Ora governanti e manager dicono che non lo sapevano, preferiscono fare la figura dei cretini piuttosto che quella dei complici.
Ma la svendita di Telecom
è solo un altro atto di un percorso annunciato e realizzato da
decenni, da parte di una classe politica e imprenditoriale che ha
cercato di salvare se stessa e i suoi fallimenti con la vendita
all'incanto dei beni del paese. E cha ha usato il liberismo, l'Euro e il
fiscal compact, la Merkel come scusa e protezione del proprio potere.
Ora dopo la svendita di Telecom alla principale concorrente, la
Telefonica spagnola, assisteremo a qualche giorno di lacrime di
coccodrillo e di compunte dissertazioni sulle politiche industriali e le
riforme. Poi tutto continuerà come prima perché tutta l'Italia è in
svendita.
La Grecia dopo qualche anno di politiche di austerità europea ha
conservato di suo il debito pubblico e la polizia che bastona chi
protesta. Tutto il resto è venduto, appaltato, posto sotto controllo
estero. Noi, più lentamente ma altrettanto inesorabilmente, stiamo
percorrendo la stessa strada. Perché abbiamo la stessa classe dirigente.
Il governo, se durerà, ha pronto un piano di privatizzazioni che non
può che riguardare ciò che resta del patrimonio produttivo. Ansaldo
Energia è già in vendita, seguiranno Enel, Eni, Finmeccanica,
Fincantieri e Trenitalia, che opportunamente è già stata separata dalla
rete delle ferrovie locali e pendolari in disarmo, per le quali non si
spende nulla. E per chi non è d'accordo ci sono le truppe di Alfano e i
teoremi di Caselli.
Alitalia è già francese
nonostante il paravento berlusconiano degli imprenditori patriottici,
tra cui Riva, sì proprio lui, e Colaninno grande affondatore della
Telecom, che aveva scalato con la benedizione di Massimo D'Alema.
Le banche privatizzate sono state oggetto e soggetto sia delle
svendite sia dei disastri industriali, dalla Fiat alla Pirelli a tutto
il Made in Italy. Ed è bene ricordare che tutta la politica delle
privatizzazioni dissennate degli anni 90 ha come autori principali
Ciampi e Prodi, che Putin ha definito l'altro suo amico italiano assieme
a Berlusconi.
Anche nel disastro industriale del paese trionfano le larghe intese e
non da oggi. La vera differenza tra PdL e Pd è che il primo è il
partito di un solo padrone, mentre il secondo vuole rappresentarli
tutti. E tutti assieme controllano la formazione del senso comune , in
modo che anche i cittadini vivano, senza colpa, a loro insaputa.
Sono due mesi che la casta politica,manageriale e finanziaria ci
spiega che c'è la luce in fondo al tunnel. È una balla, ma come si fa a
non crederci visto che il Presidente della Repubblica invoca e impone
stabilità proprio sulla base di essa.
Intanto i dati sul reddito di una delle province più ricche d'Italia, Brescia, parlano di tutta un'altra storia.
Nel 2011, quando il peggio della crisi doveva ancora venire, il reddito medio della provincia lombarda è calato dell'11% rispetto all'anno precedente, meno 2500 euro su poco più di 20000. E sappiamo che questa è una media del pollo perché nella crisi i più ricchi si arricchiscono.
Nel 2011, quando il peggio della crisi doveva ancora venire, il reddito medio della provincia lombarda è calato dell'11% rispetto all'anno precedente, meno 2500 euro su poco più di 20000. E sappiamo che questa è una media del pollo perché nella crisi i più ricchi si arricchiscono.
Eppure secondo l'Istat la gente vede rosa e questo ottimismo può
essere speso in Borsa e soprattutto per salvare il governo delle larghe
intese. Ottimismo diceva Tonino Guerra in una pubblicità, chi non è
ottimista è un disfattista.
Andrà avanti, anzi indietro, così fino a che ci sarà una rottura con
le politiche economiche italiane ed europee di questi ultimi trenta
anni. E fino a che la classe politica e imprenditoriale responsabile,
anche a sua insaputa, di esse non verrà mandata a casa.
Uno ai domiciliari, a casa gli altri responsabili del disastro, a partire dal loro massimo rappresentante Giorgio Napolitano.
di Stefano Feltri, Il Fatto Quotidiano
Abbiamo perso anche Telecom Italia. Gli spagnoli di Telefónica comprano il controllo su una delle più importanti aziende italiane, che in Borsa vale 7, 7 miliardi di euro, per qualche spicciolo, 300 milioni. Non è un’acquisizione come quella del marchio Loro Piana di qualche mese fa:
allora i francesi di Lvmh strapagarono per 2 miliardi l’eccellenza
italiana nella moda. Nel caso di Telecom, il sedicente “salotto buono”
della finanza regala agli spagnoli i resti di un’azienda che negli anni è
stata “spolpata”, come ha detto il presidente Franco Bernabè. È una “storia italiana”, per citare lo slogan di un’altra azienda simbolo di questo nostro capitalismo, il Monte dei Paschi.
Nella cronaca della distruzione di Telecom ci sono tutti: da Gianni Agnelli a Roberto Colaninno a Marco Tronchetti Provera e Corrado Passera.
Da Intesa Sanpaolo a Mediobanca, Generali e Benetton. Poco importa
ripartire i millesimi della responsabilità. È il risultato che conta:
un’azienda divorata dai debiti contratti da chi l’ha scalata senza soldi, privata della possibilità di investire e crescere.
I
capitani di sventura che hanno distrutto Telecom sono gli stessi che
governavano il grosso del capitalismo italiano di relazione: comandano
su Rcs-Corriere della Sera, a un passo dal portare i libri in tribunale,
hanno “salvato” l’Alitalia, che domani sarà consegnata ad Air France,
con tante scuse; hanno creato mostri finanziari come Romain Zaleski e
Salvatore Ligresti, capaci da soli di destabilizzare i bilanci delle
grandi banche. E hanno ridotto la Pirelli e la Fiat come sappiamo.
I nostri capitalisti all’impresa hanno preferito la rendita,
compiacendosi nelle articolesse encomiastiche che ottenevano sui
giornali di cui erano proprietari. Questa classe dirigente è stata
definita come una “élite estrattiva”: ha svuotato il Paese che le era
stato affidato e, una volta consumato il bottino, ne consegna i rimasugli al primo straniero che passa.
Nessun commento:
Posta un commento