sta lottando con tutte le proprie forze
contro quei famigerati memorandum; cioè contro le conseguenze di politiche che, come ci ricordava Luciano Gallino (la Repubblica,
15 marzo), vanno considerate un vero e proprio «crimine contro
l’umanità». Eppure quella medicina i sostenitori del pensiero unico
insistono a propinarla; la loro scienza non può sbagliare;
d’altronde a morine è solo il paziente. Ma in quel cannocchiale
puntato sulla Grecia, qualcuno dei nostri economisti–columnist ha provato a guardare?
Un secondo buco nero, che non richiede nemmeno un binocolo per
essere visto, è una meteorite che sta per precipitare sul nostro già
devastato paese, e su molti altri, per ridurli in poco tempo in cenere
come la Grecia. Si chiama fiscal compact e prevede per le
finanze dell’Italia, a partire dall’anno prossimo, l’esborso di circa
50 miliardi all’anno, per venti anni di seguito, per restituire una
parte cospicua del debito pubblico del nostro paese. Cinquanta
miliardi che si andranno ad aggiungere ai quasi 100 che già sborsiamo
ogni anno, sotto forma di interessi, ai creditori (privati) dello
Stato italiano; soprattutto da quando è stato realizzato il
famigerato divorzio tra Governo e Banca d’Italia; la quale, da allora
non ha più potuto finanziare il deficit della spesa pubblica.
Cumulando gli interessi che lo Stato italiano ha pagato da allora,
infatti, e per nessun altro motivo, si è andato costituendo quel
mostruoso debito pubblico che oggi viene invece imputato a una
popolazione saccheggiata e impoverita, che secondo gli
economisti mainstream sarebbe vissuta per anni al di sopra
delle sue possibilità. Quel divorzio, peraltro, ha poi fornito
alla Bce il modello dello statuto che la esclude dal ruolo di
prestatore di ultima istanza; e che è all’origine della maggior parte
dei colpi inferti alla solidarietà e alla solidità dell’Unione
europea.
Per questo, sia detto di sfuggita, uscire dall’euro, posto che sia
fattibile, non ci restituirebbe certo un prestatore di ultima
istanza: un’istituzione che può invece venir reintrodotta solo con una
lotta condotta a livello europeo.
Bene, in quel binocolo nessun
economista–columnist sembra disposto a guardare: cioè
a spiegare da dove lo Stato italiano potrà mai tirar fuori tutto quel
denaro; ovvero quale tasso di crescita sarebbe necessario
raggiungere – e subito! – per far fronte a un impegno simile.
Preferiscono discettare, incensando il nuovo premier come avevano
fatto con tutti quelli venuti prima di lui, sui due o quattro
decimali di punto percentuale su cui potrebbe giocare Renzi per far
quadrare i conti senza far arrabbiare troppo la Commissione
europea. Ma può quel che resta del tessuto produttivo italiano, non
dico crescere, ma reggere ancora a lungo, se lo Stato destina ogni
anno alla rendita un decimo del Pil? Nessuna risposta in proposito
sembra venire dai politici e dagli economisti che stanno mandando
anche noi al rogo.
Il fatto è che per scrutare sia le viscere di quei poteri dove si
accentra ormai quasi metà della ricchezza della Terra, sia l’universo
di una popolazione mondiale – e nel suo piccolo, italiana —
proletarizzata, impoverita, sfruttata, indebitata e sospinta ai
margini di una vita decente, ci vogliono ben altre discipline che non
l’economia mainstream, di destra o di sinistra. Ci vuole una
scienza nuova che cancelli dalla faccia della terra tutti i quei
pregiudizi; una scienza come quella con cui Galileo aveva fatto
piazza pulita dell’universo tolemaico. O, forse, non una scienza vera
e propria, con tutti i paludamenti che accompagnano questo
termine, ma un insieme di saperi costruiti guardando in faccia il
mondo com’è. Dei saperi costruiti sulle evidenze della vita
quotidiana di milioni di uomini, di donne, di vecchi e di bambini;
sui loro bisogni; sui loro desideri; e soprattutto sui loro mille
talenti. Le forze che si stanno raccogliendo in Europa intorno alla
candidatura di Alexis Tsipras alla Presidenza della Commissione
europea – e che rivendicano una revisione radicale dei trattati
che regolano l’Unione, la remissione di una parte sostanziale dei
debiti e un grande piano di lavori pubblici per ricondurre il paese
alla sostenibilità ambientale — possono essere un punto di
riferimento per presentare oggi, e far valere sempre più domani,
una visione del mondo alternativa e una prospettiva radicalmente
diversa da quella concezione tolemaica del mercato come
“risolutore di ultima istanza” dei nostri problemi che ci sta
condannando tutti al rogo.
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