Quando
si parla del mondo del lavoro e del mondo della scuola sembra sempre
che si parli di due questioni totalmente distinte. E invece,
nell’Italia con il Pil che crolla, nel mare magnum delle fugacissime
questioni estive, ci sono un paio di notizie che si accoppiano per farci
capire come dobbiamo immaginarci il futuro prossimo.
La prima è la disfida modello western tra Fiom e Fiat, simboleggiata
al meglio dal duello in pieno sole tra Marchionne e Landini: il
contenzioso nello specifico è la sentenza della Cassazione che
obbligherebbe la Fiat a dare spazio ai delegati della Fiom, mobbizzati e
licenziati senza nemmeno quegli ultimi scrupoli che sono gli articoli
della Costituzione. Dalla parte di Marchionne stanno quelli che
invocano un modello d’industria nuovo, senza i laccioli di un
sindacato-reliquia. Dalla parte di Landini i difensori di diritti lesi
da una globalizzazione che è tale solo nella deregulation.
La seconda è che il concorso per docenti che ha coinvolto milioni di persone in Italia sta volgendo al termine: entro l’estate ci saranno i vincitori.
Da una parte, anche qui, c’erano gli oppositori del concorso pensato
ancora una volta una tantum, dall’altra – ex ministro Francesco
Profumo in testa – coloro che hanno millantato questo concorso come
l’inizio di un rinnovamento della scuola, con l’assoldamento di nuovi
insegnanti 2.0 armati di tablet e di una cultura didattica à la page.
Ma cos’hanno in comune la Fiom e il concorsone? C’è
uno strano spettro che aleggia su entrambi. Quello di un concetto-mondo
che fluttua nel linguaggio aziendale e nel linguaggio della scuola.
Chi per esempio ha preparato l’orale del concorso in questa mezza
estate l’ha dovuto ruminare fino all’assorbimento osmotico: stiamo
parlando delle famigerate “competenze”. Una parola stravincente di una
neo-lingua ibrida. Le competenze: la scuola del futuro sarà una scuola
delle competenze; questa scuola del futuro preparerà una società del
futuro basata anche questa sulle competenze. I tre operai della Fiat
sospesi forse non lo sapevano, voi: sappiatelo.
Non si tratta di un restyling meramente linguistico,
ma di un concetto che evoca un progetto di formazione abbastanza
nuovo. La sua elaborazione compiuta per la scuola può essere datata al
2010 quando le Indicazioni Nazionali (che sarebbero il modo in cui sono
stati riorganizzati i programmi scolastici) si sono adattate a una
poco visibile rivoluzione teorica partita dagli anni Novanta che
ripensava il mondo in cui viviamo alla luce di una fantomatica “società
della conoscenza”.
Chi è stato a voler ripensare il mondo? Beh,
parliamo soprattutto dell’Unione europea e altri organismi
internazionali tipo l’Ocse, secondo i quali esiste un presupposto che
dovremmo dare per scontato nell’educazione del futuro: se si migliora la
qualità del servizio d’istruzione, si offrono ai cittadini le
condizioni per “la costruzione di una vita realizzata” e per “il buon
funzionamento della società”.
Il punto di partenza è stato il progetto DeSeCo (“Definition and Selection of Competencies”),
da cui sono man mano scaturiti fior di documenti fino ad arrivare alla
Raccomandazione del Parlamento europeo e del Consiglio, datata 2006,
dove si definiscono quali sono le competenze di base che servirebbero in
questa nuova società. Sono nello specifico otto: 1) comunicazione
nella madrelingua, 2) comunicazione nelle lingue straniere, 3)
competenza matematica e competenze di base in scienza e tecnologia, 4)
competenza digitale, 5) imparare ad imparare, 6) competenze sociali e
civiche, 7) spirito di iniziativa e imprenditorialità, 8)
consapevolezza ed espressione culturale.
