E se la risposta è no, cosa ne avrà pensato Angela Merkel?
Cosa
avrà detto ieri alla Merkel Matteo Renzi? Avrà senz’altro ammorbidito i
toni rispetto a qualche anno fa – quando da sindaco si diceva pronto a
violare il “patto di stupidità” –, e avrà ribadito che “nessuno si
sogna di sforare il tetto” del famigerato 3% di rapporto deficit/Pil
stabilito dal Trattato di Maastricht, come ha ripetuto in conferenza
stampa. Chissà però se Renzi ha ripetuto quello che ha detto agli
italiani e cioè che vorrà sfruttare il più possibile i “margini” che
secondo lui offrirebbe il Patto. La logica renziana è quanto segue:
poiché si prevede che nel 2014 l’Italia registrerà un rapporto
deficit/Pil del 2.6% – dunque al di sotto della soglia del 3% –
l’Italia avrebbe “un margine ulteriore di 6 miliardi di euro” (0.4% del
Pil) che potrebbe coprire una buona parte dell’annunciato taglio di 10
miliardi del cuneo fiscale. L’annuncio sarebbe senz’altro
apprezzabile, se non fosse che esso si basa su una lettura molto
semplicistica (e fondamentalmente sbagliata) del Fiscal Compact, cosa
che sembra la Merkel gli abbia ricordato. Non sappiamo se nella sua
immaginazione lo abbia messo dietro una lavagna con finte orecchie da
asino, però Angela ci ha tenuto a precisare che quello che bisogna
rispettare non è più tanto Maastricht, ma il nuovo Patto di stabilità,
il Fiscal Compact che entra in vigore quest’anno e le cui regole sono
state stabilite con i pacchetti di regolamenti two-pack e six-pack.
Non sappiamo se Renzi stia facendo il finto tonto oppure
effettivamente non conosca bene le norme del Fiscal Compact. Sembra che
i tedeschi si siano orientati su quest’ultima possibilità.
A sentire Renzi, infatti, sembrerebbe che il problema del rispetto del
Fiscal Compact riguardi unicamente il rispetto del vincolo del 3%. Il
premier, però, ignora – o fa finta di ignorare – che il Fiscal Compact
impone dei vincoli di bilancio molto più stringenti del 3%, già
previsto dal Trattato di Maastricht (e successivamente rafforzato dal
Patto di stabilità e crescita del 1999).
Come abbiamo spiegato in dettaglio nell’ultimo post,
il Fiscal Compact non guarda tanto al deficit nominale (fermo restando
l’inviolabilità assoluta del limite del 3%) quanto al cosiddetto
“deficit strutturale”. Ma cosa si intende esattamente per bilancio o
deficit strutturale? Quest’ultimo viene calcolato dalla Commissione in
base a dei parametri del tutto arbitrari e fortemente ideologici (e
fortemente contestati), e ufficialmente serve a stabilire quale sarebbe
il deficit di uno stato membro se la sua economia stesse operando al
“massimo potenziale”. Si tratta in sostanza di un indicatore che
dovrebbe permettere alla Commissione di giudicare se il deficit di un
paese sia dovuto alla congiuntura economica, nel qual caso potrebbe
essere eliminato per mezzo della crescita; o se invece sia
“strutturale”, ossia continuerebbe a sussisterebbe anche se il paese
riprendesse a crescere e arrivasse ad operare al massimo potenziale. La
premessa è che in condizioni “normali” un paese dovrebbe avere un
bilancio nominale sostanzialmente in pareggio. Facendola semplice, il
bilancio strutturale viene calcolato sottraendo al deficit nominale una
percentuale imputabile, secondo la Commissione, alla congiuntura
economica. Questa differenza viene chiamata “output gap”.
Il Fiscal Compact stabilisce che tutti i
paesi devono convergere rapidamente verso il “pareggio di bilancio
strutturale”, che varia da paese a paese (in base al loro rapporto
debito/Pil e ad altri parametri) secondo una forchetta che va dal -1%
del Pil al pareggio o avanzo di bilancio (sempre inteso in senso
strutturale, non nominale). Nel caso dell’Italia l’obiettivo è un avanzo strutturale dello 0.2%, da raggiungere entro il 2016.
