Dietro
la maschera dell’austerità, la destra politica e tecnocratica combatte
la sua moderna lotta di classe non dichiarata e unilaterale con
l'obiettivo di distruggere il modello sociale europeo, contro avversari
che la crisi ha indebolito
di Antonio Lettieri
Quando
nell’autunno del 2008 crollò la Lehman Brothers, minacciando il
collasso dell’intero sistema finanziario americano, la crisi fu
paragonata a a quella del 1929. Un paragone allarmante, poiché
richiamava alla memoria gli anni della Grande Depressione con le sue
ripercussioni in Europa e nel resto del mondo. Ma c’era anche una
ragione di conforto. Se si conosce la malattia, la sua origine e i suoi
sviluppi, si sa anche quali sono i rischi che comporta e come si può
combatterla.
Ma
sono passati più di cinque anni e ora sappiamo che la crisi
dell’eurozona è stata combattuta con armi sbagliate, e la guerra è stata
perduta. L’eurozona è in preda a una seconda recessione dopo quella
iniziale del 2009, con un tasso di disoccupazione esplosivo, che ha
oltrepassato il 12 per cento all’inizio del 2013, mentre in Spagna e
Grecia ha superato la mostruosa soglia del 25 per cento (si veda l’articolo di Ruggero Paladini)
In questo scenario, il caso dell’Italia, più degli altri, svela in modo trasparente l’assurdità della politica europea. A differenza di Spagna e Irlanda, infatti, l’Italia non ha dovuto fronteggiare una crisi bancaria determinata dallo scoppio della bolla immobiliare. E differentemente dal Portogallo e dalla Grecia, l’Italia alla vigilia della crisi, aveva registrato nel 2007 un disavanzo di bilancio dell’1,6%, ben al disotto del fatidico tre per cento prescritto dal trattato di Maastricht.
In questo scenario, il caso dell’Italia, più degli altri, svela in modo trasparente l’assurdità della politica europea. A differenza di Spagna e Irlanda, infatti, l’Italia non ha dovuto fronteggiare una crisi bancaria determinata dallo scoppio della bolla immobiliare. E differentemente dal Portogallo e dalla Grecia, l’Italia alla vigilia della crisi, aveva registrato nel 2007 un disavanzo di bilancio dell’1,6%, ben al disotto del fatidico tre per cento prescritto dal trattato di Maastricht.
Italy | 2007 | 2008 | 2009 | 2010 | 2011 | 2012 | 2013* |
Deficit/PIL | -1,6 | -2,7 | -5,5 | -4,5 | -3,8 | -3,0 | 3,2 |
Debito/PIL | 103,3 | 106,1 | 116,4 | 119,3 | 120,8 | 127,0 | 132 |
PIL (variazione) | 1,7 | -1,2 | -5,5 | 1,7 | 0,4 | -2,4 | -1,8 |
PIL (2005=100) | 103,9 | 102,7 | 97,1 | 98,7 | 99,1 | 96,8 | 95.0 |
Disoccupazione | 6,1 | 6,7 | 7,8 | 8,4 | 8,4 | 10,7 | 12.2** |
Fonti: Eurostat, OCSE, BCE.
* Previsioni; **OECD forecasts May 2012
* Previsioni; **OECD forecasts May 2012
Quanto
al debito, pur storicamente elevato, era sceso al 103,2 per cento del
PIL, il livello più basso degli ultimi 15 anni. Poi, quando al culmine
della crisi nel 2009 il PIL subì una caduta del 5,5 %, anche il
disavanzo di bilancio riprese a correre, toccando il 5,5 per cento del
PIL. Ma non si trattò di una circostanza eccezionale. Rimaneva, infatti,
inferiore al disavanzo medio dell’eurozona (-6,4), del Portogallo
(-10,2), della Spagna (-11,2), della Grecia (-15,6) e della stessa
Francia (-7,5).
L’Italia
ha sempre realizzato un forte avanzo primario (la differenza fra le
entrate e le uscite al netto degli interessi) in grado di garantire il
pagamento degli interessi e una possibile graduale riduzione del debito.
