La famiglia ha già
perso nei fatti la titolarità sostanziale dell’azienda e la
nazionalizzazione consentirebbe una politica di alleanza con un altro
grande gruppo internazionale, presumibilmente asiatico
Per una volta tanto, une foi n’est pas coutume, dobbiamo dare
ragione a Giorgio Squinzi, presidente della Confindustria, quando egli
va dicendo in giro che fra pochi mesi potremmo perdere gran parte
dell’industria italiana sotto i colpi della crisi.
Vediamo un po’ da vicino come stanno le cose.
Intanto, come sottolineava anche The Economist in un suo
servizio recente, in Italia, paese che ha ancora la seconda industria
manifatturiera d’Europa dopo quella tedesca, tra il 2009 e il 2012 quasi
un’impresa industriale su cinque ha chiuso i battenti; e la moria
continua. Si aspetta ora una nuova possibile ondata di chiusure per
settembre.
Così quello dell’auto era una volta il nostro principale
settore manifatturiero (non so se lo sia ancora e, peraltro, sembra
essersi ormai scatenata una corsa a chi si colloca più in basso) ed oggi
tutti vedono come si è ridotto. Tra l’altro si produce ormai oggi in
Italia, al contrario che altrove (Francia, Germania, Spagna, Gran
Bretagna, Polonia, tutti paesi che hanno sostanzialmente mantenuto o
anche aumentato i loro livelli di produzione), solo una modesta frazione
delle vetture che vedevano la luce anche relativamente pochi anni fa,
mentre la Fiat perde inesorabilmente ogni mese e ormai da tempo quote di
mercato in Italia ed in Europa.
Ora, dopo la perdita di tanti posti di lavoro e le chiusure di
stabilimenti cui abbiamo dovuto già assistere, tutti si aspettano per i
prossimi mesi un netto ridimensionamento degli uffici direzionali
dell’auto a Torino e il trasferimento di migliaia di posti di lavoro a
Detroit, mentre sembra solo rimandata di qualche tempo la chiusura di
ancora uno o due stabilimenti.
Il secondo settore industriale era nel nostro paese – e non so se lo è
ancora -, quello degli elettrodomestici. L’annuncio da parte della
Indesit, qualche settimana fa, della chiusura di due insediamenti in
Italia e del loro trasferimento nell’Europa dell’Est, arriva mentre si
apprende che nel 2007 l’Italia produceva ancora 24 milioni di
elettrodomestici, mentre nel 2012 si era ormai ridotta a 13 milioni.
Il settore impiega comunque da noi ancora 130.000 lavoratori, ma
rischia ora di perderne chissà quanti. Dopo la mossa dell’Indesit si
teme che anche altri produttori e i loro componentisti facciano le
valigie per altri lidi.
E veniamo all’acciaio. Non so se esso si collocava al terzo posto
nella classifica nazionale dell’industria, ma quello che è certo che,
per una ragione o per un’altra, rischiamo di perdere quasi interamente
anche questo.
Concentriamo peraltro la nostra attenzione sull’Ilva e sulla Riva
Fire, anche se sappiamo che esse non rappresentano tutto il settore
dell’acciaio nel nostro paese.
Da quando è scoppiato il caso, sull’Ilva si sono alimentati diversi
equivoci. Il primo e il più dannoso, alla cui diffusione ha preso attiva
parte lo stesso gruppo, è quello che mette in contrapposizione il
lavoro e la salute. Abbiamo così visto persino dei sindacati che,
incitati dal padrone, hanno scioperato contro la magistratura.
Ma sappiamo bene che al mondo esistono tanti impianti dove lavoro e
ambiente vengono tranquillamente contemperati e che le tecnologie pulite
in proposito sono largamente disponibili, anche se l’impianto di
Taranto presenta, per come è collocato, diversi problemi specifici e il
suo risanamento comporta ancora sofferenze importanti per la popolazione
locale. Per altro verso, gli impianti sono in ogni caso da rinnovare
essendo ormai molto vecchi e una loro messa a nuovo, con la conseguenza
di miglior qualità delle produzioni e riduzione dei costi, è una
condizione fondamentale per andare avanti in un mercato sempre più
concorrenziale.
