Conversazione di Enzo Traverso con Régis Meyran
In
una lunga conversazione con Régis Meyran Enzo Traverso ripercorre la
storia e la parabola dell’intellettuale che da guastafeste e
intelligenza critica che afferma la verità contro il potere si è
progressivamente trasformato in “esperto” al servizio dei potenti e
specialista della comunicazione. In questo nuovo paesaggio segnato dalla
fine delle utopie, dalla svolta conservatrice degli anni Ottanta e
dalla mercificazione della cultura, il pensiero dissidente non è pero
scomparso. Ora per inventare nuove utopie gli intellettuali dovranno
uscire dai loro ambiti specialistici e ritrovare un atteggiamento
universalista. Qui anticipiamo un estratto dal libro-intervista uscito in Francia nel 2013 e in arrivo nelle librerie italiane il 26 marzo per le edizioni ombre corte.
Le nuove utopie potrebbero venire dai movimenti di controcultura, apparsi nel dopoguerra contro la cultura di massa?
Mi
sembra che oggi la controcultura degli anni Sessanta e Settanta sia
generalmente scomparsa, o che esista in forme molto limitate. I giovani
che si trasferiscono in campagna, per esempio a Tarnac, per creare una
sorta di falansteri moderni, sottraendosi alla società di mercato,
creano una controcultura che vorrebbe diventare un modello. È un
fenomeno interessante ma marginale. Inoltre, l’esperienza del passato
dimostra che la controcultura può farsi assorbire dal sistema di
mercato. Molti autori hanno analizzato la straordinaria capacità del
capitalismo di recuperare, integrare e quindi neutralizzare i movimenti
culturali che lo criticano. Il rock & roll è stato una sfida
violenta all’America autoritaria, conservatrice e puritana degli anni
Cinquanta, prima di diventare uno dei settori più redditizi
dell’industria culturale. London Calling, la canzone che i Clash urlavano nel 1979
come un’esortazione alla rivolta, nel 2012 è diventata l’inno ufficiale
dei giochi Olimpici di Londra, spettacolo planetario e gigantesca
kermesse commerciale… Nel 1989, con la celebrazione del suo
bicentenario, la Rivoluzione francese si è trasformata in un puro
spettacolo messo in scena per l’industria culturale.
Ma non restano dei focolai di pensiero critico, nell’editoria per esempio?
Abbiamo
assistito, in questi ultimi anni, in particolare in Francia, alla
nascita di diverse case editrici alternative che diffondono nuove teorie
critiche, senza intenti commerciali. Certo, sopravvivono con
difficoltà, ma si sono ritagliate un loro spazio nel panorama culturale.
Questa scena alternativa, fatta di piccoli editori e di una rete di
librerie, non può essere ignorata. Non è raro, in Francia, che un grande
quotidiano dia conto di un libro pubblicato da Amsterdam o da La Fabrique. Esperienze simili esistono in Italia, dove sopravvive un quotidiano come il manifesto;
in Germania, dove è sempre esistita una fitta rete di riviste
alternative e di case editrici della sinistra radicale, e in Gran
Bretagna, dove Verso ha una storia e una dimensioni di tutto rispetto. Il successo di una rivista radicale come Jacobin negli Stati Uniti è incoraggiante.
Al
contrario, pochi degli intellettuali o delle persone che provengono da
questa cultura alternativa hanno accompagnato gli attuali movimenti
sociali. Come interpretare questa sconnessione tra i (pochi)
intellettuali critici e gli attuali movimenti sociali?
È
un problema reale. La sconfitta storica del 1989 ha fatto si che i
movimenti sociali oggi siano rimasti orfani. Il paradosso della nostra
epoca è che essa è ossessionata dalla memoria, mentre i suoi movimenti
di contestazione – gli indignati, la “primavera araba”, Occupy Wall
Street, ecc. – non hanno nessuna memoria… Non possono inscriversi nella
continuità con i movimenti rivoluzionari del Novecento. Questi movimenti
sono animati essenzialmente dai giovani, mentre gli intellettuali
critici sono più anziani: hanno almeno sessant’anni. Dobbiamo dedurne
che vi sia una guerra tra generazioni, anche se non si dice?
Non
parlerei di una guerra tra generazioni. E del resto i giovani
intellettuali impegnati sono numerosi, anche se non hanno la stessa
visibilità né il riconoscimento dei loro predecessori. I movimenti di
questi ultimi anni sono alla ricerca di nuove prospettive, ma non hanno
un orientamento politico chiaramente definito. Sono apparsi in diversi
paesi – in Spagna, negli Stati Uniti, in Inghilterra, in Italia, nei
paesi arabi – ma non sono mai riusciti a darsi strutture politiche
permanenti. Si veda il caso di Occupy Wall Street, un movimento di cui
si è parlato molto ma che è quasi scomparso durante la campagna
presidenziale del 2012.
