A giudicare dall’operazione di mediamenzogne messa in campo
sulla Siria, c’è da ritenere che ben presto assisteremo al consueto
scenario di un intervento militare congiunto per “fini umanitari”. Ci
sono degli ostacoli che potrebbero essere superati come avvenne per
l’aggressione alla Serbia nel 1999 dopo una campagna mediatica molto
simile sui profughi kosovari, le fosse comuni, le atrocità etc etc.
L’Onu infatti potrebbe non essere utilizzabile per legittimare
l’aggressione alla Siria viste le posizioni di Russia e Cina che vi si
oppongono. Contro la Serbia si utilizzò unilateralmente la Nato anche
senza il mandato dell’Onu ed anche in questa occasione la strada
potrebbe essere simile.
Tre domande si pongono e richiedono risposte che ben presto dovranno diventare iniziativa e tema di confronto
Perché questa accelerazione dell’escalation contro la Siria?
Sulla prima questione è evidente come ormai, dopo
anni di interventi di destabilizzazione imperialista sistematica, il
Medio Oriente stia saltando completamente e con esso stanno saltando
anche i precedenti sistemi di alleanze. Il famoso “Arco di crisi”
indicato da Brzezinski è stato volutamente destabilizzato dagli
interventi militari statunitensi, israeliani e adesso anche europei.
L’Iraq è diviso e dilaniato al proprio interno (come teorizzato
dall’analista israeliano Oled Ynon già dai primi anni ’80).
I regimi autoritari non islamici sono stati bruscamente sostituiti in Libia, Tunisia, Egitto ma non ancora in Siria.
I palestinesi sono stati divisi in due entità
distinte e spesso contrapposte (Hamas e Al Fatah) tra Cisgiordania e
Gaza. I contrasti si sono estesi poi anche alla rete dei campi profughi
in Libano e Siria.
In Libano attentati e scontri stanno facendo
saltare i fragili equilibri raggiunti negli anni più recenti tra la
componente sciita e quella sunnita.
La Turchia sta rinculando dopo anni in cui ha
cercato con ogni mezzo di diventare una potenza regionale di riferimento
in alternativa alle ingerenze dell’Arabia Saudita.
Le petromonarchie del Golfo hanno separato le loro
ambizioni con l’Arabia Saudita (che ha fomentato il jihadismo in ogni
teatro in cui era stato richiesto dagli Usa) che guarda ai suoi
interessi e il Qatar (potenza emergente) che guarda ad altri interessi.
La Giordania appare come il classico vaso di coccio
che sa di non poter più campare di rendita con le garanzie che in
questi decenni ha offerto a Stati Uniti ed Israele.
Ad acutizzare questa divaricazione di ruoli e
alleanze storiche è venuta la crisi in Egitto che ha frantumato tutte le
alleanze pre-esistenti e stenta a definirne delle nuove, alimentando
così uno scenario di destabilizzazione permanente in tutta la regione.
Turchia, Iraq e Qatar sono contro i militari e il nuovo regime egiziani
mentre Arabia Saudita e Israele sostengono il colpo di stato dei
militari e la messa fuorilegge dei Fratelli Musulmani. Alla divisione
storica dell’Islam tra sunniti e sciiti si aggiunge uno scontro
durissimo dentro il mondo sunnita, alimentato probabilmente dai
Guardiani della Mecca (i wahabiti dell’Arabia Saudita) che hanno fatto
dei salafiti la loro longa manu contro gli altri competitori.
Sarebbe piuttosto miope leggere questa esplosione
del Medio Oriente sulla base del brutto carattere degli arabi e della
doppiezza. Certo, la spregiudicatezza nelle alleanze e i loro repentini
cambiamenti stanno ben entro la storia recente del Medio Oriente. Ma è
innegabile che in tale scenario abbiano influito le ingerenze e adesso
il logoramento dell’egemonia imperialista degli Stati Uniti. In questo
tutti contro tutti, l’unico elemento che sembra poter ricomporre le
vecchie alleanze – almeno temporaneamente – è l’attacco contro la Siria.
