Vi
proponiamo un estratto dal libro di Alain Badiou "Il risveglio della
storia.Filosofia delle nuove rivolte mondiali" in cui il filosofo
francese rispondendo alle critiche di Toni Negri traccia un profilo
dell'attuale fase del capitalismo.
Mi si rimprovera spesso, anche nel
«gruppo» dei miei potenziali compagni di fede politica, di non tener
conto delle caratteristiche del capitalismo contemporaneo, e di non
proporne un’«analisi marxista». Di conseguenza per me il comunismo
sarebbe soltanto un’idea campata in aria, e io in definitiva sarei
soltanto un idealista senza rapporti con la realtà. Per di più, non
sarei nemmeno attento alle
sorprendenti trasformazioni del
capitalismo, trasformazioni che autorizzano a parlare, con aria da
intenditori, di un «capitalismo postmoderno».
Antonio Negri, per esempio, durante una conferenza internazionale sull’idea di comunismo
– ero e sono molto contento di avervi preso parte – mi ha pubblicamente
assunto quale esempio di tutti quelli che pretendono di essere comunisti senza neanche essere marxisti.
In sostanza, gli ho risposto che era sempre meglio che pretendere di
essere marxisti senza essere nemmeno comunisti. Considerando il fatto
che, per l’opinione corrente, il marxismo consiste nell’accordare un
ruolo determinante all’economia e alle contraddizioni sociali che ne
derivano, chi, oggi, non è «marxista»? I nostri padroni, che, non appena
la Borsa comincia a traballare o i tassi di crescita ad abbassarsi,
tremano e si riuniscono col favore della notte, sono tutti «marxisti».
Provate invece a mettere sotto il loro naso la parola «comunismo», e
vedrete come cominceranno a dare in escandescenze, considerandovi alla
stregua di un criminale.
Qui invece vorrei dire, senza più
preoccuparmi degli avversari e dei rivali, che anch’io sono marxista, in
buona fede, pienamente e in un modo così naturale che non è neanche il
caso di ripeterlo. Un matematico contemporaneo si preoccupa forse di
provare la propria fedeltà a Euclide o a Eulero? Il marxismo reale, che
si identifica con la lotta politica razionale e che ha come scopo
l’organizzazione di una società egualitaria, è cominciato senza dubbio
con Marx ed Engels nel 1848, ma in seguito ne ha fatta di strada, con
Lenin, con Mao e poi ancora con qualcun altro. Io sono cresciuto con
questi insegnamenti storici e teorici. Credo di conoscere bene sia i
problemi che sono stati già risolti e che non serve a nulla ricominciare
a studiare sia i problemi che rimangono in sospeso ed esigono
riflessione ed esperienza, sia ancora i problemi che sono stati
affrontati male e che ci impongono radicali rettifiche e faticose
reinvenzioni. Tutte le conoscenze vive sono composte da problemi che
sono stati o che devono essere costruiti o ricostruiti, e non da
descrizioni ripetitive. Il marxismo non fa certo eccezione. Non è né una
branca dell’economia (teoria dei rapporti di produzione), né della
sociologia (descrizione oggettiva della «realtà sociale»), né una
filosofia (pensiero dialettico delle contraddizioni).
Rappresenta, lo ripetiamo, la conoscenza
organizzata dei mezzi politici atti a smantellare la società esistente e
a sviluppare una figura egualitaria e razionale di organizzazione
collettiva, la quale prende il nome di «comunismo».
Malgrado ciò, vorrei aggiungere che,
quanto ai dati «oggettivi» del capitalismo contemporaneo, non penso
affatto di essere particolarmente disinformato. Globalizzazione,
mondializzazione? Spostamento di un grande numero di centri di
produzione industriale nei paesi fornitori di mano d’opera a basso costo
e a regime politico autoritario?
Passaggio – durante gli anni Ottanta –
nei nostri vecchi paesi sviluppati, da un’economia incentrata su se
stessa, con un aumento continuo del salario operaio e la ridistribuzione
sociale organizzata dallo Stato e dai sindacati, a un’economia liberale
integrata sugli scambi mondiali, e quindi esportatrice, specializzata,
che privatizza i profitti, socializza i rischi e accetta l’aumento
planetario delle disuguaglianze?