Un altro equivoco, sostenuto anche da qualche giornalista di grido, è
quello che vorrebbe che in un paese come l’Italia non sia più possibile
produrre dell’acciaio, che sarebbe oramai roba da paesi emergenti. A
parte che questo significherebbe cancellare decine di migliaia di posti
di lavoro, la cosa è ampiamente smentita dal fatto che un paese come la
Germania possiede tuttora una rilevante industria siderurgica, molto più
importante di quella italiana.
Un’altra cosa purtroppo non corretta è quella di pensare che
basterebbe risanare l’impianto e tutto tornerebbe a posto. In realtà il
problema della Riva Fire non è solo quello dell’inquinamento; dietro di
esso si intravede una sostanziale incapacità strategica, organizzativa,
finanziaria, di reggere la concorrenza in un mercato che nell’ultimo
periodo si è fatto molto più difficile.
Fare profitti nel settore era abbastanza facile sino al 2007 e i Riva
sicuramente ne hanno fatti molti; al di là di bilanci ufficiali del
periodo, già gonfi di utili, i magistrati hanno trovato in giro almeno
qualche traccia di un ulteriore e più largo bottino.
Ma poi è arrivata la crisi in un mercato in cui da una parte i prezzi
di acquisto delle materie prime erano in salita mentre quelli di
vendita erano frenati dalla concorrenza.
Nel frattempo la Cina è diventato il produttore di gran lunga più
importante del mondo, sfornando ogni anno da sola circa il 45% di tutto
l’acciaio mondiale. Per fortuna che, almeno sino ad oggi, le imprese del
paese hanno rivolto la loro attenzione quasi soltanto al mercato
interno; ma ora, con il rallentamento dei tassi di crescita
dell’economia e in presenza di una rilevante sovracapacità produttiva, è
presumibile che si riverseranno molto più di prima verso quelli esteri.
Intanto le dimensioni produttive per stare nel settore si fanno
sempre più grandi, con rilevanti processi di fusione ed acquisizione in
atto. Le imprese tendono ormai ad avere come prospettiva il mercato
mondiale, mentre la Riva è presente soprattutto in Italia – dove
peraltro perde quote di mercato a favore della concorrenza – e in misura
molto contenuta in Europa. Una volta il gruppo era il decimo produttore
mondiale, ora soltanto il ventitreesimo. Inoltre, per assicurarsi un
miglior controllo dei prezzi delle materie prime, le imprese del settore
stanno portando avanti dei processi di integrazione a monte con il
settore delle miniere, mentre esse cercano di migliorare la qualità dei
prodotti e di tagliare i costi. Intanto, di fronte alla crisi europea,
nel continente appare ormai sempre più difficile fare profitti e si
taglia qua e là la capacità produttiva, con negative conseguenze
sull’occupazione.
In questo quadro non sembra difficile suggerire sulla carta cosa si
dovrebbe fare. Intanto, rispetto al quadro generale delle difficoltà
dell’industria italiana, nel settore dell’acciaio come in quelli
dell’auto e degli elettrodomestici, il governo ha sostanzialmente
brillato per la sua assenza o per qualche intervento solo sporadico. Il
cosiddetto piano europeo per l’acciaio, che doveva contribuire a dare
stabilità e maggiori certezze al settore, si è poi rivelato come del
tutto inconsistente, persino grottesco.
Dopo tutti i misfatti dei Riva venuti alla luce e vista anche la loro
sostanziale incapacità di reggere il gioco del mercato mondiale dal
punto di vista strategico, manageriale e finanziario, ci sembra che non
resti, se si vuole salvare il gruppo, che una rapida nazionalizzazione.
Del resto, dopo le decisioni della magistratura che ha sequestrato ai
Riva valori per più di 8 miliardi di euro, la famiglia ha nei fatti
perso la titolarità sostanziale dell’azienda.
Con il semplice commissariamento si perde intanto tempo prezioso
rispetto al fatto che il livello della competizione internazionale
impedisce ormai all’Italia di farcela da sola a gestire una tale
impresa; dopo la nazionalizzazione, si imporrebbe così anche una
politica di alleanza con un altro grande gruppo internazionale,
presumibilmente asiatico.
È un problema che deve affrontare anche la Indesit per quanto riguarda gli elettrodomestici e probabilmente anche la Fiat.
Prima ci si renderà conto della realtà e meno peggio sarà per tutti.
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