Ecco qui, i requisiti che un bel cittadino europeo 2020 – per esempio i vostri figli, oppure voi (dato che siamo tutti coinvolti in processi di life-long learning
come si dice) – dovrebbe possedere (Se ne volete sapere di più, la
loro formulazione più precisa la potete trovare in libro-menhir, una
specie di manuale di un nuovo ordine mondiale della “conoscenza” del
2003, edito da FrancoAngeli a firma di questi due grandi teorici delle
competenze, D.S. Ryken e L.H. Salganik, che s'intitola Agire le competenze chiave. Scenari e strategie per il benessere consapevole.
Sì, il titolo echeggia un po’ Scientology, ma che volete che sia).
Prima di provare a capire cosa sono queste benedette competenze,
possiamo già concordare a naso su una sensazione: la mancanza in questo
microelenco di qualsiasi traccia di – come lo vogliamo chiamare? –
sapere critico, né da un punto di vista della conoscenza, né da un punto
di vista politico…
Il buon funzionamento della società non deve educare cittadini che mettano in crisi la società stessa? Questa
potrebbe essere un’ingenua domanda. A cosa serve la scuola? A
adattarsi al mondo così com’è, o a ripensarlo da capo a piedi?
E simili questioni se le pone un saggio illuminante di Edoardo Greblo – contenuto nel numero appena uscito (un numero monografico sulla scuola) di Aut aut – intitolato La fabbrica delle competenze.
Per Greblo la conclusione è semplice: si educa alle competenze per
avere lavoratori flessibili, adattabili a un mercato del lavoro
sregolato e precario. Si educa l’individuo perché sia capace di
sopravvivere nella giungla di un mercato feroce e deregolato, facendo di
lui un possessore di competenze frammentarie e intercambiabili, più
che una persona (come era pensato nella pedagogia deweyana che ha
informato il Novecento e la nostra Costituzione, compromesso di
cattolicesimo e socialismo).
Insomma pare che stiamo nel mezzo di una specie di trasformazione distopica inavvertita
che passa per circolari e documenti nazionali per finire nelle aule
scolastiche e nelle fabbriche e negli uffici. È proprio così? A dir la
verità questa è la sensazione che si può avere, quando
nell’universomondo di centinaia di libri di nuova didattica, uno si
imbatte in un articolo semplice semplice di Marcel Crahay. Il suo Dangers, incertitudes et incomplétude de la logique de la compétence en éducation può fare l’effetto dei documenti scritti da Emmanuel Goldstein in cui Winston Smith si imbatte a metà di 1984 di Orwell: ossia una sorta di disvelamento di tutto il progetto neo-sociale governato dal Grande Fratello.
È davvero così oscuro il futuro? Se non vogliamo concluderla con una cupissima evocazione fantascientifica,
facciamo un passo indietro, senza schierarci subito dalla parte dei
Savonarola. Interroghiamoci su cosa sono queste competenze, dicevamo. La
verità è che rispondere non è per niente facile: sia Greblo che un
altro ricchissimo saggio (uscito l’anno scorso per Carocci e passato in
sordina), Insegnare concetti di Alberto Gaiani, mettono in luce che quando si parla di competenze non si capisce di che cavolo si sta parlando.
Non c’è una caratterizzazione di competenze che metta d’accordo gli studiosi:
a partire dal lavoro di Ryken e Salganik, andando avanti e indietro si
trova un grande minestrone teorico che butta insieme Vygotskij, Piaget
e Bruner col pensiero debole e una spruzzata di sociologia di Bauman:
una ridda di definizioni tale, tra documenti ufficiali e tentativi
onnisintetici, da far scrivere a Marcel Crahay nel 2006: «La nozione di
competenza è una caverna di Alì Baba concettuale nella quale si trovano
accatastate, l’una accanto all’altra, tutte le correnti teoriche della
psicologia, anche quelle più contrarie». Ma se è un concetto così
confuso, se la parola “competenze” non è altro che quello che in
sociolinguistica si chiama “plastismo”, ossia un concetto dal
significato talmente vago da non averne alcuno, se insomma parlare di
competenze è parlare di tutto e di niente, uno si chiede, queste
competenze a cosa servono? E perché diventano così centrali nel
riconsiderare la formazione per l’intero mondo occidentale?
