mercoledì 14 agosto 2013

Il secolare saccheggio del tessuto urbano di Piero Bevilacqua, Eddyburg.it




Una paradossale anomalia segna i caratteri della cultura italiana in età contemporanea, in massimo grado nella seconda metà del Novecento: la debole presenza e influenza, la nulla «popolarità» della cultura urbanistica presso l'opinione pubblica nazionale, oltre che presso gran parte dei gruppi intellettuali. Paradossale perché l'Italia è terra di città come nessun altro Paese al mondo, non solo in virtù della loro disseminazione fisica nel territorio, ma anche per la loro rilevanza politica, il ruolo svolto per secoli nella complessiva storia nazionale. In un paese cosi fatto, la cultura urbanistica avrebbe dovuto costituire un carattere originario e dominante, e dunque ispirare con speciale saggezza il governo dell'esplosione demografica del '900, l'occupazione massiva degli spazi sotto la spinta dello sviluppo industriale. Questo sarebbe stato necessario e provvidenziale: perché far sviluppare secondo un disegno ordinato e previdente le città, vale a dire i luoghi prevalenti della vita associata, avrebbe significato un vantaggio senza pari per lo svolgimento delle economie e dei traffici e una più sicura felicità pubblica. Dalle regole e dagli istituti destinati a indirizzare l'espansione urbana sarebbe dipesa gran parte di quella che oggi chiamiamo qualità della vita. Aveva intravisto tale ruolo della «cultura istituzionale» Carlo Cattaneo, il primo, nel 1847, a segnalare il carattere eminentemente urbano della nostra civiltà: « Poiché la cultura e felicità dei popoli non dipendono tanto dalli spettacolosi mutamenti della superficie politica, quanto dall'azione perenne di certi principi, che si trasmettono inosservati in un ordine inferiore d'instituzioni».Una storia tormentata. Un decisivo «ordine inferiore d'instituzioni» è la legislazione urbanistica, la regolamentazione dell'uso dei suoli per lo sviluppo dell' edificato e per la strutturazione del territorio. E la sua debolezza o la sua assenza hanno deciso non poco della «felicità»» del popolo italiano nell'ultimo mezzo secolo. Ritorna su questi temi Vezio de Lucia, assessore all'Urbanistica del comune di Napoli nella prima giunta Bassolino, ed uno dei pochi «annalisti» delle vicende urbane d'Italia del secondo '900. A lui si deve un piccolo classico della materia Se questa è una città (1989 e 2006) e varie altre pagine di storia urbana, oggi riaggiornate, per così dire, in un più ampio affresco che dai primi anni '60 giunge fino ai giorni nostri.
In Nella città dolente (Castelvecchi, pp. 215, euro 19) De Lucia avvia la ricostruzione tormentata della nostra legislazione e degli effetti di essa sulla carne viva del territorio e della società italiana, partendo dalla più grave sconfitta subita in tale ambito dalla collettività nazionale: la sconfessione della Legge Sullo da parte del suo partito, la Democrazia Cristiana. «Il 13 aprile del 1963 è una data fondamentale nella storia del nostro Paese», giorno in cui un comunicato della Dc su « Il Popolo» sconfessò il ministro democristiano. Veniva così demolito un disegno ambizioso e radicale promosso dal ministro dei Lavori Pubblici, Fiorentino Sullo - dietro cui c'erano non solo valenti urbanisti e ingegneri, ma anche istituzioni culturalmente assai forti come l'Istituto Italiano di Urbanistica (Inu, presieduto da Adriano Olivetti dal 1948 fino al 1960), Italia Nostra e vari gruppi politico-intellettuali.
