Si scrive “riduzione di 85.000
esuberi nella P.A.” e si legge “ulteriore licenziamento di migliaia di precari
non assistiti e esigenza di dare risposte alla trojka più che di analizzare i
fatti”.
Cottarelli è un professionista
serio. Purtroppo per lui, ha accettato un incarico per il quale l’obiettivo non
è quello di fare una seria revisione della spesa, per evidenziare gli effettivi
risparmi (che esistono, nelle sacche di inefficienza ancora presenti nella
nostra Pubblica Amministrazione). Ma è quello di rispondere ad un obiettivo calato dall’alto: “ci
servono 7 miliardi per coprire la riduzione dell’Irpef”. Quella cifra non è
ovviamente legata ad una stima di quanto si potrebbe risparmiare nella P.A. con
interventi seri di riduzione di spesa improduttiva, ma ad un obiettivo politico
legato ad altre esigenze.
Il problema dell’uomo che veniva dal FMI è che non
può ruscolare più di tanto da voci di spesa già scamazzate dai precedenti
interventi di spending review (le spese per consumi intermedi, consulenze esterne
e collaborazioni, società ed enti controllati, stipendi dei funzionari –
congelati da due anni – missioni ed incarichi dei dipendenti della PA, nonché
le spese correnti nel comparto sociale, dei trasporti pubblici locali, della
ricerca ed istruzione, e persino in quello della Difesa, sono già su livelli
indegni di un Paese nel senso proprio del termine; la spesa sanitaria e i
trasferimenti dello Stato agli enti locali saranno regolati da costi e
fabbisogni standard, già introdotti nella precedente legislatura, con
abbattimenti di costo “cileni”; i costi della politica, nonostante la vulgata
grillina, non hanno una incidenza determinante sui saldi di bilancio, e
comunque sono già in calo, fra abolizione del finanziamento pubblico ai partiti
e le normative su numero e composizione dei Consigli regionali e comunali
introdotti da monti, nonché la prevista abolizione totale delle Province).
Infatti, giostrando su queste voci, l’uomo che viene dal FMI aveva già indicato
un risparmio possibile, per il 2014, dell’ordine dei 3 miliardi. Ma al ragazzo
che viene da Pontassieve ne servono 7, perché, come suo costume, si è legato
mani e piedi ad un’idea (la riduzione del cuneo fiscale per 7 miliardi) senza
nemmeno aver prima verificato la copertura finanziaria e l’utilità per il Paese
di una manovra fiscale che determina un ulteriore abbattimento della spesa
pubblica.
Allora l’uomo che viene dal FMI,
per trovare i 4 miliardi in più, ha agito sull’unica voce sulla quale ancora
poteva agire reperendo cospicui soldini: una soluzione greca. Mandiamo a casa
85.000 funzionari pubblici. Stiano tranquilli i funzionari pubblici: ciò non
avverrà, si tratta della categoria più protetta dai sindacati, la Camusso si
sta già facendo dare istruzioni su come avviare uno sciopero della fame,
piuttosto ciò che avverrà sarà che migliaia di precari della P.A., che spesso
tengono in piedi la baracca di una pubblica amministrazione che è stata già
saccheggiata negli ultimi dieci-dodici anni, andranno definitivamente a casa.
Di quelli i sindacati se ne fregano, sono per definizione merce di scambio (ed
hanno anche i loro torti: la percentuale di precari iscritti ai sindacati è
modestissima; difficile far sentire la propria voce se non si partecipa). E
poi, cari precari, non vi preoccupate: c’è Renzi che vi erogherà l’assegno del
Naspi. Anzi no: non ci sono le coperture nemmeno per quello. Morite piuttosto
di fame e di sogni infranti.
Infatti, i numeri “neutri”, cioè
quelli di Eurostat, ovvero dell’ente statistico della Commissione europea, dicono
che ridurre i dipendenti della P.A. italiana non ha senso economico. In Italia,
gli occupati pubblici sono 7,4 ogni 100 abitanti, a fronte dei 10,5 a livello
di Ue 27. In Germania ed in Francia, abbiamo un rapporto di 12 occupati
pubblici ogni 100 abitanti; in Spagna, siamo a 8,3 per 100 addetti. Nella
vituperatissima Grecia, a 8,5 su 100 addetti.
Inoltre, fra 2004 e 2012, i
dipendenti pubblici italiani si sono ridotti dell’1,8%. Mentre sono cresciuti
del 9% nella Ue 27. Sono cresciuti dell’8,6% nella Germania che viene a darci
lezioncine di moralismo austero. Sono cresciuti del 5,3% in Francia.
Il rapporto fra costo salariale
del lavoro pubblico e valore aggiunto
del comparto pubblico, al 2012, è pari al 53% circa in Italia, mentre è del
62,2% nella Germania che ci fa le lezioncine, è del 59% in Spagna, e solo la
Francia, che ha una pubblica amministrazione spettacolare, ha un rapporto solo
leggermente inferiore a quello italiano (51%).
Non c’è una ragione economica che
sia una che spinga verso una riduzione del numero dei dipendenti pubblici
italiani, e lo sanno i sindacati, lo sa l’uomo che veniva dal FMI, non lo sanno
Renzi e la Madia, che sono troppo impegnati, fra slides e Peppa Pig, ma saranno
adeguatamente istruiti sul fatto. Ed infatti saranno mandati a casa i precari.
