“Illegale”.
Usa e Unione Europea hanno definito così il referendum in Crimea. E un
generale statunitense, quello che guidava l'intervento militare in
Bosnia, è stato invitato a spiegare (su La Stampa) che “il
Kossovo non è un precedente”. In effetti, in Kossovo non c'è stato
neppure un referendum prima, ma solo dopo l'intervento militare
occidentale, che ha sancito per questa via la separazione del territorio
a maggioranza albanese dal resto della Serbia.
Nella definizione, però, si dà per scontato qualcosa che invece non
lo è affatto: cosa è “legale” o “illegale” nel diritto internazionale?
Qual è, insomma, la fonte della legge? Per il giudice Roy Bean era tutto
molto semplice: "la legge a ovest del Pecos sono io"... Qui si cammina
verso est, ma il concetto non cambia.
L'Onu è un organismo di mediazione intergovernativa, dove cinque
paesi hanno diritto di veto e possono bloccare qualsiasi risoluzione. E
lo fanno anche spesso, a turno, perché hanno interessi geostrategici
contrapposti. Usa e Russia – che ha ereditato il seggio sovietico –
difficilmente votano insieme. E così la Cina, che più spesso si astiene
(lo ha fatto anche stavolta) per non rovinare i rapporti – molto
differenti – che intrattiene con entrambe le potenze. La Gran Bretagna
vota generalmente a seconda di quanto decide Washington, la Francia
dipende.
Quindi, chi è il “legislatore globale”?
Nessuno, tutto dipende da accordi, trattati. Che difficilmente sono
sottoscritti da tutti i diretti interessati. Il paese con il record di
risoluzioni dell'Onu respinte e non applicate è Israele, ma nessuno
stato ha mai proposto sanzioni contro Tel Aviv. Le stesse “sanzioni”
sono decise di volta in volta da gruppi di paesi riuniti intorno a una
superpotenza – sempre gli Stati Uniti, da molto tempo a questa parte,
negli ultimi anni anche l'Unione Europea – con l'astensione o il voto
contrario di molti altri. Le applica chi ha la forza per farlo: è una
decisione “privata” (in senso giuridico internazionale) non una
“prescrizione di legge”. Per il buon motivo che una “legge” - nel senso
pieno che usualmente si dà a questo termine - non esiste.
Eppure si parla e si scrive – specie sui giornali mainstream – in
questo modo. La ragione è intuibile, se si accetta la bruta realtà: “noi
siamo i buoni, chi ci sta contro sono i cattivi; noi stiamo dalla parte
della legge, loro la violano”. È “illegale”, insomma, quello che fa “il
nemico”; qualsiasi cosa faccia. Persino un referendum – il massimo,
teoricamente, dell'espressione della volontà popolare - in una regione
che per molte ragioni “deve restare nostra”. Il problema è che, in un
conflitto, “nostra” viene detto da due parti esattamente contrapposte. E
non c'è legge che decida, nello “stato di eccezione”; ogni riferimento a
una “legge” non può che essere a geometria variabile, sulla base di
“princìpi” così elastici da non poter essere neppure formulati.
Propaganda di guerra, dunque, né più né meno; giustificazione
militante dell'intensificazione della “pressione” bellicista, non solo
sul “nemico”, ma anche sulla propria popolazione; costruzione del
consenso coatto a decisioni gravi, pericolose, con un margine di rischio
elevatissimo (in questo caso si sta prendendo di mira una potenza
nucleare e missilistica, non una maxi-tribù araba armata alla bell'e
meglio).
Tutto è “illegale” quando l'interesse dominante esclude la
mediazione. È “illegale” chi si oppone al Tav, chi lotta per avere una
casa, chi si mobilita per difendere i diritti (“le leggi”!) sul lavoro o
alla pensione in età ancora “godibile”. Sul piano internazionale, o
inter-imperialista, avviene lo stesso slittamento semantico: “Il nemico”
è per definizione anche “illegale”. In fondo è l'accusa minore che gli
possa venir fatta. Sono 30 anni, non a caso dalla caduta del Muro, che
spunta fuori un “nuovo Hitler” a scadenze regolari. Ne ricordiamo solo
alcuni, dimenticandone forse altri: Noriega (Panama, ex agente della
Cia), Milosevic, Saddam (due volte), Gheddafi, Assad, persino il Chavez
che vinceva una tornata elettorale l'anno in presenza di centinaia di
osservatori internazionali...
In Ucraina il gioco si è un po' rotto: Yanukovich è scappato ai primi
spari, gli ammiratori di Hitler sono “dalla parte nostra” (ma non fa
niente...), e persino i meno embedded tra i commentatori invitano a
tenere conto dei “rischi di effetto domino”... Non per nulla la guerra
in Bosnia partì con un referendum voluto e riconosciuto soltanto da una
parte in gioco. Chi allora mandò i bombardieri per imporne il rispetto, a
che titolo – oggi – può definire quello crimeano “illegale”?
Soprattutto: ora che avete scoperchiato il vaso di Pandora dei
nazionalismo micro e macro, dove pensate di poter bloccare la corsa
della Bestia? Fino al 1989, nell'Europa a Est di Gorizia c'erano dieci
Stati, oggi ce ne sono trenta. Pensate di poter dire “basta” lì dove
finiscono gli interessi dell'imperialismo Usa e di quello – un po' più
spuntato, militarmente – dell'Unione Europea? Come se “gli altri”
(Russia e Cina, per cominciare) non esistessero e non avessero
altrettanti interessi da accampare? A questa assenza di pensiero
strategico, siete ridotti?
Ai giornali mainstream non si può chiedere un di più di riflessione,
ma è impensabile che nei think tank che contano non si siano fatti due
conti un po' più precisi. E se la risposta è stata questa, allora vuol
dire che la dinamica della crisi (economica, quindi sistemica) sta
assumendo proporzioni incontrollabili. E si sta passando dal “calcolo”
all'”azzardo”. Allacciate le cinture e accendete il cervello, vi
servirà...
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