Martedì
prossimo, a Venezia, verrà proiettato «Le mani sulla città» di
Francesco Rosi, nella versione restaurata dalla Cineteca Nazionale. Si
celebra così il cinquantennio del conferimento del Leone d'oro al
capolavoro neorealista del regista (sempre quel giorno Rai Movie ne
offrirà visione in tv). Com'è noto, Rosi denunciava lo sfascio
urbanistico e politico di Napoli, in grande espansione in quegli anni.
Non poteva sapere - ma forse lo intuiva - che la sua opera avrebbe
costituito una magistrale, anche se assai inquietante, previsione circa i
disastri delle politiche, non solo urbanistiche, che avrebbero segnato
l'Italia intera nel cinquantennio successivo. Sfregiandone
irrimediabilmente quel volto «illuminato e gentile» colto dai
viaggiatori del Gran Tour e che le era valso il soprannome di
«Belpaese». Nel film Rod Steiger (nei panni del costruttore e politico
Nottola) che spiega come un terreno agricolo «che vale 500 lire» se
diventa edificabile «ne vale 50.000» costituisce una sintesi mirabile
del ruolo della rendita speculativa nella crescita urbana, più efficace
di molte lezioni di analisi urbanistica. Il film spiega appunto il
disfacimento della politica rispetto agli interessi della rendita
speculativa (la camorra restava sullo sfondo, allora, o come
«utilizzatore finale» di piccolo cabotaggio). Il film venne premiato con
il Leone d'oro nel settembre 1963: un mese dopo si sarebbe registrato
il disastro del Vajont, seguito dalla frana di Agrigento e
dall'alluvione di Firenze (1966). Eventi che dimostravano già come la
crescita urbana, pure ancora relativa -e circoscritta alle città grandi e
medio grandi - avveniva a scapito della sicurezza territoriale e della
qualità ecopaesaggistica. Nonostante i disastri, i tentativi di riforma
urbanistica e di «nuovo regime dei suoli» portati avanti dal
democristiano Fiorentino Sullo con l'appoggio della sinistra socialista e
del Pci vennero bloccati, segnando addirittura la fine politica dell'ex
ministro. Le emergenze ambientali della crescita territoriale portarono
a una serie di provvedimenti normativi parziali, che nell'arco di un
decennio, dal 1967 alla fine dei Settanta, avviarono un processo pure
timidamente riformista: la legge Ponte-Mancini sulla scissione tra
diritto di proprietà e di superficie (1967); i decreti su zoning e
standard ('68); la legge sulla casa e gli espropri (1971); l'onerosità
della concessione a costruire e degli oneri di urbanizzazione (1977);
l'avvio dei piani di recupero (1978). Questa intenzione - e i modesti
tentativi di pianificazione progressista che avevano comportato-
venivano frustrati nel decennio successivo da una serie di sentenze
della Corte Costituzionale che mettevano in discussione vincoli
urbanistici e criteri di esproprio. Annunciavano gli anni Ottanta, con
la crisi del welfare state e l'avvio di un ventennio abbondante di
iperconsumismo e una sorta di controriforma urbanistica, introdotta
dalle sentenze citate e continuata con i tentativi di svuotare le
capacità prescrittive dei piani con la cosiddetta «programmazione
concertata», in nome di un «Nuovo», che invitava a «Fare», ma in realtà a
consumare senza senso né limiti, anche il territorio. E meno male che
di lì a poco esplodeva anche in Italia la «questione ambientale». In
realtà, le criticità urbane e le «mani sul territorio» non si erano mai
fermate; la rendita speculativa, agraria ed edilizia, diventava prima
industriale, poi commerciale e infrastrutturale, infine finanziaria: la
semplice operazione di trasformazione diventava un affare, con i
relativi lavori più o meno grossi; migliore, se la nuova, anche
ipotetica destinazione d'uso, trovava dei potenziali investitori.
Neutralizzata la pianificazione efficace, razionalmente basata sulla
domanda sociale, la «città diffusa» pervadeva sempre più i vari ambiti
del territorio nazionale: una blobbizzazione cementizia industriale che
cancellava il paesaggio, seppelliva i beni culturali, degradava
l'ambiente, deterritorializzava. L'ex Belpaese è diventato così il
Bengodi delle costruzioni e del consumo di suolo: laddove nel mondo, dal
1945 al 2005, si sono quintuplicati i volumi urbanizzati, e in Europa
si è registrata una crescita di quasi otto volte, in Italia tale tasso
supera i dieci punti, e nelle tre regioni del Sud ad alta densità
mafiosa l'incremento è di oltre 13 volte! Così, mentre si
intensificavano i disastri sismici ed idrogeologici di un territorio
fortemente indebolito dalla cementificazione, la quota di suolo
nazionale consumato è oggi pari ad oltre il 20% dei 301.000 Kmq di
superficie (raddoppio dell'ingombro negli ultimi 15 anni) e si producono
costruzioni per una domanda inesistente (oltre 25 milioni di stanze
vuote), mentre il bisogno sociale di abitazioni permane inevaso. Certo,
questo è dovuto anche al fallimento della politica: il film di Rosi
rappresentava perfettamente il dissolvimento dell'etica e della
razionalità sociale che dovrebbe caratterizzare la gestione della cosa
pubblica: il sistema decisionale viene prima circuito, poi incorporato
dall'offerta di trasformazione urbana e territoriale, dettata da
interessi speculativi. Finché -a partire dagli anni Novanta- una
governance «ubriacata di pseudoliberismo» se ne fa strumento dichiarato.
Oggi le politiche urbane e territoriali ai diversi livelli sono spesso
extraistituzionali, dettate dalle imprese e soprattutto dagli istituti
finanziari. Carlo Fermariello, che nel film rappresenta se stesso, è
un'icona della buona politica legata alla reale domanda sociale: figura
sempre più rara, poi quasi sparita, dalle nostre assemblee elettive. Per
tutto questo - ha ragione Roberto Saviano- il film resta un capolavoro,
«una grande rappresentazione non solo di Napoli, ma dell'Italia, anche
di oggi». Anche se oggi forse Rosi girerebbe gli esterni in Val di Susa e
gli interni tra parlamento e ministeri.
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