I mali endemici della P.A. italiana sono altri. Sono problemi di efficienza ed
efficacia nel dare risposte all'utenza, che non hanno a che vedere con il
numero di addetti, che come abbiamo visto è ben lungi dall'essere eccessivo. Le
cause di tali problemi di efficienza , in termini di tempi di risposta, e di
efficacia, in termini di rispondenza ai bisogni dell'utenza, risiedono:
-
Nell’assenza totale di meccanismi meritocratici
e di carriera, per cui pochi eroi cantano e portano la croce per chi non
lavora, oppure lavora male, con la conseguenza che chi lavora tanto e bene è
doppiamente penalizzato. Non è riconosciuto il suo lavoro, e si assume
responsabilità eccessive, con il rischio di finire nei guai. Manca un sistema
indipendente di valutazione dell’operato degli uffici, ed i meccanismi
premianti e sanzionatori sono del tutto assenti, o per meglio dire: i primi
sono del tutto assenti, perché progressioni orizzontali, verticali, premi di
risultato, ecc. sono miraggi di un mondo che non c’è più, mentre quelli
sanzionatori sono scritti sulla carta ma disapplicati;
-
In una assenza di identificazione univoca e
chiara dei centri di responsabilità e del loro operato, per cui lo sport più
comune è quello dello scaricabarile reciproco, e della moltiplicazione e
frammentazione dei centri di responsabilità, e quindi della catena gerarchica e
delle procedure, con conseguente dilatazione dei tempi per erogare servizi ai
cittadini ed alle imprese;
-
nello squilibrio fra amministrazioni
sovradimensionate ed amministrazioni in cronica carenza di organico, che non
riescono più a coprire nemmeno la pianta organica minima. Ancora una volta,
mancano meccanismi di accompagnamento alla mobilità fra amministrazioni, che
non può essere volontaria, ma obbligatoria, però al tempo stesso va agevolata
ed incentivata;
-
in una dirigenza pubblica inguardabile, tranne
ovviamente singoli casi di eccellenza, costruita sulla doppia distorsione di
una eccessiva dipendenza dalla politica, e di meccanismi di permanenza a tempo
indeterminato. Tale doppia distorsione si traduce in una mentalità da
impiegato, anziché da dirigente, ed in una incapacità di filtrare le direttive
politiche in termini di fattibilità amministrativa, giuridica ed economica. Con
l’ingenerarsi conseguente di inefficienze, scarsa valorizzazione del personale,
inneschi corruttivi o comunque consociativi;
-
nella evaporazione di ogni meccanismo di
formazione ed aggiornamento professionale a partire dal 2010;
-
in un’età media elevata, come combinato disposto
dei vincoli al turnover e dell’impossibilità di andare in pensione, per cui in
comparti dove è necessario avere giovani, l’età media è elevatissima. Ad
esempio, in polizia abbiamo un’età media di 42,2 anni, a fronte dei 39,4 del
2006; nelle Università e nella pubblica istruzione, dove essere giovani è
fondamentale per avere più freschezza nell’attività di ricerca e maggiore
contatto con gli studi effettuati dal docente in quella didattica, abbiamo
un’età media sui 50 anni; nel servizio sanitario pubblico, fra infermieri,
portantini, e medici che devono fare servizi di guardia notturna ed interventi
spesso caotici, abbiamo un’età media che supera i 48 anni; persino i Vigili del
fuoco devono fare gli eroi negli edifici in fiamme con un’età media che sfiora
i 45 anni;
-
nell’esplosione di un fenomeno di precarietà,
come risposta all’impossibilità di assumere nuovo personale in enti
cronicamente sotto-dimensionati in termini di personale, che è diventato un
problema sociale esplosivo: secondo i dati dell’ARAN, al 2012 siamo sopra i
307.200 addetti con contratti precari o a tempo determinato di vario genere e
natura. Sono in calo costante, dai 491.000 del 2006, ed oramai hanno raggiunto
un valore molto più basso di quello del 2001 (quando erano 438.000). E’ quindi
presumibile pensare che la maggior parte di quelli assunti per motivi
clientelari o politici siano stati oramai eliminati. Ridurli ulteriormente, in
presenza di un contemporaneo sottodimensionamento anche dei dipendenti a tempo
indeterminato, significherebbe dunque penalizzare gravemente la qualità dei
servizi pubblici;
Questi sono
gli assi problematici sui quali occorre costruire una riforma della Pubblica
Amministrazione. Introducendo meccanismi indipendenti di valutazione che
premino il merito e che, a differenza della riforma-Brunetta, non lascino
completamente in mano ai dirigenti la valutazione dei loro dipendenti;
introducendo meccanismi reali di premio e sanzione economica; realizzando una
riforma della dirigenza pubblica che elimini il tempo indeterminato, inserendo,
a seguito di concorsi, i dirigenti in albi nazionali dai quali essere chiamati
a tempo determinato, e non oltre la durata di una legislatura, dall’ente
interessato, come i segretari comunali; fluidificando la mobilità interna con
opportuni incentivi; riattivando la formazione e l’aggiornamento professionale;
stabilizzando (sissignore, stabilizzando) i precari storici; prevedendo
meccanismi di pensionamento anticipato in categorie di lavoro pubblico usuranti
(poliziotti, militari, infermieri e portantini, ad esempio).
Tutto il resto è Troika, tutto il resto è Grecia, tutto il resto è fallimento.
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