Restano comunque alcuni
intellettuali critici come Jacques Rancière o Alain Badiou. Sono in
sintonia con i movimenti sociali del nostro tempo?
Rancière
e Badiou sono filosofi che criticano il potere contemporaneo. Sono
molto interessanti, ma non sono in grado di offrire un progetto ai nuovi
movimenti sociali. D’altra parte, essi non hanno, comprensibilmente,
una tale ambizione, e non si presentano come leader. Rancière ha dato un
contributo fondamentale, per ripensare la democrazia e l’emancipazione,
in lavori come La nuit des prolétaires (1981) o La haine de la
démocratie (2005). Badiou, strana figura di comunista platonico, seduce
per l’acutezza della sua critica, il suo stile brillante e la radicalità
del suo pensiero, ma i suoi riferimenti politici sono vecchi –
l’“Organizzazione” (maoista) – e un po’ sconcertanti.
Nell’università,
il pensiero critico è abbastanza vivace. Vi sono filosofi come Giorgio
Agamben, Nancy Fraser, Toni Negri, Slavoj Žižek, storici come Perry
Anderson, geografi come David Harvey, teorici e sociologi della politica
come Michael Löwy, Sandro Mezzadra, Philippe Corcuff e molti altri…
Fuori dell’università, vi sono scrittori e saggisti come Tariq Ali, ecc.
Ma quando si svolge a Londra un convegno sull’“attualità del
comunismo”, fa un po’ sorridere. I giovani in ogni caso non li
riconoscono davvero come interlocutori. Negli Stati Uniti, Judith Butler
riempie gli anfiteatri di giovani studenti, ma questa vasta influenza
intellettuale non ha nessun impatto politico.
Si
potrebbe dire la stessa cosa a proposito degli studi postcoloniali.
Delle vere e proprie “star” sono apparse nei campus americani, come i
teorici critici di origine indiana Homi Bhabha e Gayatri Chakravorty
Spivak. Per i giovani insorti del Cairo e di Tunisi, tuttavia, Bhabha e
Spivak non rappresentano nulla. La rottura tra intellettuali critici e
movimenti sociali rimane considerevole. Daniel Bensaïd, che è stato un
passatore insostituibile tra le generazioni, così come tra gli
intellettuali e i militanti, considerava questa questione assolutamente
decisiva quando ha creato lo Sprat (Societé pour la résistance à l’air du temps), oggi diventata Société Louise Michel, e la rivista Contretemps.
Possiamo
chiederci se il fenomeno non sia anche strutturale: i baby booumer sono
molto numerosi, e detengono i posti chiave della cultura. Come possono
dunque i giovani inventare un’altra utopia, se non hanno la possibilità
di esprimersi, o restano accantonati nei margini?
Certo,
la situazione di chi oggi ha vent’anni non è paragonabile a quella dei
baby boomer degli anni Sessanta. Ma la paralisi dei movimenti di
protesta contemporanei non è dovuta ai baby boomer. Essa dipende dal
congiungersi della sconfitta storica delle rivoluzioni del Novecento con
l’avvento di una crisi altrettanto storica del capitalismo, che priva
di futuro una generazione. I più sensibili alle ingiustizie della
società sono i giovani precari, che sono passati attraverso l’università
e hanno avuto accesso alla cultura. Le condizioni per un’esplosione
sociale ci sono tutte, ma non c’è nessun miccia per accendere le
polveri. Speriamo che qualcuno riesca a trovarla nei prossimi anni.
Che cosa differenzia le “rivoluzioni arabe” dalle rivoluzioni che si sono avute nel passato?
Le
rivoluzioni arabe sono un processo in corso ed è difficile prevederne
l’esito, perché le contraddizioni che le attraversano sono profonde. Si
tratta sicuramente di grandi movimenti che esprimono sia un desiderio
irrefrenabile di libertà sia la sofferenza di una generazione colpita
dall’esclusione sociale. In Tunisia e in Egitto esse hanno rovesciato
delle dittature, il che non è una cosa da poco. Nessuno le aveva
previste. Nello stesso tempo però, questi movimenti non sono stati in
grado di proporre un’alternativa, e questa è la chiave del successo
elettorale degli islamisti. In Libia e soprattutto in Siria, i movimenti
spontanei hanno incontrato ostacoli più potenti e dato luogo a guerre
civili, che si sono trasformate in scontri interetnici arrestando la
dinamica avviatasi all’inizio del 2011.