Per due motivi, che Greblo mette in evidenza chiaramente.
Primo, con le competenze si raggiunge l’obiettivo massimo di misurare
con pretesa di oggettività qualcosa di immisurabile. Pare che si sia
trovato lo strumento perfetto: ho dei numeri, un giudizio, una
valutazione su qualcosa che in realtà vive nell’assoluto arbitrio. Tipo,
mettiamo che vogliamo valerci di questa valutazione per competenze.
Allora consideriamo come competenza quello che dicono Ryken e Salganik,
ossia «il costrutto di cui abbiamo bisogno per fronteggiare la sfida
della complessità, grazie al fatto che il tratto costitutivo e la
riflessività, ovvero la capacità del soggetto di porsi nel mondo in modo
flessibile, adattabile, tollerante, con apertura mentale,
responsabile, con spirito d’iniziativa»: capite che non è difficile che
se io sono quello che deve giudicare ho in mano un dispositivo
talmente generico e plastico che me ne posso servire un po’ come
voglio, no?
Secondo motivo – già evocato in quest’ultima definizione – le
competenze sono il modo in cui impariamo a essere giudicati
positivamente se siamo adattabili, se siamo flessibili, se c’integriamo
bene nel mercato del lavoro, se detta alla spiccia non rompiamo il
cazzo.
Dal momento che, per l’impresa, i servizi di formazione possono essere costosi,
questa ha evidentemente tutto l’interesse a intervenire sulla scuola
per spingerla a trasformare i propri programmi in termini di
competenze... […] interpretare correttamente un problema, leggere
correttamente una procedura, ritrovare in un testo di riferimento le
informazioni utili per un certo uso, reagire in maniera critica a una
situazione. Ne sono seguite forme di pressione sulle autorità dei
sistemi educativi per intervenire sui programmi generali di studio e per
introdurvi un apprendimento di queste specifiche competenze. (G.Le
Boterf, De la competence: essai sur un attracteur etrange, Les Editions d'Organisation, Paris 1994).
Perché insomma le aziende si devono far carico di educare alla flessibilità se lo può fare la scuola?
Perché non rendere il pensiero critico neutralizzato e strumentale ai
bisogni di un’azienda? La verità è che ogni volta che s’invoca il
feticcio della misurabilità oggettiva si occulta la più assoluta
legittimazione della pura soggettività, dell’arbitrio. Come accade per
le competenze, così accade per la “meritocrazia”: altro pseudoconcetto,
altro plastismo che delle competenze è lo speculare; se io ho per le
mani concetti così vaghi come competenza o merito, è chiaro che sarà
fondamentale chi è che decide quali sono le persone competenti o quelle
meritevoli.
Facciamo un esempio. Non è complicato valutare se uno conosce il pensiero filosofico di Leopardi e se sa fare l’analisi del testo della Ginestra.
Mettiamo che io debba valutare e valutare se quello stesso studente a
partire dalla conoscenza di Leopardi avrà sviluppato una serie di
competenze. Per esempio? Per esempio «il possesso di una serie di
risorse e la capacità di mobilitarle in un’azione complessa che
coinvolge componenti cognitive e non cognitive», tenendo conto che «una
competenza non può essere osservata o valutata direttamente, ma
soltanto indirettamente, attraverso la performance prodotta dal
singolo». Io docente valutatore, come mi barcamenerò? Che presunta
oggettività utilizzerò? Valuterò positivamente la sua capacità di
arrampicarsi sugli specchi? Valuterò positivamente la capacità che la
lettura di Leopardi gli ha fornito di adattarsi a un ambiente
lavorativo ostile?