L’introduzione del concetto di bilancio
strutturale nella normativa europea rappresenta molto più di un semplice
dettaglio tecnico (peraltro poco compreso); esso stravolge
radicalmente le regole di bilancio in vigore finora nell’Ue. La
Commissione può infatti stabilire, in base a dei parametri del tutto
arbitrari, che un paese ha un deficit strutturale – e deve dunque
implementare ulteriori misure di austerità – anche se registra un deficit nominale (entrate meno uscite, al lordo degli interessi sul debito pubblico) inferiore al 3%,
e dunque in linea con i parametri di Maastricht. In questo senso, non è
esagerato affermare che il Fiscal Compact elimina definitivamente
anche quell’esiguo margine di manovra fiscale previsto dal Trattato di
Maastricht e dal Patto di stabilità e crescita. Precisamente quel
“margine” a cui Renzi sostiene (ingenuamente?) di voler ricorrere.
Il caso dell’Italia è illuminante. Come si
può vedere nella seguente tabella, la Commissione prevede che nel 2014
il deficit nominale del paese scenderà dal 3 al 2.6%, portandoci
ampiamente all’interno dei margini previsti da Maastricht.
Previsioni della Commissione Europea per l’Italia, febbraio 2014
2012 | 2013 | 2014 | 2015 | ||||||||
PIL | -2.5 | -1.9 | 0.6 | 1.2 | |||||||
Deficit nominale | 3.0 | 3.0 | 2.6 | 2.2 | |||||||
Deficit strutturale | 1.4 | 0.8 | 0.6 | 0.8 | |||||||
Saldo primario | 2.5 | 2.3 | 2.7 | 3.1 | |||||||
Debito pubblico | 127,0 | 132,7 | 133,7 | 132,4 | |||||||
Output gap | -3.0 | -4.3 | -3.6 | -2.4 |
Allo stesso tempo, però, la Commissione stima che l’Italia quest’anno registrerà un deficit strutturale dello 0.6% – quindi significativamente superiore
all’obiettivo del +0.2% che l’Italia, in base al Fiscal Compact,
dovrebbe centrare entro il 2016. Da cui si comprende perché la
Commissione chiede all’Italia – le previsioni della Commissione vanno
sempre intese più come indicazioni politiche che come semplici stime –
di ridurre ulteriormente il suo deficit, portandolo al 2.2%,
entro il 2015, facendo crescere il suo saldo primario (già uno dei più
alti al mondo) dal 2.7 al 3.1% del Pil, per mezzo di un’ulteriore
manovra di circa 5 miliardi. Alla faccia del “margine”.
C’è un dato che salta all’occhio nelle
stime riguardanti il 2015 però: come si può notare, a fronte di una
riduzione prevista (o meglio, attesa) del deficit nominale per l’anno
prossimo, il deficit strutturale, invece di diminuire… aumenta
(dallo 0.6 allo 0.8%). Perché? Come è possibile? Qui entra in gioco la
“fantasiosa” metodologia con cui la Commissione calcola il deficit
strutturale. Ricapitolando: il deficit strutturale rappresenta il
deficit che un paese, secondo la Commissione, continuerebbe a registrare
se il paese non fosse in recessione e operasse invece al suo “massimo
potenziale”. La differenza tra produzione reale e produzione potenziale
è rappresentata dal sopracitato output gap. Come si può vedere nella
tabella, l’output gap dell’Italia – ovvero la percentuale del deficit
imputabile alla congiuntura economica, secondo la Commissione –
quest’anno sarà di -3.6%. Poiché l’influenza dell’output gap sul deficit
nominale è all’incirca al 50%, esso ha un impatto sul deficit italiano
del 2% (un po’ più della metà di 3.6%), risultando in un deficit
strutturale dello 0.6%. Ossia: 2.6% (deficit nominale) meno 2% (effetto
output gap) uguale 0.6% (deficit strutturale).
Nel 2015, però, la Commissione prevede che
l’output gap scenderà a -2.4. La ragione è semplice: poiché la
Commissione stima – col solito “ottimismo” che la contraddistingue da
sempre (sull’attendibilità delle previsioni della Commissione torneremo a
parlare presto) – che l’Italia l’anno prossimo tornerà a crescere a un
tasso dell’1.2%, la percentuale del deficit imputabile alla
congiuntura economica (l’abbuono della Commissione, in poche parole) si
riduce. Questo ha l’effetto perverso di far aumentare il deficit
strutturale anche a fronte di una riduzione prevista del deficit
nominale (dal 2.6 al 2.2%), poiché la riduzione dell’output gap è
maggiore della riduzione del deficit nominale. Più precisamente: 2.2%
(deficit nominale) meno 1.2% (effetto output gap) uguale 0.8 (deficit
strutturale). Questo costringerà l’Italia a effettuare una manovra
ancora più pesante nel 2015 per centrare l’obiettivo – quasi
impossibile – dell’avanzo di bilancio strutturale entro il 2016.