Un tratto
comune di questi movimenti è dato dal fatto che essi non erano
inquadrati da nessuna organizzazione egemonica e che non avevano un
orientamento ideologico chiaramente definito. Le nuove generazioni che
li animano non hanno riferimenti politici. Esse non possono richiamarsi
né al socialismo né al panarabismo, ormai discreditati, e perché si
battono contro regimi che spesso ne sono gli eredi, dall’Egitto alla
Libia. Esse non invocano più nemmeno l’islamismo, anche se quest’ultimo
ha tratto profitto sul piano elettorale dalle loro rivoluzioni. Infine,
esse sono molto lontane dal terzomondismo e dall’anticolonialismo,
nonostante la loro ostilità verso gli Stati Uniti e Israele, visto come
il rappresentante degli interessi del mondo occidentale in Medio
Oriente. Nella loro mancanza di prospettive, queste rivoluzioni sono
dunque lo specchio di questo inizio del secolo XXI, il cui profilo
comincia appena a delinearsi.
Ma
il confronto si pone tra il nuovo secolo e quello trascorso. All’alba
del Novecento, il futuro non era altrettanto incerto in un mondo che
subiva la catastrofe della Grande Guerra, disorientato dal crollo della
civiltà?
No, non credo che si possa confrontare
il nostro tempo con la svolta del Novecento, né con l’inizio del secolo
XIX. Quest’ultimo si apre con la Rivoluzione francese, che è stata la
matrice dell’idea di progresso e di socialismo. Il Novecento si apre con
la Grande Guerra, vale a dire il collasso dell’ordine europeo, ma la
guerra dà origine alla rivoluzione russa e alla nascita del comunismo,
un’utopia armata che proietta la sua ombra su tutto il secolo. Il
comunismo ha conosciuto i suoi momenti di gloria e i suoi momenti di
abiezione, ma costituiva un’alternativa al capitalismo. Il secolo XXI si
apre con la caduta del comunismo. Se la storia è una tensione
dialettica tra il passato come “campo di esperienza” e il futuro come
“orizzonte di aspettativa”, secondo la formula di Reinhart Koselleck,
oggi, all’alba del secolo XXI, l’orizzonte di attesa sembra essere
scomparso.
Ci sono stati altri periodi in cui non c’era un orizzonte di aspettativa?
Forse
all’inizio del Medioevo, dopo la caduta dell’Impero Romano. O ancora,
come ha dimostrato Tzvetan Todorov, al momento della conquista del
Messico, che ha alimento le utopie dell’Occidente e prodotto la fine
delle civiltà precolombiane. Ma queste transizioni si sono prolungate
nel tempo, non sono state improvvise come la svolta del 1989. L’utopia
nasce spesso con abiti antichi e si mostra sensibile alla poesia del
passato, come scriveva Marx, ma la situazione attuale, che alcuni
chiamano “presentista”, è diversa. I movimenti contestatari di oggi
oscillano tra Scilla e Cariddi, tra il rifiuto del passato e la mancanza
di futuro.
Possiamo dire che l’era della rivoluzione come mezzo per cambiare il mondo scompare con il secolo XXI?
Il
mondo non può vivere senza utopie e ne inventerà di nuove. Quello che
mi sembra certo è che non ci saranno più rivoluzioni in nome del
comunismo, almeno di quello del Novecento. Quest’ultimo è stato prodotto
da un’epoca di guerre, ha concepito la rivoluzione secondo un paradigma
militare, e quest’epoca è finita. Possiamo formulare l’ipotesi che le
future rivoluzioni non saranno comuniste, come furono quelle del secolo
scorso, ma rimarranno rivoluzioni anticapitaliste, ossia si faranno per i
beni comuni che bisogna salvare strappandoli alla reificazione del
mercato. Le rivoluzioni non si decretano, nascono da crisi sociali e
politiche, non sono il prodotto di nessuna “legge” della storia, di
nessuna causalità deterministica. S’inventano e il loro esito è sempre
incerto. Oggi, bisogna saper interiorizzare la sconfitta delle
rivoluzioni del passato senza per questo piegarsi all’ordine del
presente. Non tutte le rivoluzioni sono gioiose. Nella nostra epoca,
sarei piuttosto incline a pensarle, con Daniel Bensaïd, come una
“scommessa malinconica”.
Le immagini sono di Alfredo Jaar
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