Ma se la recessione si prolunga, l’avanzo primario impone il sacrificio
degli investimenti e dei consumi. Il risultato è un circolo vizioso.
Nel 2010 l’Italia sembra avviarsi su un percorso di ripresa del PIL
(1,9). Ma quando tutta l’eurzona entra nel cono d’ombra dell’austerità,
la ripresa si spegne. Nel 2011 la crescita si blocca. Nel 2012 l’Italia è
in piena recessione (-2,4). La poltica di austerità colpisce tutta
l’eurozona, compresa la Germania, non ostante il suo ineguagliabile
avanzo commerciale (7 per cento del PIL).
L’assurdità
della politica di austerità che l’asse Berlino-Francoforte-Bruxelles
impone all’eurozona acquista una piena evidenza se paragonata alla
politica che Barack Obama ha adottato in America. Appena insediato alla
Casa bianca ha varato nel 2009 un piano di stimolo della domanda di
quasi 800 miliardi – l’ala progressista del Partito democratico e gli
economisti di tendenza keynesiana giudicano il piano insufficiente
rispetto ai 1.200 miliardi ritenuti necessari, ma è pur sempre una
misura non confrontabile con la politica recessiva adottata
nell’eurozona. La Fed, dal canto suo, avvia una politica monetaria
iper-espansiva. Con la ripresa la disoccupazione comincia a scendere,
passando da 10 percento nel momento più acuto della crisi al 7,6 per
cento.
Il
contrasto con la politica di austerità dell’eurozona non potrebbe
essere più stridente. Ma qui dobbiamo porci una domanda. Se gli effetti
catastrofici dell’austerità sono evidenti e denunciati dalla maggioranza
degli economisti, perché la leadership europea si ostina in una
politica palesemente priva di senso?. In effetti, il senso si chiarisce
guardando all’altro lato della medaglia. Per l’élite politica che
governa l’eurozona l’austerità non è il fine ultimo, ma lo strumento per
spingere avanti le cosiddette riforme strutturali, in termini più
chiari il cambiamento del modello sociale europeo.
L’austerità
è solo una faccia della medaglia. Le riforme strutturali (compressione
della spesa sociale, deregolazione del mercato del lavoro e progressiva
privatizzazione dei servizi pubblici) sono la faccia strutturale,
strategica, della medaglia. Dietro la maschera dell’austerità, la destra
politica e tecnocratica combatte la sua moderna lotta di classe non
dichiarata e unilaterale di fronte ad avversari che la crisi e
l’austerità hanno indebolito.
In
America Warren Buffet, con un tipico slancio di sincerità, riferendosi
alla crescita vertiginosa della diseguaglianza sociale, aveva affermato:
“Abbiamo vinto una lotta di classe senza combatterla”. In Europa si
preferisce, con una diffusa ipocrisia, denunciare l’austerità, ma senza
puntare al bersaglio grosso, che è la disintegrazione del modello
sociale europeo, lo smantellamento del welfare state e l’annichilimento
del potere contrattuale dei sindacati.
La
vicenda italiana è sotto questo profilo esemplare. Vale la pena di
ricordare come nell’estate del 2011 la Banca centrale europea abbia
operato una sintesi inequivocabile della politica dell’eurozona. La
lettera, inizialmente riservata, inviata al governo Berlusconi, firmata
insieme da Jean-Claude Trichet, presidente in carica e da Mario Draghi,
presidente in pectore, fissava i punti centrali della politica di
riforme strutturali in tema di lavoro:
- l’ennesima riforma del sistema pensionistico destinta a elevare l’età della pensione fino alla soglia dei 70 anni;
- la liberalizzazione dei licenziamenti attraverso la modifica dello Statuto dei lavoratori;.
- la liquidazione della contrattazione nazionale – che nel sistema italiano equivale alla fissazione di un salario minimo in relazione al settore di appartenenza – mettendo al centro la contrattazione a livello aziendale, dove il numero dei lavoratori coperti da un contratto collettivo non supera il venti per cento degli occupati.