Rapidissima concentrazione dei capitali
sotto la direzione del capitale finanziario? Utilizzo di nuovi strumenti
grazie ai quali la velocità di rotazione prima dei capitali e poi delle
merci, è considerevolmente accelerata (diffusione su ampia scala del
trasporto aereo, telefonia globale, strumenti finanziari, Internet,
programmi che mirano ad assicurare il successo delle decisioni
istantanee ecc.)? Sofisticazione della speculazione grazie a nuovi
prodotti derivati e a una sottile matematica della combinazione dei
rischi? Indebolimento spettacolare, nei nostri paesi, del mondo
contadino e di tutta l’organizzazione rurale della società? Assoluta e
conseguente necessità di attribuire alla piccola borghesia urbana il
ruolo di pilastro del regime sociale e politico esistente? Resurrezione,
su larga scala, e in primo luogo presso i borghesi più ricchi, della
convinzione vecchia come Aristotele che le classi medie siano l’alfa e
l’omega della vita «democratica»? Lotta planetaria, a volte in tono
minore a volte estremamente violenta, per assicurarsi materie prime e
fonti di energia a basso costo, soprattutto in Africa, il continente
oggetto di tutti i saccheggi «occidentali» e di conseguenza di tutte le
atrocità? Conosco piuttosto bene questo argomento, come tutti
d’altronde.1
La questione è sapere se questo insieme
aneddotico di elementi costituisca un capitalismo «postmoderno», un
capitalismo nuovo, un capitalismo degno delle macchine desideranti di
Deleuze e Guattari, un capitalismo che sia capace di generare da solo
un’intelligenza collettiva di tipo nuovo e suscitare l’insorgere di un
potere costituente fino a questo momento asservito, che superi il
vecchio potere degli Stati, che proletarizzi la moltitudine e trasformi i
piccoli borghesi in operai della conoscenza immateriale, un capitalismo
insomma rispetto al quale il comunismo possa rappresentare l’immediato
rovescio e il cui Soggetto sia in qualche modo lo stesso di quello del
comunismo latente che ne sostiene la paradossale esistenza. Un
capitalismo insomma alla vigilia della sua metamorfosi in comunismo.
Questa è, in maniera po’ grossolana ma fedele, la posizione di Negri.
Più in generale, questa è anche la posizione di tutti quelli che è da
trent’anni rimangono affascinati dalle mutazioni tecnologiche e
dall’espansione continua del capitalismo, e che, ingannati
dall’ideologia dominante («tutto cambia sempre e noi corriamo dietro a
questo cambiamento memorabile»), immaginano di assistere a una
prodigiosa sequenza della Storia – qualunque sia il loro giudizio finale
sulla qualità della suddetta sequenza.
La mia posizione è esattamente opposta: il capitalismo contemporaneo presenta tutti i tratti del capitalismo classico.
È assolutamente conforme a quanto ci si
poteva aspettare da esso, tanto più che la sua logica non è più
ostacolata da azioni di classe risolute e localmente vittoriose.
Prendiamo per esempio, per quello che riguarda il divenire del Capitale,
tutte le categorie predittive di Marx e vedremo che è solo oggi che
esse si sono confermate in tutta la loro evidenza. Marx non ha forse
parlato di «mercato mondiale»? Ma cos’era il mercato mondiale nel 1860
in rapporto a quello che è oggi, quello che si è voluto inutilmente
rinominare «globalizzazione»? Marx non aveva forse pensato il carattere
ineluttabile della concentrazione del capitale? Che cos’era questa
concentrazione, quali erano le dimensioni delle imprese e delle
istituzioni finanziarie all’epoca di questa previsione, in rapporto ai
mostri che ogni giorno nuove fusioni fanno sorgere? A Marx è stato a
lungo obiettato che l’agricoltura sarebbe rimasta ferma a un regime di
sfruttamento familiare, mentre lui prevedeva che la concentrazione
avrebbe di sicuro vinto sulla proprietà fondiaria. Sappiamo oggi che
l’effettiva percentuale della popolazione che nei paesi cosiddetti
sviluppati (quelli cioè dove il capitalismo imperialista si è insediato
senza trovare alcun ostacolo) vive di agricoltura, è, per così dire,
insignificante. E qual è oggi l’estensione media delle proprietà
fondiarie, rispetto a quello che erano al tempo in cui i contadini
rappresentavano, in Francia, il 40% della popolazione totale? Marx ha
analizzato in modo rigoroso il carattere inevitabile delle crisi
cicliche, le quali attestano, oltre tutto, la sostanziale irrazionalità
del capitalismo e il carattere necessariamente consequenziale delle sue
attività imperialistiche e belliche. A provare, mentre ancora era vivo,
queste analisi sono intervenute alcune gravissime crisi, e le guerre
coloniali e inter-imperialistiche ne hanno completato la dimostrazione.
