lunedì 2 settembre 2013

Il liceo classico ‘è stato morto’ di Silvia Truzzi, Il Fatto Quotidiano

Convegno serale in una prestigiosa università milanese, domande ai relatori. Uno studente stupisce il pubblico ponendo il suo quesito – rivolto a un parterre misto – direttamente in inglese. Fa una bellissima figura, tanto che al termine dell’articolato discorso – rectius: speech – non trattiene un compiaciuto sorriso. Prima di rispondere, il moderatore chiede al giovanotto di tradurre a beneficio dei non anglofoni: lui esegue con frasi brevi, pensate in inglese. Verso il finale scivola: “Quando il protagonista è stato morto”. La lingua – anche quella straniera – batte dove il dente duole. Ma uno dirà: capita di sbagliare. Of course! Epperò l’orecchio del nostro studente modello non sente proprio la stonatura. Allo strafalcione non segue alcuna correzione e al tavolo dei relatori solo un canuto prof tradisce l’orrore con un impercettibile spasmo muscolare. Ma nessuno fiata: le correzioni, si sa, mortificano l’alunno.
Questa storia racconta benissimo l’Italia se – co m e spiega Repubblica – è vero che i licei classici sono a un passo dalla chiusura per un’inarrestabile emorragia di iscrizioni al Ginnasio. Perfino a Firenze è in crisi nera il liceo intitolato a quel tizio diventato famoso per aver scritto un’incomprensibile commedia in versi e per aver amato tutta la vita una tale Beatrice che manco gliel’ha mai data.
Molti giubilano: per anni, pregevoli ministri di destra e di sinistra ci hanno spiegato che sono fondamentali le tre “i” (inglese, impresa e imbecillità) e non certo le lingue morte. Che anzi potenzialmente sono perniciose per i teneri virgulti: si sa mai che traducendo una versione di Tucidide o Lisia, s’imbattano in inopportuni elogi della democrazia. Oggidì serve parlare l’inglese (ma spesso è solo globish), più che conoscere l’alfabeto di Omero o i Pensieri di Marco Aurelio (sì, il vecchietto del Gladiatore di Ridley Scott). Dopotutto i turboragazzi moderni – always connected, nativi digitali e probabilmente pure satellitari – sono tutti più o meno bilingui. Tra gli alfieri della nuova cultura globalizzata nessuno si pone il problema di cosa si dicono i ragazzi, oltre a rallegrarsi perché sanno farlo in una lingua diversa. Sapere non è più importante. Non esiste alcuna sanzione sociale verso l’ignoranza, perché abbiamo una classe digerente impresentabile anche da questo punto di vista (memo: il tunnel Ginevra-Gran Sasso scoperto dal ministro Gelmini). La cultura non dà da mangiare e dunque non serve. Tuttavia non bisogna sottovalutare le necessità dei giovani perché anche oggi – a.D. 2013 – continuano a fare le stesse cose di sempre, tipo innamorarsi. Solo che lo fanno così: “Con te accanto posso rinunciare ha tutto”, annuncia su un muro un writer in love. E sotto, un pignolo buontempone che sembra uscito dalla penna di Guareschi, ha aggiunto: “Anche all’italiano”.
Chi si azzarda a sostenere che sapere è (ancora) potere viene immediatamente tacciato di passatismo oscurantista e conservatore.
 
“Ora il vecchio mi parla d’ altre rive
d’altri tempi, di sogni… E più m’alletta
di tutte, la parola non costretta
di quegli che non sa leggere e scrivere. Sereno è quando parla e non disprezza
il presente pel meglio d’altri tempi
“O figliuolo, il meglio d’altri tempi
non era che la nostra giovinezza!”.
 
È indubbiamente vero, ma per saperlo bisogna aver letto L’analfabeta del vecchio, crepuscolare e polveroso Guido Gozzano.

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