Bombardare Damasco e destabilizzare il governo di Assad è l’agnello
sacrificale che può rimettere insieme Stati Uniti e Turchia, Qatar e
Arabia Saudita, Israele e le vecchie potenze coloniali dell’area come
Francia e Gran Bretagna.
Lo scossone che è arrivato dall’Egitto ha fatto
saltare parecchi equilibri e compromessi precedenti. Rimetterli insieme
attraverso il “nemico comune” della Siria” può essere la carta –
parecchia disperata però – per cercare di rimettere una pezza sui
numerosi strappi in Medio Oriente. Che il gioco riesca è tutto da
dimostrare, a partire dalla convergenze e divergenze su chi dovrebbe
sostituire Assad. Gli esempi che vengono dai risultati delle aggressioni
militari in Iraq e Libia non sono certo confortanti.
Perché gli Stati Uniti non riescono più a far quadrare i loro interessi nella regione?
Gli Usa in Medio Oriente (sollecitati in questo da
Israele) hanno agito per frammentare, dividere, contrapporre,
destabilizzare l’area. L’idea statunitense è stata sempre quella di
sentirsi talmente forti da poter gestire la instabilità che si veniva a
determinare, preferenda questa – la destabilizzazione – ad una stabilità
e consolidamento delle relazioni all’interno dei paesi arabi e
islamici. A dieci anni di distanza viene da chiedersi quale siano stati i
risultati ottenuti con l’attacco e l’invasione dell’Iraq o della Libia.
Il buon senso direbbe che la situazione precedente assicurava
sicuramente maggiore stabilità mentre oggi si è convertita nel suo
esatto contrario. In realtà i centri decisionali dell’imperialismo –
negli Stati Uniti in particolare – devono sempre trovare una sintesi tra
i vari interessi dominanti in gioco. Sono questi poi a determinare le
scelte delle varie amministrazioni presidenziali, repubblicane o
democratiche che siano. In alcune fasi prevalgono alcuni interessi
(industria bellica, petrolifera etc.) in altre ne prevalgono altri
(finanza, industria etc).
Dentro la crisi di sistema che si andava delineando
piuttosto nitidamente (i giornali della mattina dell’11 settembre 2001
dedicavano le loro prime pagine alla crisi, poi ci sono stati gli
attentati), la sintesi tra interessi capitalisti divergenti e prevalenti
è diventata molto più difficile, sempre più difficile e i centri
decisionali hanno cominciato a riempirsi di “apprendisti stregoni” che
pensavano – come in passato – di poter gestire la lotta al terrorismo
jihadista insieme all’alleanza con alcune correnti dell’Islam politico,
di poter agire in Iraq prima con gli sciiti e poi contro gli sciiti con
repentini cambi di alleanza, di poter armare la Jihad in Libia e in
Siria come fecero in Afghanistan, Cecenia, Jugoslavia e per poi
abbandonarla di nuovo, di poter continuare ad essere arbitri unici di un
negoziato tra israeliani e palestinesi che tutti percepiscono come
inutile e inesistente.
Il problema è che venti anni fa gli Stati Uniti
avevano l’egemonia mondiale dopo la dissoluzione dell’Urss. Venti anni
dopo lo scenario è cambiato. Sono in tanti nel mondo a percepire che
l’egemonia globale statunitense segna il passo, che altri soggetti
stanno emergendo, che l’alleanza servile con Washington non è sempre la
scelta migliore perché gli Usa hanno la brutta abitudine del dio
Saturno: mangiano i propri figli per paura che diventino troppo forti.
Quando il
generale egiziano Al Sissi fa di testa sua nella repressione delle
piazze nonostante le 15 telefonate del segretario del Pentagono che
pretendevano una scelta diversa, è il segno che qualcosa sta cambiando.
