Spesso si sente il ritornello della “governabilità: ”Bisogna che il
sistema elettorale assicuri la governabilità”. Ed in nome di questo si
caldeggiano premi di maggioranza, collegi uninominali, soglie di
sbarramento e trappole varie. Lasciamo da parte se la governabilità sia
un bene in sé e concentriamoci sul significato del termine: che
significa governabilità? Grosso modo, possiamo definire il termine in questo modo: la stabilità di governo possibilmente per tutta
la durata della legislatura. Dunque, garantire che non ci siano crisi di
governo che interrompano l’attuazione dei programmi decisi.
E siccome è più probabile che una crisi di governo si inneschi in un
governo di coalizione piuttosto che in uno monocolore, occorre fare in
modo che il partito vincitore abbia da solo i numeri per governare e non
sia costretto ad allearsi a nessuno.
Di qui deriva l’esigenza di trasformare
una maggioranza relativa di voti in una maggioranza assoluta di seggi.
Ragionamento apparentemente impeccabile che, in realtà, non si mantiene
in piedi.
Infatti, pur di raggiungere la soglia
di primo classificato, ciascun partito cercherà di stringere il maggior
numero di alleanze possibile. Dunque, le dinamiche del “governo di
coalizione” non sarebbero evitate ma, uscite dalla porta della
coalizione formata dopo il voto, rientrerebbero dalla finestra della
coalizione formata prima delle elezioni. E non importa se la coalizione
assuma la forma di più liste apparentate o di lista unica: sempre di una
coalizione si tratterebbe.
Come dice Sartori (autore molto lontano
dalle mie posizioni, ma che, quando si parla di sistemi elettorali, sa
quello che dice): “Un sistema elettorale, da solo, non ha la forza di
creare un sistema bipartitico, anche se contribuirà a conservarlo una
volta che si sia formato”. Pertanto, nessun sistema elettorale, neanche
il maggioritario più puro è in condizione di escludere le dinamiche dei
governi di coalizione, con relative crisi.
E il ventennio maggioritario italiano
conferma in pieno questo assunto: in 19 anni di sistema maggioritario
(dall’aprile 1994 all’aprile 2013) non c’è stato un solo governo di
legislatura:
-nel 1994 fu la Lega di Bossi uscì dalla
coalizione di centro destra dopo soli sette mesi, determinando la
caduta del governo Berlusconi
-nel 1998 fu Rifondazione Comunista ad
uscire dalla maggioranza di centro sinistra facendo cadere il governo
Prodi, cui successe il governo D’Alema che, nel giugno 2000, si dimise a
sua volta per le tensioni interne alla maggioranza, lasciando il posto
ad Amato
-nel 2005 fu l’Udc di Casini a provocare
la caduta del governo Berlusconi, cui seguì un nuovo governo Berlusconi
che concesse la riforma del sistema elettorale ( il “Porcellum”)
nel 2008 furono i gruppi di Dini e Mastella a far cadere Prodi ed aprire la strada alle elezioni anticipate
nel 2008 furono i gruppi di Dini e Mastella a far cadere Prodi ed aprire la strada alle elezioni anticipate
Ma non si è trattato solo di rotture
interne alle coalizioni, quanto anche di scissioni del partito di
maggioranza, come accadde nel 2010, con la scissione di Fini dal Pdl,
che ridusse ai minimi termini la maggioranza di centro destra, che poi
crollò definitivamente nel novembre 2011.
Dunque, sin qui la regola del
maggioritario sembra essere stata piuttosto questa: “Chi si divide
perde, ma chi vince non governa”.
Il punto è questo: la stabilità di
governo non è cosa che dipenda dal sistema elettorale (anche se un
sistema maggioritario aumenta le probabilità di durata di un governo),
quanto piuttosto dalla forma di governo. Per definizione, un sistema
parlamentare (cioè in cui il governo dipenda dal voto di fiducia del
Parlamento) non garantisce la durata del governo, anche se possono
esserci utili correttivi come la sfiducia costruttiva (come in
Germania). Una durata predeterminata del governo è possibile solo in un
sistema di tipo presidenziale: si elegge il capo del governo (che spesso
coincide con il Capo dello Stato) che resta in carica per un periodo
preciso (di solito 4-5 anni) e non dipende dal voto di fiducia del
Parlamento.
Se l’obiettivo che si intende perseguire
è questo, non c’è dubbio che l’unico sistema per ottenerlo è la forma
di governo presidenziale.
Ma, allora, cambiare il sistema
elettorale è inutile? Non è così. Ha effetti ma molto diversi da quelli
dichiarati che nascondono le vere intenzioni. Il passaggio dal
proporzionale al maggioritario serve a poco dal punto di vista della
governabilità ma assicura altri effetti:
a) subordinare il Parlamento al governo, assicurando la centralità dell’esecutivo anche nella formazione delle leggi
b) modellare il sistema politico
rendendo più difficile la formazione di nuove forze politiche e, quindi,
blindando quelle esistenti
c) di conseguenza, assicurare una maggiore autonomia del ceto politico dalla società civile
d) determina una tendenza centripeta del sistema politico, così da emarginare le forze antisistema.
Il maggioritario tende a stabilizzare il
quadro politico esistente e, pertanto, determina la formazione di
sinistra e destra nominali, che in realtà sono entrambe forze di centro
tendenti verso l’una o l’altra sponda del sistema. Non è un caso che,
dal 1994 le coalizioni abbiano preso a denominarsi “centro sinistra” e
“centro destra”. Nel maggioritario c’è solo un grande centro più o meno
caratterizzato in un senso o nell’altro.
Non dico che questa sia una operazione
illegittima o criminale, ed è lecito proporre un assetto di sistema che
abbia caratteristiche di centralità dell’esecutivo, stabilità del ceto
politico esistente e che ostacoli la formazione di nuovi partiti, ma
perché non dichiararlo apertamente e contrabbandare tutto con la truffa
della governabilità?
Forse perché la gente reagirebbe malissimo all’idea di blindare il ceto politico esistente?
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