In che cosa consisteva essenzialmente il progetto di riforma urbanistica proposto da Sullo nel 1962? Esso prevedeva l'esproprio delle aree ritenute edificabili dai piani regolatori con un indennizzo corrispondente al valore agricolo dei terreni aumentato a seconda delle destinazioni. I Comuni, acquisite le aree, dovevano provvedere alla opere di infrastrutturazione primaria e cedere, per mezzo di asta pubblica, il «diritto di superficie» sui suoli destinati a edilizia residenziale che restavano di proprietà comunale. Tale dispositivo avrebbe messo a disposizione di una popolazione in grande crescita case a buon mercato, limitato il potere della rendita, dunque distribuito più equamente la ricchezza nazionale e lasciato in mano ai comuni il controllo del proprio territorio. La sconfitta di Sullo, ricorda De Lucia, «scatenò un assalto al territorio mai visto prima. In cinquant'anni sono stati sfigurati cinquemila anni di civiltà insediativa. Il Bel Paese non c'è più, ne restano sparsi brandelli».
Ovviamente, la storia successiva al 1963 non è semplicemente un deserto di rovine. De Lucia mette in luce e ricostruisce - intrecciando sempre le vicende urbanistiche con la più generale storia politica del Paese - una più complessa vicenda nella quale non mancano le pagine positive e perfino luminose, sia sul piano legislativo che delle realizzazioni. Si va dalla Legge 167, voluta dallo stesso Sullo, che favoriva l'edilizia popolare, alla legge Bucalossi del 1977, dalla salvezza dell'Appia antica, per iniziativa dell'allora ministro del Lavori Pubblici Giacomo Mancini(1965) alla Carta di Gubbio del 1960, il documento che segna la nascita di una specifica creazione della cultura urbanistica italiana: la tutela e il recupero dei centri storici. Non senza dar conto di una pagina politica che ha fatto scuola nel mondo: il recupero del centro storico di Bologna, ai primi anni Settanta, ad opera dell'allora assessore all'Edilizia Pierluigi Cervellati. Una vicenda che De Lucia ricostruisce anche nei contrasti allora esplosi tra quell'intrepido assessore e altri valenti urbanisti e i vertici nazionali del Pci.
Il mercato del territorio Nei decenni che vanno dal dopoguerra ai primi anni Ottanta la storia delle città italiane, che pure conoscono inaudite forme di saccheggio (è il caso soprattutto di Palermo, Napoli e Roma) è una vicenda non solo di ombre ma anche di conquiste a favore dell'interesse generale e della tutela del patrimonio urbano e del territorio. E tuttavia tali conquiste sono state possibili grazie a lotte sempre aspre e difficili, messe costantemente in forse da una dominante interpretazione privatistica del nostro diritto costituzionale. Nel 1968 la Corte Costituzionale dichiarò illegittime le disposizioni previste dalla Legge urbanistica del 1942, che imponevano ai privati vincoli di destinazione a verde e a infrastrutture pubbliche sui loro suoli. Nel 1980, la stesa Corte, con una sentenza che ha lasciato l'Italia senza una legge urbanistica generale, ha dichiarato illegittimo l'indennizzo, a prezzo di suolo agricolo, dei terreni espropriati previsto dalla Legge Bucalossi, e ha dichiarato lo jus aedificandi inerente al diritto di proprietà, aprendo così il varco a un uso privato del suolo di cui continuiamo a subire le conseguenze. L'«urbanistica contrattata» - vale a dire l'applicazione dell'ideologia neoliberistica alla gestione del territorio - che si avvia negli anni Ottanta sarebbe inconcepibile senza questa supremazia del diritto privato. E qui possiamo vedere quanto l'«ordine inferiore d'instituzioni» di cui parla Cattaneo abbia pesato sulla storia italiana del secondo Novecento. Un diritto che ha bandito alla radice l'idea del territorio, della città, della salubrità e della salute quali beni comuni, ha condotto all'inferno presente. La libertà predatoria di ognuno determina l'infelicità urbana di tutti.
Ovviamente, non tutto è perduto, ricorda De Lucia, ma occorre svellere alla radice la cultura giuridica che ha prevalso sin qui: quella che fa l'uomo proprietario il protagonista del vivere sociale e del territorio una merce qualunque.

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