Quando la minaccia della sospensione dei finanziamenti annuali
all’Egitto diventa un’arma spuntata perché gli sceicchi di Riad
promettono il triplo di quello che arriva dagli Usa, è un segnale
rilevante. Quando gli Usa non sono riusciti a convincere nessun partner
regionale ad investire sulla loro pipelines “Nabucco” per gestire le
rotte di gas e petrolio che arrivano nel Mediterraneo, è un sintomo
importante. Difficile dire se lo scenario sarà meglio o peggio di prima
ma sta cambiando. Il problema semmai è che il cambiamento sarà violento,
tumultuoso, per moltissimi aspetti indecifrabile secondo le categorie
imperialismo-antimperialismo, alleati-nemici, progressisti-reazionari,
oppressione-autodeterminazione dei popoli. Il declino di una potenza
egemone come sono stati gli Usa in Medio Oriente non può che generare
una fase di devastante instabilità, di cambiamenti di alleanze, di
scontri e repentine tregue. Un nuovo equilibrio nascerà da un periodo di
grande caos.
Perché i partiti
della sinistra, i movimenti, le reti pacifiste da anni hanno perso la
bussola ed hanno rinunciato a prendere iniziative contro la guerra
permanente?
Infine, ma non per importanza, le osservazioni di
cui sopra agiscono anche sulla soggettività delle forze che pure in
questi anni si sono opposte alle guerre, alle invasioni, agli interventi
militari mascherati da guerre umanitarie etc. Questa soggettività in
parte si è dissolta e in parte si è “arruolata”. La dissoluzione ha
investito sia le forze in qualche modo ancorate ad una logica “campista”
tra imperialismo e antimperialismo che alla fine ha visto prevalere una
chiave di lettura tutta geopolitica piuttosto che di classe (aprendo
così una breccia al più consolidato armamentario teorico della destra in
questo campo). La dissoluzione dell’Urss non poteva che aprire questo
tipo di falla non solo sul piano delle relazioni internazionali ma anche
sulla capacità politica e teorica di leggere la nuova fase storica e di
collocarvi la propria iniziativa. Prima sulle Primavere arabe e poi
sulla Libia, sulla Siria e sull’Egitto abbiamo assistito a sbandamenti
impressionanti e sintesi frettolose. Lì dove sarebbe prevalere la
capacità di coniugare maggiore cautela nell’analisi delle forze in campo
e irrinunciabilità dello schieramento contro le aggressioni militari
delle potenze della Nato, abbiamo invece verificato un gettarsi nella
mischia che ha polverizzato – esattamente come in Medio Oriente – i
posizionamenti precedenti.
Una lettura schematica dell’Islam politico (che
invece è un fenomeno molteplice e complesso) è spesso sconfinata in una
forma di islamofobia alimentata dai circoli della sinistra “politically
correct”, esattamente come una eccessiva indulgenza verso le forze
islamiche in funzione antimperialista ha impedito di leggerne il
repentino – ma pur visibile - cambiamento di alleanze di molte di esse
con l’imperialismo Usa stesso. Abbiamo visto compagni e studiosi
stimabili apprezzare l’intervento dei militari in Egitto contro il
governo dei Fratelli Musulmani, ritenuti come il nemico principale. Una
posizione che sul campo ha una sua logica ma che rimuove completamente
il ruolo dell’imperialismo nell’area e gli effetti della sua
destabilizzazione “creativa”.
Marx diceva che non dobbiamo “mettere le braghe al
mondo”, ma il tentativo di ricostruire un punto di vista
internazionalista su quanto sta accadendo in Medio Oriente va perseguito
seriamente e senza la pretesa di arrivare subito ad una sintesi
spendibile perché questo, oggi e per un lasso di tempo non irrilevante,
non appare assolutamente possibile.
L’unica cosa certa – e su questo non possiamo
sottrarci e forse dovremo scontrarci – è l’urgenza di una chiara presa
di posizione contro l’aggressione militare alla Siria. Alla luce di
quanto abbiamo visto in questi anni sulla Jugoslavia, l’Iraq, la Libia
etc riesce davvero difficile accettare che qualcuno si lasci ancora
irretire dalle campagne per le guerre umanitarie.
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