Nonostante il fatto – lo ribadiamo per l’ennesima volta – che il paese
registrerà un deficit ben all’interno del limiti previsti da
Maastricht.
Il caso italiano dà bene l’idea di quanto
cambino le regole di bilancio dell’Ue con l’introduzione del Fiscal
Compact. Proprio perché non esiste alcuno strumento per misurare
oggettivamente il bilancio strutturale di un paese – a differenza del
bilancio nominale –, è la Commissione a decidere, secondo dei parametri
del tutto arbitrari (e molto discutibili), quale sia il livello del
suddetto bilancio, e a imporre le misure correttive necessarie. Ed è
sempre la Commissione, tramite le sue previsioni, a stabilire se e
quanto l’economia di un paese è destinata a crescere l’anno seguente, e a
chiedere sulla base di quelle previsioni misure di austerità
“preventive”, in vista della riduzione dell’output gap. In sostanza, più
un paese cresce (o si prevede che cresca) e più deve tagliare! Per
essere più specifici, se l’Italia dovesse miracolosamente arrivare a
crescere al suo “tasso potenziale” – 3.6%, secondo la Commissione –, e
il suo deficit pubblico rimanesse stabile intorno al 2%, l’output gap
(ossia la differenza tra produzione reale e produzione potenziale)
scenderebbe a 0, e di conseguenza il deficit strutturale arriverebbe a
coincidere col deficit effettivo (2%). In questo caso, poiché
l’obiettivo per l’Italia è un avanzo di bilancio strutturale, il paese
dovrebbe avere anche un avanzo nominale. Considerando che
l’Italia spende ogni anno circa il 5% del Pil per gli interessi sul
debito, di fatto questo costringerebbe l’Italia a mantenere un avanzo
primario superiore al 5%. Ovviamente è impensabile che l’Italia torni a
crescere a quei ritmi nei prossimi anni, ma gli obiettivi di riduzione
del debito previsti dal Fiscal Compact – in base a uno studio
realizzato da Giorgio Gattei e Antonino Iero [1] – costringerebbero
comunque l’Italia a mantenere (per quasi vent’anni!) un avanzo primario
non inferiore al 4.5% (pari all’incirca a 50 miliardi di euro
l’anno). Che è esattamente l’obiettivo di medio termine che Bruxelles
si aspetta dall’Italia, secondo fonti interne alla Commissione.
Dunque, se la nostra interpretazione del
Fiscal Compact è corretta, non si capisce bene quale sia il “margine” a
cui fa riferimento Renzi. Il fatto stesso di porre il problema in
termini di rispetto o meno del vincolo del 3% non ha senso, poiché
nell’epoca del Fiscal Compact la questione non riguarda più lo
sforamento o meno del tetto del 3% (che comunque il Patto vieta
categoricamente), ma piuttosto il fatto che ormai è stato cancellato anche l’esiguo spazio di manovra previsto dal Trattato di Maastricht.
Perché Renzi non lo dice? E anzi continua a parlare come se
continuassimo a vivere nell’era pre-Patto? Dobbiamo veramente credere
che egli non capisca come funziona il Fiscal Compact? Se dovesse toccare
alla Merkel ricordare all’“alunno somaro” italiano come stanno
veramente le cose, Renzi – e l’Italia – non ci farebbero una bella
figura, e il paese perderebbe quel minimo di credibilità politica
necessaria per negoziare con l’Europa. E infatti si vocifera che alla
Commissione ci sia chi spinga per rimettere l’Italia in una Procedura
per deficit eccessive (Pde), che costringerebbe il paese a
intraprendere una politica di restrizione fiscale decisa da Bruxelles, a
rendere conto delle sue decisioni in materia di spesa alla Commissione
e al Consiglio e infine, eventualmente, a pagare una sanzione. Un
commissariamento de facto. A cui Renzi, a cose ormai fatte, avrebbe poche argomentazioni per opporsi.
L’altra ipotesi – la più ottimistica – è
che le dichiarazioni di Renzi vadano intese come facenti parte di una
strategia intesa a rivedere il Fiscal Compact in sede europea, magari
contando su una maggioranza socialdemocratica nel Parlamento dopo le
elezioni di maggio (per apportare modifiche al two-pack e al six-pack
basta il Parlamento europeo). Ma se fosse veramente così, Renzi
dovrebbe dirlo apertamente, coinvolgendo attivamente la società civile
italiana ed europea e facendosi promotore di una campagna europea per la
ridiscussione del Patto nel suo complesso. Ma questo significherebbe
innanzitutto dire agli italiani la verità sul Fiscal Compact. L’esatto
opposto di quello che Renzi ha fatto finora.
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