Comunque, se guardiamo la quantità di beni andati in fumo, tutto questo
non è ancora nulla in confronto alla crisi degli anni Trenta o alla
crisi attuale, o in confronto alle due guerre mondiali del XX secolo,
alle feroci guerre coloniali e agli «interventi» occidentali di oggi e
di domani. Se consideriamo la situazione del mondo intero e non solo di
una sua parte, non sarà necessario arrivare alla pauperizzazione di
enormi masse di popolazione per ammetterne l’evidenza sempre più
lampante.
In fondo, il mondo attuale è esattamente
quello che, con una geniale opera di anticipazione, con una specie di
fantascienza realistica, Marx aveva annunciato in quanto dispiegamento
integrale delle virtualità irrazionali e, a dire il vero, mostruose del
capitalismo.
Il capitalismo affida il destino dei
popoli agli appetiti finanziari di una minuscola oligarchia. In un certo
senso, è un regime di banditi. Come si può accettare che la legge del
mondo si regga sugli spietati interessi di una cricca di eredi e di
parvenu? Non possiamo forse a ragione chiamare «banditi» uomini il cui
unico principio è il profitto? E che, solo per assecondare tale
principio, sono pronti a calpestare, se necessario, milioni di persone?
In questo momento, il fatto che il destino di milioni di persone dipenda
dai calcoli di questi banditi è così palese e così lampante, che
accettare questa «realtà», come dicono i loro scribacchini, è qualcosa
che sorprende ogni giorno di più. Lo spettacolo di Stati messi
miseramente in ginocchio perché un piccolo gruppo di anonimi e sedicenti
operatori di rating ha affibbiato loro una brutta nota, come un
professore di economia farebbe con dei somari, è nello stesso tempo
comico e molto inquietante.
Allora, cari elettori, avete mandato al
potere gente che di notte, proprio come in collegio, ha paura di venire a
sapere che all’alba i rappresentanti del «mercato», ossia gli
speculatori e i parassiti del mondo della proprietà e del patrimonio,
hanno rifilato loro la nota AAB al posto di AAA?
Non è forse barbaro quest’ascendente
consensuale che i nostri ufficiosi padroni, la cui unica preoccupazione è
di sapere quali sono e quali saranno i benefici alla lotteria nella
quale puntano i loro milioni, hanno sui nostri padroni ufficiali?
Senza contare che i loro belanti versi –
«Ah! Ah! Beheheh!» – verranno ripagati con l’obbedienza agli ordini
della cricca, e che sempre e invariabilmente sono: «Privatizzate tutto.
Eliminate ogni sostegno ai deboli, alle persone sole, ai malati, ai
disoccupati. Eliminate tutti gli aiuti, ma non alle banche. Non curate
più i poveri, lasciate morire i vecchi. Abbassate i salari dei poveri,
ma abbassate anche le imposte dei ricchi. Che tutti lavorino fino a
novant’anni. Insegnate la matematica soltanto ai trader, insegnate a
leggere soltanto ai grandi proprietari, insegnate la storia soltanto
agli ideologi di servizio». E l’esecuzione di questi ordini rovinerà di
fatto la vita di milioni di persone.