Il governo Monti, fedele esecutore delle politiche di "austerità e riforme" europee, adotta le prescrizioni che provengono da Francoforte e Bruxelles come il suo autentico programma di governo, non diversamente dai vari Rajoy, Samaras e Passoa, che, in nome e per conto di Berlino e Bruxelles, governano Spagna, Grecia e Portogallo. Il risultato non potrebbe essere peggiore, l’Italia entra nella più lunga recessione del secondo dopoguerra, mentre la disoccupazione che era il 6,1 per cento prima della crisi raddoppia, con l'attuale 12,2 per cento.
- l’ennesima riforma del sistema pensionistico destinta a elevare l’età della pensione fino alla soglia dei 70 anni;
- la liberalizzazione dei licenziamenti attraverso la modifica dello Statuto dei lavoratori;.
- la liquidazione della contrattazione nazionale – che nel sistema italiano equivale alla fissazione di un salario minimo in relazione al settore di appartenenza – mettendo al centro la contrattazione a livello aziendale, dove il numero dei lavoratori coperti da un contratto collettivo non supera il venti per cento degli occupati.
Il governo Monti, fedele esecutore delle politiche di "austerità e riforme" europee, adotta le prescrizioni che provengono da Francoforte e Bruxelles come il suo autentico programma di governo, non diversamente dai vari Rajoy, Samaras e Passoa, che, in nome e per conto di Berlino e Bruxelles, governano Spagna, Grecia e Portogallo. Il risultato non potrebbe essere peggiore, l’Italia entra nella più lunga recessione del secondo dopoguerra, mentre la disoccupazione che era il 6,1 per cento prima della crisi raddoppia, con l'attuale 12,2 per cento.
Scomparso
Monti dalla scena poltica, dopo la sconfessione elettorale, con il
governo Letta, sostenuto da un'alleanza innaturale, il futuro è, per un
verso, nelle mani di Berlusconi che cerca nel governo uno scudo, sia
pure di latta, nei confrontii delle sentenze di condanna che lo
inseguono; per l'altro verso, nel sostegno di Berlino, Francoforte e
Bruxelles, che finora non ha salvato dal disastro gli altri paesi della
periferia mediterranea.
Molti
coltivano la speranza che la Germania cambi politica dopo le elezioni
di settembre. Ma è una speranza illusoria. E’ del tutto probabile che
Angela Merkel, che gode del più alto consenso popolare tra tutti i
governi occidentali, conquisti il terzo cancellierato. In ogni caso,
anche se dovesse formarsi una Grande Coalizione con la SPD o con i Verdi
o con entrambi, è del tutto improbabile che la Germania cambi politica.
Non ostante una fase di rallentamento della crescita, la Germania dalla
crisi dell’eurozona ha tratto il doppio vantaggio di tassi d’interesse
estremamente bassi e di un cambio dell’euro sottovalutato rispetto al
suo enorme avanzo commerciale. Berlino gode di un potere di interdizione
e di orientamento al quale nessun partito intenderà non diciamo
rinunciare, ma nemmeno mettere in discussione.
Diversa
è la scadenza delle elezioni per il Parlamento europeo nella primavera
del 2014. Le rivolte popolari, che finora hanno occupato le piazze
greche, spagnole, portoghesi, e il crescente euroscetticismo che
attraversa i partiti italiani e la sinistra francese, potrebbero
riversarsi nelle urne, scuotendo l’egemonia di Berlino e l’arroganza
tecnocratica di Bruxelles.
Ma
ogni previsione è oggi azzardata. L’unica previsione ragionevole è che,
senza un radicale rovesciamento della politica di austerità e delle
riforme strutturali, che ne sono il complemento strategico, l’eurozona è
destinata a unapiù o meno lunga agonia. Il paradosso sta nel fatto i
partiti della sinistra tradizionale vivono in uno stato di
filo-europeismo metafisico che spegne sul nascere un dibattito franco e
aperto sul futuro dell’Europa. Da questo punto di vista, le elezioni
europee della prossima primavera potrebbero rivelarsi una buona
occasione per spingere le sinistre europee a uscire dall’apatia.
(Class Struggle and Apathy in Eurozone, Insight -www.insightweb.it)
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