Gli operai della Fiom hanno malinterpretato Leopardi e non utilizzato a dovere le competenze che la lettura della Ginestra,
evitando di cooperare verso le magnifiche sorti e progressive evocate
dal poeta? Mi ponevo questa domanda perché a un certo punto, dopo
questa indigestione linguistica della retorica delle competenze, mi
sono ricordato di un librettino, uscito da Einaudi vent’anni fa, Lo spirito Toyota
di Taiichi Ohno. A risfogliarlo oggi si ha l’impressione di una
profezia realizzata. Ci si ritrovano 'ste benedette competenze come un
elemento già essenziale della “rivoluzione toyotista”: il ventaglio di
competenze di un lavoratore deve essere talmente ampio da farlo sentire
parte di un sistema produttivo globale.
Se non hai ancora cominciato, sviluppa competenze, se vuoi restare a galla nella fabbrica della “produzione snella”.
L’altro aspetto meno evidente, legato alla retorica delle competenze, è quello della delegittimazione della prospettiva etica e di quella politica nell’educazione.
Se non hai ancora cominciato, sviluppa competenze, se vuoi restare a galla nella fabbrica della “produzione snella”.
L’altro aspetto meno evidente, legato alla retorica delle competenze, è quello della delegittimazione della prospettiva etica e di quella politica nell’educazione.
Questo concetto [della prassi], nell’epoca della scienza e del suo ideale di certezza, ha perso la sua legittimità. Poiché
da quando la scienza vede il suo scopo nell’analisi isolante dei
fattori causali dell’accadere – nella natura e nella storia – riconosce
la prassi solo più come applicazione della scienza [...]. Così il
concetto di tecnica ha sostituito quello di prassi; cioè la competenza
degli esperti ha preso il posto della ragione politica» (H.-G. Gadamer, Verità e metodo,
Milano, Bompiani, 2004 [ed. or. 1960], pp. XLV-XLVI; ma cfr., in
generale, il cap. «L’attualità ermeneutica di Aristotele», pp. 363-376).
La storia della “didattica” nella nostra società occidentale forse parte proprio duemilatrecento anni fa, dal
libro Alfa della Metafisica aristotelica in cui si dichiara
esplicitamente che la conoscenza si definisce proprio per la sua
possibilità di essere insegnata, e come tutto questo abbia a che fare
chiaramente con una formazione politica: a cosa serve la scuola in fondo
se non a farci capire come possiamo mettere in campo per cambiare il
mondo in cui siamo capitati?
Per questo ogni volta che sento parlare di competenze mi viene in mente
quanto per fortuna nelle parole di Aristotele, di Leopardi, di
Nietzsche, di Freud, ecc... ossia di tutto quel canone che grazie al
cielo resiste alle riforme scolastiche, di tutta questa neolingua non vi
sia traccia. Espulso dal mondo del lavoro, della contrattazione
sindacale, il pensiero critico; respinta come un fastidio la sentenza
della Cassazione che dice di reintegrare in fabbrica gli operai Fiom;
c’è solo da vigilare che questa liquidazione del linguaggio non
allineato non riesca ad attecchire anche nella scuola, educando degli
esseri umani adattabili, competenti, funzionali.
E certo sarebbe bello se, invece delle otto vaghe e inutili macrocompetenze indicate dall’Unione europea a qualcuno al Ministero dell’Istruzione venisse in mente di opporre l’endecalogo che Martha Nussbaum traccia in Non per profitto:
1. Esaminare una tesi.
2. Riflettere su
essa.
3. Formularne una in modo autonomo.
4. Dibattere senza deferenze
per tradizioni o autorità.
5. Riconoscere l’uguaglianza dei diritti.
6.
Rispettare le persone.
7. Interessarsi agli altri.
8. Saper immaginare
la complessità degli altri punti di vista.
9. Giudicare in modo
critico chi detiene il potere politico. 10. Pensare a una nazione come
un intero e non come una somma di gruppi.
11. Vedere la propria nazione
in relazione alle altre.
Non è impossibile essere cittadini in un modo diverso, no?
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