Anche qui però la nostra realtà
conferma, se non addirittura supera, le previsioni di Marx. È stato lui a
definire «procuratori del capitalismo» i governi degli anni tra il 1840
e il 1850. E questo ci dà una chiave del mistero: in definitiva, i
governanti e i banditi della finanza appartengono allo stesso mondo. La
formula «procuratori del capitalismo» è diventata del tutto esatta
soltanto oggi, quando, su questo punto, non esiste più alcuna differenza
tra i governi di destra, Sarkozy o Merkel, e quelli «di sinistra»,
Obama, Zapatero o Papandreu.
Siamo quindi proprio noi a essere
testimoni di un retrogrado compimento dell’essenza del capitalismo, di
un ritorno allo spirito degli anni della metà del XIX secolo, un ritorno
che giunge dopo la restaurazione delle idee reazionarie conseguente gli
«anni rossi» (1960-1980), proprio come il periodo intorno alla metà del
XIX secolo era stato reso possibile dalla Restaurazione
controrivoluzionaria degli anni 1815-1840, in seguito alla Grande
Rivoluzione del 1792-1794.
Certo, Marx pensava che, sotto la
bandiera del comunismo, la rivoluzione proletaria avrebbe bruscamente
interrotto questi eventi e ci avrebbe risparmiato il dispiegamento
integrale di cui percepiva lucidamente l’orrore. L’alternativa era
appunto, secondo lui, comunismo o barbarie. I formidabili tentativi di
dargli ragione su questo punto verificatisi nei primi due terzi del XX
secolo hanno di fatto considerevolmente frenato e deviato la logica
capitalista, in particolare in seguito alla Seconda guerra mondiale.
Dopo circa trent’anni, dopo il crollo
degli Stati socialisti come alternative percorribili (il caso
dell’Unione Sovietica), o il loro sconvolgimento operato da un violento
capitalismo di Stato dopo lo scacco di un movimento di massa
esplicitamente comunista (è il caso della Cina tra gli anni 1965 e
1968), abbiamo finalmente il dubbio privilegio di assistere alla
verifica di tutte le predizioni di Marx sull’essenza reale del
capitalismo e delle società che esso regge. Alla barbarie siamo già
arrivati, e vi stiamo sprofondando dentro di gran carriera. E tutto
questo corrisponde nei minimi dettagli a ciò che Marx si augurava che la
potenza del proletariato organizzato sarebbe riuscito a impedire.
Il capitalismo contemporaneo non è
dunque in alcun modo creativo e postmoderno: pensando di essersi
sbarazzato dei propri nemici comunisti, segue quella linea di cui Marx,
approfondendo l’opera degli economisti classici in una prospettiva
critica, aveva percepito l’andamento generale.
Non saranno di certo il capitalismo o la
schiera dei suoi servi politici a risvegliare la Storia, se con
«risvegliare» intendiamo l’insorgere di una capacità distruttrice e al
tempo stesso creatrice, con lo scopo di uscire una volta per tutte
dall’ordine stabilito. In tal senso, Fukuyama non aveva affatto torto:
giunto al proprio completo sviluppo, e consapevole dell’ineluttabilità
della propria morte – anche a costo, cosa disgraziatamente probabile, di
una violenza suicida – al mondo moderno non resta altro che pensare
alla «fine della Storia», proprio come quando Wotan, nel secondo atto de
La Valchiria di Wagner, spiega a sua figlia Brünnhilde che il suo unico
pensiero è «la fine! la fine!»
Se un risveglio della Storia ci sarà,
non bisognerà cercarlo nel carattere barbaro e conservatore del
capitalismo o nella foga di tutti gli apparati statali che ne tutelano
il concitato andamento. L’unico risveglio possibile sarà quello
dell’iniziativa popolare in cui si radicherà la potenza di un’Idea.
1. Per un’interpretazione molto chiara
delle forme di capitalismo contemporaneo, rimando a due libri di Pierre-
Noël Giraud: L’Inégalité du monde contemporain (Gallimard, Paris, 2001)
e La Mondialisation (2008). Giraud chiarisce, in modo molto
convincente, la modificazione globale (e reattiva) del capitalismo
planetario a partire dalla fine degli anni Settanta.
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segnaliamo
la recensione di Toni Negri dell'ultimo libro di Badiou: il guardiano dell'idea assoluta
Alain Badiou: sulla rivolta in Turchia e oltre
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