A Mauro
Moretti, il flemmatico Amministratore delegato delle Ferrovie dello
stato proveniente dalla segreteria della Cgil trasporti - carriera
disinvolta come si vede - che non vuole rinunciare ai suoi 873mila euro
di stipendio annuo, anzi li ritiene insufficienti perché il suo è "il
lavoro più duro" in un'azienda così difficile da governare, potrebbe
fare bene leggere con attenzione le cifre diffuse ieri dal Dipartimento delle Finanze relative all'anno di imposta 2012.
Si accorgerebbe che il reddito medio dichiarato dagli italiani è
pari a 19.747 euro annui; che i lavoratori dipendenti, dal momento che
non possono evadere, si collocano poco sopra questa media con circa
20.200 euro annui; che la folta schiera di imprese autonome individuali e
senza dipendenti, commerciali o artigiane, dichiarano meno di questi
ultimi, in media 18.844 euro, evidenziando così una smaccata tendenza
all'evasione fiscale che purtroppo nel nostro paese è
molto diffusa, oltre a trovare luoghi di massima concentrazione in
alcune grandi imprese (tanto è vero che in contabilità semplificata
dichiarano 16.380 euro, mentre in quella ordinaria, ove devono
dichiarare in modo molto più dettagliato, raggiungono i 27.710 euro);
che il mondo dei professionisti - avvocati, notai, medici,
commercialisti ecc. - dichiara in media quasi 36 mila euro, ma l'80% di
loro sta sotto i lavoratori dipendenti con meno di 20 mila euro. Insomma
siamo di fronte ad una realtà nella quale l'evasione fiscale
rappresenta un tratto caratteristico del caso italiano, essendo di
diversi punti superiore ai paesi più forti dell'Unione europea. Malgrado
gli sforzi avviati in modo particolare da Vincenzo Visco durante il
secondo governo Prodi, l'obiettivo di una riduzione sensibile della
evasione fiscale che permettesse di ridurre la pressione fiscale
effettiva su chi invece le tasse le paga tutte e di abbattere questo
differenziale negativo e poco onorevole con il resto dell'Europa, è ben
lontano dall'essere raggiunto.
L'altro tema su cui Moretti e gli altri super pagati manager
dovrebbero riflettere è la crescente polarizzazione dei redditi nel
nostro paese, di cui proprio loro sono i protagonisti nella parte alta
della forbice. E' vero che questo non è un fenomeno solo italiano. Anzi,
come dimostrano accurate analisi economiche, come quelle di Thomas Piketty, di Emmanuel Saez,
del gruppo dell'Università di Gottinga che continua il grande lavoro di
studio sulla storia pluricentenaria del capitalismo mondiale avviato
dallo scomparso Angus Maddison, sono proprio le grandi differenze
reddituali all'interno dei singoli paesi una delle cause e insieme degli
effetti della grande crisi economica mondiale nella quale siamo tuttora
immersi.
Ma questa considerazione pur giusta non può assolvere il sistema
italiano, ove la differenza da uno a 500, per restare basso, tra la
retribuzione di un lavoratore e quella del suo manager è ormai
condizione comune, anzi status richiesto e garantito. Infatti Moretti,
se gli riducono lo stipendio, minaccia di andarsene, ritenendo tale
misura come un insulto alla propria condizione. Come ha scritto in un
bel libro di qualche anno fa David Rothkopf, siamo di fronte a una nuova
superclass, a una elite globale di dirigenti e di manager che possono
contare persino di più dei proprietari effettivi delle imprese. Come del
resto aveva previsto persino Karl Marx in un passo del Capitale.
E' inutile girarci attorno. Se si vuole aggredire cause ed effetti
della crisi, simili disuguaglianze vanno drasticamente ridotte. Sia
dall'alto che dal basso. Ovvero sia riducendo i superstipendi, peraltro
non motivati da nessun criterio di produttività e di buon andamento
delle imprese, sia dal basso aumentando i redditi di chi lavora. Altro
che 80 euro in busta paga promessi da Matteo Renzi,
ma pagati attraverso i tagli della spending review di Cottarelli che
prevede la cacciata di 85mila lavoratori del pubblico impiego o con il
nuovo piano di privatizzazioni di Padoan.
C'e' chi si è arricchito durante questa crisi. Ad esempio quello
0,11% di contribuenti che può dichiarare fra i 200mila e i 300mila euro.
Ad esempio tra i possessori di 113 mila abitazioni posizionate
all'estero per il valore di 23 miliardi di euro, che sarebbe esattamente
la metà di quanto ci costerebbe il rispetto del fiscal compact a
partire dal prossimo anno per i venti anni a venire. Non se ne può
uscire senza l'istituzione di una patrimoniale soggettiva - non tante
"patrimonialine" sulle singole cose - che riguardi tutte le forme di
proprietà della persona, siano esse mobiliari quanto immobiliari, con
un'aliquota bassa e progressiva tale da non impoverire nessuno, ma nello
stesso tempo in grado di assicurare il principio costituzionale che chi
più ha maggiormente e proporzionalmente deve contribuire al
mantenimento della cosa pubblica.
Nessun commento:
Posta un commento