Siccome è il Corriere della Sera – con tutta la visibilità e il bisogno di reputazione di un big medium – alla fine i dipendenti del gruppo sono riusciti (bravi) a far saltare
il super bonus che i manager intendevano autoattribuirsi per aver
raggiunto gli obiettivi di risparmio (92 milioni): tutti o quasi
peraltro ottenuti alla voce “costo del personale”, cioè mandando in
cassa integrazione e prepensionando i dipendenti stessi, e a fronte di
conti economici ancora tutt’altro che floridi.
Ma non sarebbe elegante qui prendersela un’azienda concorrente a
quella per cui lavoro, quindi non è di questo di questo che voglio
parlare.
Mi interessa invece un problema piuttosto serio che mi pare diffuso e
trasversale – pensate alla sparata di Moretti sul proprio stipendio,
ad esempio: perché da cinque anni si processano tutte le “caste”
possibili immaginabili (politici, giornalisti, magistrati, notai,
farmacisti, tassisti, avvocati etc) mentre quella dei manager è rimasta
intoccabile?
Io un paio di possibili risposte ce le ho, in merito.
La prima è che semplicemente i componenti di questa casta (pubblici o privati che siano) controllano indirettamente tutti i media o quasi: e, come si suol dire, nessun tacchino festeggia il Thanksgiving. Molto meglio quindi canalizzare l’odio e la rabbia sociale verso altri obiettivi, o semplicemente evitare l’argomento (almeno in termini generali: ce la si prenda pure con Moretti o con Marchionne, ma non con la categoria nel suo complesso).
La seconda possibile risposta è che il passaggio dal lento
capitalismo industriale a quello iperveloce finanziario ha portato a
malintendere parecchio il concetto di meritocrazia: il manager “bravo”
ormai è quello che ottiene la fiammata in Borsa, non quello che
costruisce la solidità aziendale di qui ai prossimi dieci anni.
C’è poi una variabile molto italiana, che ho visto applicata in
un’azienda in cui lavoravo una quindicina di anni fa, quando dirigevo
dei (piccoli) mensili e quindi avevo rapporti quotidiani con i vertici
in cravatta: la cordata.
Nel senso che ho riscontrato una tendenza diffusa dei manager a
proteggersi l’un l’altro (anche rispetto all’azionista) perché se io
oggi proteggo te, tu domani proteggi me. Una sorta di patto di non
belligeranza finalizzato all’autosalvaguardia comune, che ovviamente ha a
sua volta pochissimo a che fare con il concetto di meritocrazia:
branditissimo in pubblico e praticato il meno possibile in privato.
Sui privilegi spesso immeritati di questa casta scrisse un libro
quasi dieci anni fa un anonimo molto ben informato, che devo avere
ancora a casa da qualche parte. Era roba che faceva venire il sangue
caldo e non so se e quanto, scoppiata la crisi, il panorama sia
cambiato. Credo poco.
A proposito, vedo che ultimamente qualcuno si chiede
in giro se la chiusura autoprotettiva e autopremiante di questa élite
non abbia qualcosa a che fare con la crisi stessa, non sia cioè una tra
le cause dell’inefficienza economica. Perché i manager scadenti che
tuttavia rimangono imbullonati ai loro posti di comando alla fine
impattano negativamente su tutta l’economia.
Mi sembra già un bel passo in avanti solo porsi la domanda.
Per quanto riguarda la risposta, temo che valga quello che ho scritto
qualche giorno fa: cioè è un’altra delle tante battaglie che si possono
fare solo in sede non nazionale. Anche per la gioia di Moretti, che
sembra tenerci tanto, e che chissà che carriera avrebbe fatto
all’estero, senza agganciarsi per un quarto di secolo ai politici
bipartisan che l’hanno portato lì.
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