La rapacità e i ricatti della famiglia Riva sul lavoro e l'economia nel nostro paese, si prestano ad alcune considerazioni che portano alla luce la natura del capitalismo italiano e dei suoi “prenditori”, ma che chiama in causa alcune conseguenze logiche che dovrebbero entrare come un tornado nell'agenda politica quotidiana.
Riva e i suoi rampolli hanno accumulato soldi, tanti soldi, prima producendo acciaio in proprio, poi accaparrandosi a due soldi l'Ilva attraverso le privatizzazioni dell'Iri volute da Prodi, diventando così i monopolisti del settore nel nostro paese. Ma, come testimoniano da anni i libri bianchi di Mediobanca, gran parte dei “prenditori” hanno deviato i profitti incassati verso operazioni finanziarie e conti correnti nei paradisi fiscali piuttosto che in investimenti produttivi per migliorare prodotti e processi di lavorazione e men che meno in bonifiche, il che avrebbe ridotto l'avvelenamento della popolazione tarantina o i morti tra chi lavora negli stabilimenti dei Riva. Peggio ancora. La sottrazione di capitali societari per rimpinguare le casse della “famiglia” ha raggiunto livelli tali da dissestare i bilanci fin quasi al fallimento. La cosa è stata talmente spudorata che la magistratura ha arrestato gran parte della famiglia Riva e sta cercando di recuperare il malloppo depositato nei conti off shore. Si è così prodotto il classico caso – quasi naturale nel capitalismo – di interessi privati che entrano in conflitto con gli interessi collettivi (salute, lavoro,ricchezza nazionale).
Appare altrettanto logico che qualora si manifesti tale contraddizione, i responsabili dei danni verso la collettività vengano espropriati per rimettere il patrimonio industriale ed economico “a valore”, nel senso della messa a disposizione degli interessi collettivi. In tal caso la nazionalizzazione dell'Ilva appare come una scelta logica, conseguente, in qualche modo dovuta.
A rafforzare questa logica conseguente vengono due esempi che pure abbiamo sotto gli occhi tutti i giorni. Nel caso della mafia, si procede giustamente all'esproprio dei patrimoni mobili e immobili dei boss e alla loro consegna alla gestione della collettività (vedi le aziende agricole o alcuni immobili rimessi sul mercato). Anche in questo caso i boss mafiosi – attraverso i loro prestanome – cercano di riprendersi le “loro” proprietà magari turbando le aste o minacciando le cooperative che adesso gestiscono le “loro” aziende. Ovviamente il compito dello Stato non dovrebbe essere quello di agevolare il ritorno delle proprietà nelle mani private dei boss mafiosi, ma quello di impedirlo.
Infine anche in politica stiamo assistendo a qualcosa che si presta bene al nostro ragionamento. Si afferma – nelle nuove leggi e nelle aule parlamentari – che un parlamentare che abbia anteposto i propri interessi privati a quelli pubblici fino a venirne condannato dai tribunali, debba decadere. Dunque deve essere “espropriato” del suo status di uomo o donna pubblici e del loro ruolo istituzionali.
Viene allora da chiedersi. Ma perchè la logica e la legge devono funzionare solo nel caso degli interessi privati dei boss mafiosi o dei politici corrotti e maramaldi e non debbano invece agire conseguentemente nel caso degli interessi privati dei “prenditori”? In modo particolare quando essi vengono indagati, arrestati e infine riconosciuti colpevoli di aver violato le più elementari leggi del capitalismo stesso (quindi anche quelle dello Stato italiano).
Se non si espropriano i patrimoni della famiglia Riva e li si riconsegnano agli interessi collettivi – tramite la nazionalizzazione – diventa quasi legittimo che Totà Riina e Berlusconi possano invocare un doppio standard e ricorrere alla più alte istanze della giustizia per rivendicare la supremazia dei loro interessi privati rispetto a quelli pubblici. Nel sistema capitalista è questo l'ordine delle priorità. Sarebbe paradossale. Oppure no?
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