domenica 23 marzo 2014

Un bel contratto dura poco (figurarsi uno brutto) di Alessandro Villari, Carmillaonline.com


22/04/2013 Roma, rasmissione televisiva Otto e Mezzo, nella foto Matteo RenziIl decreto-legge che inaugura il Jobs Act di Matteo Renzi è appena entrato in vigore: se il buon giorno si vede dal mattino, c’è davvero da preoccuparsi.
Non ci sono particolari sorprese rispetto a quanto annunciato nel comunicato stampa del governo e nei successivi chiarimenti del Ministero del Lavoro. Ora apprendiamo che il provvedimento viene ufficialmente spacciato per una misura “al fine di generare nuova occupazione, in particolare giovanile“, e per rendere il contratto a termine e l’apprendistato “maggiormente coerenti con le attuali esigenze del contesto occupazionale e produttivo, nazionale e internazionale“.
È assolutamente evidente che le attuali esigenze di cui si parla sono quelle del padronato, che non si stanca mai di incassare nuovi strumenti per ricattare i lavoratori, stroncare i focolai di protesta, e alla fine della fiera abbassare gli stipendi: ancora una volta sono questi gli obiettivi, e questi i verosimili risultati dell’ennesima controriforma, che come tutte quelle che l’hanno preceduta non creerà neppure un posto di lavoro e contribuirà a peggiorare sensibilmente la qualità della vita di milioni di persone. È questa la vera ragione per cui viene scelto lo strumento del decreto-legge: non certo il timore che un Parlamento largamente addomesticato possa disapprovare il testo, ma il desiderio di imporre questa riforma senza che neppure se ne discuta, per fare in modo che passino il meno possibile, al di fuori dei soliti circoli, il vero significato e le conseguenze concrete del decreto.
Vediamone ancora una volta il contenuto, visto che ora abbiamo qualcosa di certo da commentare:
1. I contratti a termine (e in somministrazione)
Sarà sempre possibile stipulare contratti a termine di qualsiasi durata (fino a 36 mesi, ma 36 mesi è appunto il periodo massimo in cui si può essere assunti a termine) per lo svolgimento di qualsiasi mansione, senza necessità di individuare e specificare alcuna ragione. Entro i 36 mesi lo stesso contratto potrà essere anche prorogato fino a 8 volte: in pratica, un’azienda potrà assumere un lavoratore con un contratto di quattro mesi, e rinnovarlo o prorogarlo ogni 4 mesi per tre anni. In qualsiasi momento, naturalmente, oltre che alla fine dei tre anni, potrà anche decidere di non rinnovarlo o prorogarlo, senza che sia possibile protestare.
La conseguenza pratica è che, per tre anni, il datore di lavoro avrà diritto di vita e di morte sul lavoratore, potendo pretendere qualunque cosa (straordinari non pagati, disponibilità a saltare ferie o a lavorare in malattia) con la minaccia anche solo implicita che in caso di “sgarro” lo potrà mandar via senza colpo ferire; nel caso di una lavoratrice, non appena le vedrà al dito un anello di fidanzamento potrà non rinnovare il contratto nel “timore” che rimanga incinta. E via discorrendo.
Il ministro del lavoro Giuliano Poletti ha dichiarato qualche giorno fa che, dopo 36 mesi di contratto, è verosimile che l’azienda stabilizzi il lavoratore, ma la realtà dei fatti dimostra esattamente il contrario: già adesso, pur sapendo che se non lo stabilizzano dopo i 36 mesi può fare causa, e in 9 casi e mezzo su 10 vincerla, lo licenziano ugualmente. Figuriamoci con la certezza dell’impunità.
Qualcuno obietterà che è fissato un limite quantitativo all’utilizzo di contratti a termine, il 20% dell’organico complessivo. Innanzitutto, il decreto stesso fa salve tutte le già ampie possibilità di derogare a questo limite, comunque superiore a quello attualmente fissato nella maggior parte dei contratti collettivi: in fase di avvio di nuove attività, per ragioni di carattere sostitutivo o per lavori “stagionali”, nell’ambito del teatro e della televisione per specifici spettacoli o programmi, con lavoratori sopra i 55 anni non esisterà comunque nessun limite. Ma oltre a questo, nelle grandi aziende è comunque praticamente impossibile superare il 10% di personale a tempo determinato, considerando il personale amministrativo, gli impiegati di alto livello e i quadri, che normalmente devono assicurare continuità all’organizzazione aziendale: è per le mansioni a bassa specializzazione, quelle che neppure fanno curriculum e da cui non c’è mobilità ascendente, che la precarietà diventerà sempre l’unica regola. Per le imprese molto piccole, invece, quelle con meno di 5 dipendenti, sarà comunque sempre possibile stipulare un contratto a tempo determinato: non affezionatevi troppo alla cameriera che vi serve il caffè la mattina, non la vedrete a lungo.
Quasi dimenticavo di scrivere che tutte queste belle novità valgono anche per i contratti di lavoro in somministrazione, quelli tramite agenzia insomma: anche lì, niente più impugnazioni, etc. etc.
2. I contratti di apprendistato
Neppure qui ci sono sorprese rispetto a quanto era stato annunciato: eliminato l’obbligo di mettere per iscritto il piano formativo e di far svolgere all’apprendista anche della formazione esterna, vengono meno anche gli ultimi (peraltro risibili) ostacoli alla possibilità di assumere un apprendista senza fargli fare nemmeno 5 minuti di formazione. Con l’eliminazione di qualunque vincolo di stabilizzazione di una certa percentuale apprendisti per poterne assumere di nuovi, l’apprendistato diventa ufficialmente soltanto un contratto a termine più a buon mercato, tra agevolazioni contributive e retribuzioni più contenute.
Anche in questo caso, non un solo posto di lavoro verrà creato grazie a questa liberalizzazione: l’unica conseguenza sarà un aumento dello sfruttamento degli apprendisti, e un aumento della concorrenza per gli stessi posti di lavoro, con il prevedibile effetto di diminuire ulteriormente i salari.
Perché, alla fine, si torna sempre lì: per reggere la concorrenza, il padronato non cerca altro rimedio che tagliare il costo del lavoro, e a questo governo che come gli ultimi rappresenta esclusivamente gli interessi dell’imprenditoria non chiede altro che nuovi strumenti per pagare di meno a parità di lavoro.
Sempre il ministro Poletti ha dichiarato che gli effetti di questo decreto si vedranno nel giro di dieci mesi: su questo sono d’accordo. Nei prossimi mesi, i precari con quasi tre anni di “anzianità” perderanno il posto di lavoro senza poter fare più niente per riaverlo indietro, o almeno chiedere una buonuscita. Pure chi finora non si è mai sognato di impugnare un contratto alla scadenza, nella speranza che venga rinnovato, si troverà deluso e disarmato.
Per i precari ancora meno tutelati, quelli con il contratto a progetto o la finta partita IVA, per non parlare di chi lavora in nero, la concorrenza dei contratti a termine e di apprendistato liberalizzati significherà compensi più bassi rispetto a quelli già miserabili di oggi.
Per tutti, anche per i lavoratori a tempo indeterminato, alla prossima ondata di scadenze contrattuali vedremo rinnovi al ribasso, un peggioramento complessivo dei diritti e delle condizioni di lavoro in cambio di poche briciole, la diminuzione progressiva dei salari reali, il tutto in mancanza di un valido strumento per alzare la posta.
Tra dieci mesi, se non si mette in campo da subito una resistenza all’altezza dell’attacco che ci viene portato, sarà troppo tardi per accorgersi di tutto quello che è stato perso.

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